Il cantiere della carità
Capitolo XVII
Il riposo non poteva durare a lungo per un uomo ormai lanciato. Tanto più che la stagione autunnale già s'inoltrava a grandi passi, consigliandogli di uscire da quelle montagnole brulle dove il grano è alle dipendenze di un cielo troppo avaro di pioggia e le viti ingialliscono innanzi tempo sui tronchi annosi degli olmi.
E una mattina: mentre l'alba ancora indugiava tra le cime dei quercioli carichi di guazza, rimontò a cavallo, attraversò i boschi odorosi di funghi e di legno fradicio, in compagnia degli uccelli migratori che passavano a stormi nell'aria umida e triste di ottobre, e raggiunse la pianura. All'indomani era in vista dei vigneti melfitani dove ferveva l'opera della vendemmia; poi risalì la collina aerea di Melfi e s'inoltrò nelle viuzze, affollate di carri ricolmi di uve. Dalle cantine spalancate giungevano ondate dolciastre di mosto, ronzii di vespe e di mosconi.
Tra quelle viuzze maleodoranti, davanti a quegli usci da cui s'intravedevano i pigiatori ballonzolare a piedi nudi sui tini, l'occipite contro le nere travi, e le donne rovesciare le conche traboccanti di rnosto nelle botti, si svolse per giorni e giorni l'opera umile e grande del santo. Non mancarono rapide puntate nelle campagne e nelle masserie lontane, ma l'opera principale si svolse proprio qui, sul vano degli usci dove si stagliava la sua figura alta e sorridente, con le mani sempre piene di immagini sacre e di cartelline dell'Immacolata cioè di rettangolini di carta velina che portavano impressi, ripetuti in serie, il nome e la figura della Vergine. Ogni nome e ogni figura si ritagliava con le forbici e s'inghiottiva con acqua. Il santo se ne serviva per ottenere miracoli d'ogni genere.
Lo coadiuvavano nella questua i vari benefattori della città che pensavano a raccogliere e tenere in deposito il grano e il mosto nelle loro case.
Gerardo intanto correva da una parte all'altra, moltiplicando la sua presenza per far giungere a tutti il suo ringraziamento e il suo conforto. Era il grande sorvegliante del cantiere della carità, sempre atteso e disputato dai benefattori dell'Istituto che volevano il privilegio di fornirgli ospitalità e ristoro per averne in cambio le benedizioni del cielo. Egli accettava l'ospitalità anche dei poveri, sempre mirando all'opera spirituale da svolgere nelle loro anime per portarle a Cristo.
Una sera fu invitato da un certo De Martinis, cuoco del vescovo. Costui sarebbe stato il più brav'uomo del mondo, senza quel brutto vizio della bestemmia. Ma non lo faceva apposta il poverino, tanto che si morsicava le labbra dopo ogni moccolo che gli usciva di bocca.
Gerardo gradì l'invito e si adattò volentieri a mangiare in una cucina bassa e affumicata, con tovaglie non proprio di' bucato. Mancò il lusso, la proprietà, la pulizia, ma non la solita allegria. Quella sera il De Martinis montò una guardia rigorosa alla lingua col meraviglia della moglie e dei figli: era la prima volta che non gli scappava qualche sfarfallone. Poi, volendo completar l'opera, invitò il santo a riposarsi in casa sua.
Tanta semplicità, tanto buon volere meritavano il giusto compenso e Gerardo accettò. Quella sera le donne e i figli dovettero accomodarsi sulle sedie e sulle scranne tarlate della cucina. I 'due uomini invece salirono nell'unica camera conversando di anima e di Dio. Conversarono a lungo, poi, nel dargli la buona notte, Gerardo gli posò una mano sul petto, dicendo: « Amiamo Dio, amiamo Dio! ».
Il De Martinis sobbalzò quasi spaventato: quella mano scottava come un ferro rovente. Da allora non fu più udito bestemmiare e come chi gli domandava il motivo del repentino cambiamento, rispondeva: « Come potrei ancora bestemmiare ? Ho dormito con un santo ». Ma tali ospitalità costituivano eccezioni. Ordinariamente erano i superiori che fissavano in partenza le famiglie presso cui doveva alloggiare. Queste venivano scelte tra i benefattori del collegio ed erano in genere famiglie benestanti che avevano la possibilità di aiutare i missionari, perché la Chiesa di Dio, per vivere, ha sempre avuto bisogno della carità dei fedeli. In questo caso anche la ricchezza diventa mezzo di redenzione delle anime.
Gerardo accettava ogni cosa, col sorriso sul labbro, con umiltà schietta e sincera. Nell'abbondanza si sentiva più povero, più vicino ai poveri. Questi potevano sempre avvicinarlo e parlargli, come a fratello ed amico, sicuri di essere compresi e consolati. E i ricchi non si vedevano respinti a motivo delle loro ricchezze se ne fossero stati distaccati con l'affetto. Per lui che guardava le cose con l'occhio della fede, le distinzioni sociali perdevano il loro valore.
Tra le famiglie ospitali vi era in Melfi la signora Scoppa che fu testimone di un'estasi prodigiosa.
Un giorno, entrando in casa, egli posò gli occhi su un'immagine della Madonna che pendeva in alto, alla parete del salottd. Subito, tutto acceso, esclamò: O donna Anna, che bella cosa che hai!».
Così parlando, si alzò quasi otto palmi da terra fino a raggiungere la sacra effige e baciarla e ribaciarla. La buona signora non resse, gettò un grido di stupore e cadde svenuta. Da allora ogni volta che lo riceveva, era tentata di inginocchiarsi ai suoi piedi e venerarlo come un angelo del cielo. Da questa ammirazione nacque un diario che narrava le meraviglie operate dal santo tra le mura della sua casa. Tale diario, custodito gelosamente dalla famiglia, andò disperso nel 1818 e con esso il ricordo di quelle memorie. Ne sopravvive forse solo la seguente profezia d'incerto valore.
Un giorno Gerardo fu avvicinato in casa Scoppa da una povera donna con gli occhi rossi di pianto. Una tragedia in famiglia: il marito infermo, anzi moribondo. Solo un miracolo lo avrebbe potuto salvare.
«Lo so, lo so», rispose con calma imperturbabile, «ma non aver paura. La malattia sarà lunga e dolorosa, ma l'infermo guarirà .; ti assicuro che guarirà».
E il futuro gli diede ragione.
Trovandosi in Melfi, non poteva mancare la visita a mamma Vittoria, se non altro, per ragione della questua. Il santo la trovò fuori della grazia di Dio, in uno di quei momenti in cui ci si vorrebbe nascondere sotto terra, senza vedere nessuno. Si accorse subitq che tirava aria di tempesta, perché, appena la domestica gli aperse, senti venire dai bassifondi della casa i berci e le proteste di un uomo che sembrava irritatissimo : « No », diceva, « la botte è guasta; non la posso prendere ». La signora cercava di replicare, ma fiaccamente : sentiva d'aver torto.
Quando fu avvisata dell'arrivo di Gerardo, salì in fretta con un certo disappunto sul viso. Chiese scusa di doversi presentare così, ma non sempre si è padroni dei propri nervi. Aveva una botte di venti some ... del vino migliore di tutta Melfi. I compratori se l'erano disputato, rilasciandole la caparra. Quel giorno erano venuti per ritirarlo, ma il vino non era più quello: puzzava di aceto a mezzo miglio. E, si capisce, nessuno più lo voleva. Una bella perdita per una povera vedova!
E Gerardo: « Calma, calma! Non è niente. Prendi questa cartellina dell'Immacolata e mettila nella botte. E poi ... poi vedrai ». La donna lo guardò sorpresa: una cartellina nel vino ? Egli aveva voglia di scherzare, e non era proprio quello il momento. Invece Gerardo non voleva scherzare ; perciò, serio e risoluto, disse: «Ma, insomma, chi è che deve fare il miracolo, tu o Dio ? Ubbidisci, ti dico! ». La donna ubbidì, poi richiamò i compratori per l'assaggio ; ne seguì una scena movimentata di fronti inarcate, di gesti e frasi di stupore tra lo schioccare rumoroso di lingue contro il palato. In conclusione il vino fu venduto agli stessi compratori che l'avevano disdetto e con soddisfazione generale.
Non terminarono qui i benefici largiti alla famiglia Murante col beneficio materiale andò congiunto quello spirituale.
Un giorno, mentre la signora Teresa Murante, comare di Vittoria, si intratteneva col santo, il discorso cadde sulla direzione spirituale, necessaria per conseguire la perfezione. Lei si dichiarava soddisfatta del proprio direttore, un uomo tanto bravo, tanto buono e tanto gentile che aveva saputo comprenderla e consolarla, ma egli la redarguì bruscamente e le ingiunse di lasciare quella direzione, perché sentimentale ed umana e tale da compromettere direttore e diretta. Con essa non il cielo avrebbe raggiunto, ma l'inferno.
La donna, riconoscendo giuste tali osservazioni, secondo i suoi consigli, si rivolse al canonico Rossi: se ne trovò veramente contenta.
Il canonico, nipote del fondatore del monastero di Ripacandida e uomo di virtù eccezionali, era venerato dal santo, che, trovandosi in Melfi, non mancava mai di fargli visita per incitarsi a vicenda ad amare il Signore. Lo fece anche questa volta, ma, alle prime parole, prese subito fuoco : il respiro divenne affannoso ; il cuore pareva scoppiasse. Allora il canonico capì di che si trattava e gli versò sul petto acqua gelata. Gerardo rinvenne e, confuso, a capo chino, si allontanò senza parlare.
Da Melfi prosegui per Rionero, oggi popolosa cittadina, ricca di sorgenti minerali e d'industrie, ma allora un grosso borgo lungo le propaggini nordorientali del Vulture. Fu accolto dai signori Giannattasio nel loro ampio palazzo, contornato di giardini e di piante e vi si trovò a suo agio, in un clima di perfetta familiarità. Forse tra quelle mura aveva alloggiato durante la missione del '49 ; certo, vi era conosciutissimo e con lui il p. Fiocchi e i padri di Deliceto. Così si spiega quella scherzosa giovialità, quella domestichezza di tratti e di parole che la tradizione gli attribuisce anche riguardo alle tre o quattro figliuole ancora nubili, tanto bene avviate verso la perfezione e tanto ammiratrici della sua santità. Erano scherzi e battute che si concludevano sempre in nuovi incentivi all'amore verso Dio. Una volta si conclusero addirittura con una profezia strepitosa.
Il santo aveva visto una di queste figliuole che tesseva al telaio, tutta immersa nel suo lavoro: una mano al pettine, una alla spola, i piedi sulla calcola. Le sorrise, le fece un profondo inchino e le baciò la mano in perfetto stile cavalleresco. La ragazza reagì con un certo sgarbo guerriero, ma egli, fattosi subito serio, disse « Perché te la prendi ? Ho salutato la sposa di Cristo : perché tu dovrai essere suora e morire da gran serva di Dio ».
Allora sì che la ragazza passò dallo sdegno al riso quasi sguaiato : « Io monaca ! Ma non me lo son mai sognato ! ».
« Eppure è così ».
La ragazza prenderà il velo nel monastero benedettino di Atella col nome di suor Maria Cherubina.
Da Rionero scese fino ad Atella dai signori Graziola ; poi piegò a destra fino a Ruvo del Monte. Quali miracoli vi operò ? Quali conversioni ? La storia tace; i processi apostolici ricordano solo una estasi avvenuta in casa Blasucci, ma gli avvenimenti dovettero essere davvero straordinari se Gerardo, nella prossima primavera, cercherà di evitare il passaggio tra quelle mura per timore che si avessero a ripetere le sollevazioni popolari dell'autunno precedente.
Di tali dimostrazioni egli si lamentava poi amorosamente col suo Dio: « Signore, - diceva - tu operi molte cose per mezzo di me peccatore ; e poi perché le fai sapere a tutti ? ». Se fosse dipeso da lui, egli avrebbe voluto la noncuranza e il disprezzo. Più la noncuranza, per passare sconosciuto nel mondo.
Con questi propositi, tornato a Deliceto, si prese una bella rivincita degli onori di Ruvo. Perché, rispedito a Lucera, importante capoluogo del Tavoliere, volle rimanervi sconosciuto tra la gente della strada. Eppure non gli mancavano ammiratori ed amici, come quel suo figlio spirituale, don Luigi Mercante, uditore del tribunale della città, anima già incamminata nelle vie contemplative. In una lettera a suor Maria di Gesù, Gerardo lo chiama: « Il nostro caro Don Luigi» ed afferma che « egli non può trovar riposo e smania per Gesù Cristo. Tutto si è visto immerso in Dio, né può separarsi da Gesù Cristo: mira il mondo come un niente e tutte le creature le mira in Dio, ama Dio e si trasforma in Dio» (Lettere e Scritti, pag. 55).
L'elogio, davvero lusinghiero, più che del discepolo, rivela il processo ascensionale del maestro, completamente trasformato in Dio. Ma anche il discepolo doveva essere bene avanti nel distacco dal mondo e molto affezionato al santo per mettergli a disposizione la propria abitazione. Questi però volle passare da sconosciuto in mezzo a una città straniera. Aveva dormito tante volte sul nudo pavimento in casa di amici, ora voleva sperimentare qualche cosa di più eroico: dormire addirittura all'addiaccio, come l'ultimo pezzente della terra. Si ritirò dunque in un luogo solitario, forse tra i ruderi del vecchio castello di Federico II, felice di potere assaporare finalmente tutti gli effetti della povertà assoluta, onde ripetere col Maestro: « Non ho dove posar la testa ».
La notte era piuttosto fredda e umida e il vento di ottobre passava, discorrendo, tra i massi consunti dal tempo. Si ravvolse nel mantello e si distese per terra in comunione con la natura e con Dio.
Questa era la perfetta letizia !