L'arresto della morte
Capitolo XXXVIII
I lenti rintocchi della campana di mezzogiorno vennero incontro a Gerardo che saliva l'ultima volta la collina di Materdomini per addormentarsi nel sonno della morte in mezzo ai suoi confratelli. Era la domenica 31 agosto del 1755.
Lo attendeva il padre Caione già prevenuto sulle condizioni dell'infermo. Eppure, lo confessa lui stesso, al vedere quello scheletro ambulante, ravvivato solo dagli occhi luminosi, non riuscì a frenare le lacrime. E pensò prossima la fine. Lo stesso pensiero era condiviso dal santo che trasformò la sua stanzetta nell'altare del suo sacrificio. Fece apporre sulla porta una scritta che diceva: « Qui si sta facendo la volontà di Dio, come vuole Dio e per quanto tempo piace a Dio».
Sulla parete di fronte al letto fece appendere un grande Crocifisso tutto squarci e sangue e, sotto al Crocifisso, una Vergine in gramaglie, con le sette spade confitte nel cuore. Ivi posava continuamente gli occhi per immedesimarsi nella stessa agonia. Anzi, nelle ore calde del pomeriggio, si faceva adagiare su un divano, posto ai piedi delle care immagini e vi si tratteneva ore e ore, quasi a raccogliere il sangue del Maestro e le lacrime della Madre.
Anche il suo era un sacrificio cruento : tutto il corpo sembrava sciogliersi in sangue. Ne versava fino a dieci libbre al giorno, mentre la pelle si copriva di sudore. Intanto cresceva la febbre e il petto si stringeva sotto la morsa dell'oppressione che gli serrava la gola. Il cuore batteva con violenza. A queste fasi ipertensive succedevano deliqui e svenimenti: allora il cuore sembrava aver sospesi i suoi battiti e il corpo in preda al freddo della morte.
Impossibile trangugiare qualunque cibo, perché una nausea invincibile gli chiudeva ermeticamente lo stomaco. Si nutriva appena con qualche sorso di liquido.
La violenza del male non sfuggì al dottor Santorelli sempre vigile accanto al suo letto, e non sfuggì neanche ai confratelli che si recavano spesso a contemplare lo spettacolo della morte di un santo e ne partivano compunti.
« è finita ! » si sussurravano a vicenda.
Gerardo non se ne dava pensiero : sempre sereno, sempre tranquillo, sempre con lo sguardo sul grande Crocifisso e sulla Madre Addolorata, senza batter ciglio, come immerso in un'estasi prolungata. Solo una volta il padre Rettore lo trovò leggermente turbato e gliene chiese il motivo. Dopo un gran sospiro, lasciò capire d'essere stato tentato in materia di purezza, ma non trovava termini per esprimersi, perché disse: « Io non so cosa sia questa tentazione ... Io ho voluto sempre bene al mio Dio».
Il tema dell'amore tornava frequentemente sulla sua bocca, ed era un amore di unione alle disposizioni dell'Altissimo.
Un giorno il padre Caione lo esortò ad uniformarsi alla divina volontà. Ed egli: « Sì, Padre, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio e che io sia inchiodato su questo letto, come stessi inchiodato sulla stessa volontà di Dio. Anzi mi figuro che io e la volontà di Dio siamo divenuti la stessa cosa».
Anche nei momenti più cruciali fu udito ripetere: «Patisco, perché non patisco ! Signore, patire e patire ! ».
Un altro giorno il Dottore gli domandò se desiderava vivere o morire. Ed egli: « Né vivere, né morire; voglio solo ciò che vuole Dio ».
« Ma se dipendesse da te, che cosa sceglieresti ? ».
« Non lo so neanch'io: da una parte vorrei morire, per unirmi con Dio; dall'altra mi dispiace morire, perché non ho patito». Desiderio di Dio ; sofferenza: tra questi due poli oscillava continuamente il suo spirito, ma si fermava forse di preferenza sul primo. Unirsi a Dio ! L'aspirazione lo faceva sobbalzare dal letto e gli rendeva il volto di bracia.
Una volta il padre Caione lo vide lanciare un'occhiata al Crocifisso e prender fuoco. Il volto, egli disse, sembrava tutto pezzato di scarlatto. « Che cosa hai ? », gli chiese. Egli cercò modestamente di schermirsi, ma costretto dall'ubbidienza a parlare, disse con lo spasimo di un prigioniero che voglia infrangere i ceppi: « Ah, Pa-dre, ho un gran desiderio di unirmi con Dio ».
Tale intensità di sofferenza, congiunta col soverchio ardore interno, consumò ben presto tutte le risorse del suo organismo: dopo sei giorni dal ritorno a Caposele, sembrò vicina la partenza per l'eternità e si pensò d'amministrargli i conforti della Religione.
Il venerdì, 5 settembre, il padre Francesco Buonamano, ministro del collegio, gli portò il viatico. Lo trovò sul letto in atteggiamento tanto umile e devoto che commosse i presenti. Gli andò vicino, gli sollevò la particola davanti agli occhi, dicendo : « Ecco quel Signore che fra poco deve esser vostro giudice. Ravvivate la fede e presentategli i vostri atti di amore ».
E Gerardo, congiungendo le mani: «Signore, Voi sapete che quanto ho fatto e ho detto, tutto ho fatto e detto per onore e gloria vostra. Ora muoio contento, perché spero di non aver cercato altro, in tutto questo, che la gloria vostra e la vostra sola volontà». Sporse leggermente la lingua; piegò le mani sul petto e socchiuse gli occhi parlava con Gesù.
All'indomani, sabato, le sue condizioni si erano talmente aggravate che si discuteva se dargli subito l'estrema unzione, o attendere qualche ora. Era là, steso sul letto, esanime, il capo abbandonato sui guanciali. Tutta la vita pareva concentrata in quegli occhi levati verso il cielo, quegli occhi tanto accesi sul volto di cera liquefatta. Pareva dicesse: « Eccomi, vengo, per fare, o Dio, la tua volontà ».
Fu riscosso dall'estasi : era entrato il padre Caione stringendo tra le dita un biglietto : « Ti scrive il padre Fiocchi», gli disse spiegando il foglio, « ascolta bene ciò che vuole ».
Lesse adagio adagio lo scritto: «Ora », concluse, «vedi tu il da farsi ».
Gli consegnò il foglio, ritirandosi prontamente.
Gerardo se lo pose sul petto. Era la volontà di Dio, manifestata dal suo direttore di spirito : voleva che stesse meglio e si fosse lasciato passare gli sbocchi di sangue. « Signore », ripeteva mentalmente il santo, « si faccia di me, secondo la tua volontà! ».
In questo atteggiamento di supplica lo trovò il padre Garzilli che, fingendo d'ignorare la lettera, gli disse : « Che hai sul petto ? ».
« è l'ubbidienza del padre Fiocchi: vuole che stia meglio e mi faccia passar gli sbocchi di sangue ».
«Bravo! Così ubbidisci? ». E con la mano accennava a una bacinella di sangue, posta vicino ai guanciali, « non ti fai scrupolo a disubbidire al tuo padre spirituale ? ».
« è vero », mormorò con filo impercettibile di voce, e pregò l'in-fermiere di allontanare la bacinella. Di botto il sangue ristagnò, mentre prima ne versava a bocca piena.
Allora si rivolse sorridendo al Padre Garzilli. Voleva dire « Va bene così ? ».
Ma il Padre scrollò la testa: « No, la tua ubbidienza non è com-pleta. Il padre Fiocchi vuole che tu non solo ti faccia passar gli sbocchi di sangue, ma anche la febbre e ti alzi dal letto guarito».
Gerardo rispose immediatamente: «Padre, giacché è così, vo-glio ubbidire in tutto ». La febbre cessò all'istante. Passata la tensione del male, il suo corpo si abbandonò come un cadavere in uno stato di atonia completa. Lo trovò così, al mattino del giorno 7, il Dottore e lo credette nello stato preagonico. Ma il santo, che gli lesse il pensiero, disse con giovialità
« Lo sai? Domani debbo alzarmi ».
Il povero Dottore si domandò se delirasse, ma l'altro insisté « Sì, sì, domani debbo alzarmi. Non c'è dubbio. Se mi vuoi dare qualche cosa da mangiare, son pronto ».
« Ma che dici ? Vuoi morir sul colpo ? ».
« No, stai tranquillo. Ora non posso morire, perché debbo far l'ubbidienza al padre Fiocchi. Egli vuole che io stia bene e mi alzi di letto ».
Bisogna dire che il Santorelli avesse un concetto molto alto dell'ubbidienza del santo perché, dopo vari tentennamenti, finì per ac-condiscendere ai suoi desideri. Ma ora s'imponeva un nuovo problema: cosa dargli da mangiare ? Ad un infermo in quello stato ogni cosa poteva riuscir fatale.
Intervenne ancora una volta Gerardo: «Mangerei volentieri qualcuna di quelle albicocche che sono là, nel tiretto del tavolino ». Erano delle magnifiche albicocche portate dalla famiglia Salvadore. Forse le aveva preparate con mano amorosa la giovane Isabella, ripensando con nostalgia al santo che le aveva schiuso, coi suoi discorsi, uno squarcio di cielo. Certo, conservavano ancora il profumo della terra di Oliveto e lo spandevano per la stanza.
« Mangiare le albicocche ? è una vera pazzia ! », protestava il Dottore, dimenando le braccia.
« No, vedrai: mi faranno bene».
« Fate voi; io me ne lavo le mani! », concluse il Dottore, mentre l'infermiere prendeva per il picciolo la più bella albicocca, ponendola sotto gli occhi del santo: « La vedi quanto è bella ? Te la do se mi prometti d'ubbidire al padre Fiocchi».
Gerardo sorrise abbassando la testa e la mangiò con molto appetito. Dopo qualche minuto, ne chiese una seconda; poi una terza. Quella sera il Dottore tornò a casa molto agitato e non potè dormire a causa di quelle benedette albicocche: « A un moribondo! ... Se non muore questa volta, non muore più ! ». Con questo pensiero nella testa, all'indomani, appena sbrigate le visite più urgenti, salì con molta apprensione la collina di Materdomini : « Se lo trovassi morto », diceva tra sé aprendosi a fatica il varco sul piazzale nereggiante di pellegrini, « non me ne meraviglierei affatto ».
Andò difilato nella sua stanza col cuore grosso, e bussò : silenzio assoluto. Spinse l'uscio: il letto era rifatto, ma l'infermo mancava. Uscì nel corridoio in preda ad una agitazione ancora più forte, per domandare che ne fosse di Gerardo. Gli fu risposto: « Gerardo ? Si è alzato di buon'ora e adesso se la passeggia per casa e per il giardino ! ».
Egli credette di sognare, ma poi, affacciandosi alla finestra, scorse l'amico che camminava lento lento, appoggiandosi al bastone. Camminava con una certa timidezza, come un bambino che tema di cadere a ogni passo. Allora sì che alzò gli occhi al cielo, esclamando: « Ho capito: qui c'è il dito di Dio. Solo la gran fede che ha nell'ubbidienza, lo ha salvato dalla morte ».
E il suo giudizio fu condiviso dai confratelli : anzi dallo stesso Gerardo. A chi si congratulava con lui per la recuperata salute, rispondeva che il Signore aveva voluto mostrare quanto gli fosse gradita l'ubbidienza. Più esplicitamente lo disse qualche giorno dopo allo stesso Santorelli : « Io dovevo morire nella festa della Madonna e il Signore mi avrebbe fatto la grazia di condurmi in paradiso; ma io gli chiesi di prendermi all'indomani, per non morire in mezzo a tanta confusione e rumore, ma specialmente per non recare soverchio incomodo ai poveri Padri e a tutta la comunità, affaticata dall'immenso concorso di pellegrini. - Quell'anno, annota il padre Caione, essi raggiunsero i dodicimila - Ma poi è intervenuta l'ubbidienza e ho dovuto sopravvivere ».
Sì, sopravvivere : è la parola esatta. Non fu una guarigione vera e propria. Fu una sospensione misteriosa del male che gli dava la possibilità di restare in vita con un corpo sfinito e prossimo alla fine.
Continuò per otto o dieci giorni ad alzarsi di letto e a passeggiare lentamente in giardino nelle ore calde, sempre appoggiato al bastone. Forse qualche volta potè partecipare alla mensa comune. Più spesso potè raggiungere la chiesa da cui era separato dalla larghezza di un corridoio. Poi si ritirò definitivamente tra le sue quattro pareti, dividendo il tempo tra letto e lettuccio. Quando si sentiva in forze, prendeva in mano la penna e, seduto sul letto, il foglio sulle ginocchia, lo sguardo posato sul Crocifisso, rispondeva ai figliuoli spirituali che gli aprivano ancora una volta i segreti delle loro anime.
Di queste lettere, scritte sulla soglia dell'eternità, ci resta solo quella diretta ad Isabella Salvadore, la giovane nipote dell'Arciprete di Oliveto ed è la perla più suggestiva dell'epistolario gerardino. è il suo testamento spirituale, ereditato da un'anima pura, sorella ideale di tutte quelle anime che il santo aveva strappato dal mondo e sposate a Cristo per l'eternità.
La lettera è prima di tutto una confessione aperta e sincera della grande anima di un santo : egli che aveva esercitato il suo apostolato specifico in un campo tanto pericoloso per le suggestioni che esercita nei nostri cuori, egli che era potuto sembrare troppo umano a chi non poteva raggiungere l'altezza dei suoi ideali, pro-prio ora sul letto di morte che è per tutti la cattedra suprema di verità, davanti al Crocifisso che dominava il cielo della sua stanza, ha cantato l'inno più bello alla purezza del suo amore, in cui l'umano e il divino perdono la loro reciproca diffidenza e accordano e fondono insieme perfettamente la loro voce: « Figlia mia cara, non vi potete immaginare quanto v'amo in Dio, e quanto io desidero la vostra eterna salute, perché Dio benedetto vuole che io tenga un occhio particolare sulla vostra persona. Ma sappiate, figlia benedetta, che il mio affetto è purificato da ogni ardore di mondo; è un affetto divinizzato in Dio. Vi replico dunque che io vi amo in Dio, non fuori di Dio ; e se l'affetto mio uscisse poco poco fuori di Dio, sarei un tizzone d'inferno. E colpe io amo voi, così amo tutte le creature che amano Dio; e se io sapessi che una persona amasse me fuori di Dio, da parte del mio Signore la maledirei, perché il nostro affetto deve essere purificato in amare ogni cosa in Dio ».
La parola è assertiva : nessun dubbio, nessuna ansietà, nessuno scrupolo sfiora la sua mente. Il suo amore verso le creature non è mai uscito, nemmeno di una linea impercettibile - poco poco - fuori di Dio. Né mai ha permesso che altri lo facesse nei suoi riguardi. Altrimenti avrebbe preso le parti di Dio offeso, per maledire il sacrilego, usurpatore dei diritti del Creatore.
A questo motivo se ne intreccia un altro, il principale. Dalla confessione si passa all'esortazione. E' il tema che ha svolto oralmente con la giovane Isabella e con tutte le giovani con cui si è trovato a contatto nel breve corso della vita: la scelta di Dio. E' questo non solo il partito migliore, ma l'unico per chi vuole essere felice per sempre. Sul letto di morte la sua parola si accende di una forte nostalgia di cielo: « Mia carissima sorella in Gesù Cristo, Dio sa come sto, eppure il mio Signore permette che io vi scriva di proprio pugno, onde da questo potete argomentare quanto Dio v'ama; ma quanto più vi amerà se farete tutto quello di cui costi vi pregai ... Se farete quanto vi pregai, darete una continua consolazione al mio Dio ed a me. Figlia cara, non c'è altro che amare Dio solo e niente più. Perciò vi prego che vi spogliate di tutte le passioni ed attacchi del mondo, e vi uniate e stringiate tutta a Dio ... Che bella cosa essere tutta di Dio! Lo sanno quelle benedette e beate anime che lo provano: provatelo voi pure e poi me lo direte ... ».
Il suo pensiero nello scrivere queste righe non poteva non volare ancora una volta a tutte quelle oasi che egli aveva fecondate con l'ardore della sua carità, dove aveva cercato pace e ristoro durante le sue escursioni apostoliche, da cui aveva cercato la consolazione della preghiera per vincere le aspre prove del calvario interiore: Ripacandida, Atella, Foggia, Corato, Calitri, serre profumate dove uno stuolo candido di vergini si erano appartate dal mondo : « perché fino al morir si vegghia e dorma - con quello sposo ch'ogni voto accetta - che caritate a suo piacer conforma » (Paradiso, III v. 100-103).
Quante volte aveva pronunziato simili parole per ricordare i loro doveri alle vergini consacrate ! Ora la sua penna ricalca gli stessi motivi e li rivive con lo stesso amore di compiacenza: « La sposa ha da essere gelosa dello Sposo suo divino ; perciò si da guardare continuamente e con somma attenzione da ogni vana apparenza ; ha da custodire il suo cuore che deve chiamarsi tempio di Dio, casa di Dio, luogo di Dio, abitazione di Dio. Così si chiamano quei cuori consacrati al nostro caro Dio » (o. c., pagg. 47-48-49).
Sulla parola Dio cade la sua mano. Dio scende veramente come suggello sul cuore di un santo che è stato sempre : tempio, casa, luogo, abitazione della divinità.