La missione redentorista a Muro Lucano
Capitolo XVIII
Nel cuore di mamma Benedetta la letizia religiosa di quella Pasqua 1749, nonostante i tiepidi colori della primavera, ebbe il sapore amaro di un presentimento, che si identificava con lo strazio provato il venerdì santo, alla vista del suo Gerardo spasimante sulla croce. Era sicura che era stato solo il simbolo di un sacrificio più reale che incombeva sulla sua vita.
Anche per Gerardo quella Pasqua era come la misteriosa attesa del neofita, in armonia con la liturgia della settimana in albis.
Queste previsioni si fecero consapevoli e coscienti con un tratto della Provvidenza divina nell’occasione dell’arrivo a Muro Lucano della Missione dei padri Redentoristi, la domenica 13 aprile 1749. La popolazione, già preparata dalla precedente predicazione dei P. Garzilli e Fr. Onofrio, attendeva questo straordinario avvenimento religioso; la Missione si sarebbe svolta in tutte e tre le parrocchie di Muro. Fin dai primi giorni si venne a creare quell’atmosfera caratteristica di esaltazione religiosa, che faceva dimenticare tutte le occupazioni della vita quotidiana, tanto più che i missionari erano degli autentici uomini di Dio. Il superiore era il P. Paolo Cafaro. La sua figura alta, austera, poderosa, anche se non robusta, il suo viso, atteggiato sempre a serietà, terminante in un mento triangolare, lo facevano paragonare spontaneamente ad una rupe, e gli erano valso il soprannome di Ira di Dio.
Il fondatore dei Redentoristi S. Alfonso de Liguori se lo era scelto a direttore spirituale, come in seguito farà anche Gerardo. L’altro missionario era il P. Francesco Margotta, già vicario generale della diocesi di Conza. Dedito alla penitenza con l’ardore di un anacoreta, se la prendeva contro il proprio corpo, occasione di deviazioni sensuali: il nostro corpo – soleva dire – è una bestia che bisogna domare solo a colpi di bastone.
A controbilanciare questi due, vi era il P. Carmine Piocchi, tutta simpatia, dolcezza e bontà; sul suo volto rubizzo, illuminato da un perenne sorriso, aleggiava la tranquillità del suo spirito, che contagiava chi lo avvicinava. Anche per lui un motto caratterizzante: Affogate tutti i vostri affanni nel grande mare della misericordia di Dio e dormite tranquilli.
Intorno a queste figure principali, si muoveva un drappello di altri diciotto missionari, ognuno al suo ruolo, zelante e sagaze. La Missione Redentorista, come era stata ristrutturara di schemi precedenti dal genio Alfonsiano, era un capolavoro di tecnica religiosa e psicologia empirica, adattissima a risvegliare e rinfocolare il senso cristiano nelle popolazioni meridionali dei centri rurali. Questa gente, più destituita di assistenza religiosa per la scarsità del clero, che preferiva le comode, inutili e aristocratiche mansioni dei centri urbani, veniva letteralmente affascinata dal progressivo svolgersi della Missione, che penetrando in quelle coscienze rudi e sincere, commoveva, incideva, convertiva.
La scossa iniziale dal torpore religioso avveniva per mezzo di prediche meditative sugli eterni destini dell’uomo: l’orrore di una morte impenitente, il tremendo giudizio inappellabile di Dio, la dannazione all’inferno … di volta in volta
sottolineati con coreografiche e impressionanti funzioni che si svolgevano alla balzellante luce delle candele: apparizioni di teschi colloquianti col predicatore, fiamme ruggenti, e orripilanti rappresentazioni di anime dannate... Una volta scosse da tali sferzate apocalittiche, si facevano discendere sulle anime, consolanti visioni di salvezza: l'amore del Redentore crocifisso, l'intercessione della Madonna, la preghiera. Gerardo, come tutti i suoi paesani, e più di tutti, era sempre presentissimo alle funzioni, processioni ed anche alle flagellazioni in programma nella Missione. Anzi, completamente affascinato da quei Missionari, verso i quali di ora in ora si sentiva sempre più attratto, si prodigava in tutte le maniere, per rendersi utile, diventando servitore, sguattero, aiuto-catechista ... Tra la folla umile, oscura e compatta che ogni sera gremiva già molto per tempo le navate della chiesa, troviamo mamma Benedetta. La sua anima semplice si sentiva trasportare dall’onda di commozione; ma non riusciva a dissipare quell’oscuro presentimento della perdita di Gerardo; il quale avrebbe fatto tutto il possibile per seguire i Missionari: ne era sicura! E così, nella seconda settimana della Missione, madre e figlio - ognuno per conto suo - andarono a parlare col superiore P. Cafaro.
Questi, nei giorni precedenti, aveva avuto occasione di accorgersi e studiare Gerardo; questo giovane sempre pronto, ilare, entusiasta; e, da esperto conoscitore, aveva intuito di avere a che fare con un'anima eccezionale, racchiusa in un corpo troppo gracile. Alla richiesta di Gerardo di essere ammesso in Congregazione in qualità di Fratello Laico -richiesta che lui già aveva preveduta, valutata e decisamente negata -la sua risposta fu un semplice, energico, anche se gentilmente comprensivo, no:
-Figlio mio, apprezzo le tue buone e sante intenzioni, ma tu non sei fatto per noi. La tua salute non è adatta a sostenere i duri lavori e le austerità di vita della nostra Congregazione. Gerardo non si arrende: -Padre, mettetemi alla prova. -Ma che vuoi provare? È tanto evidente! Gerardo gli si getta ai piedi implorando: -Padre mio, se rifiutate di ricevermi, mi vedrete ogni giorno insieme ai poveri, a chiedere l’elemosina alla porta del vostro Convento.
Il P. Cafaro si accingeva a fare i conti con la tenacia di Gerardo più dura della sua. Ad ogni occasione egli ripete la sua domanda accompagnandola con i più sinceri ed accorati accenti; ma le negative sono sempre più recise e meno delicate.