Il pellegrinaggio del Monte Gargano
CAPITOLO IX
107. IL santuario di S. Michele. 108. I chierici studenti vi sono guidati dal Santo in pellegrinaggio. 109. Il saluto alla Madonna dei Sette Veli in Foggia. 110. I soldi sono agli sgoccioli, ma Dio provvederà . 111. Il dono del garofani e la ricompensa in Manfredonia. 112. L’estasi nel santuario. 113. L’albergatore richiamato al giusto. 114. L’addio a San Michele. 115. Un altro mazzolino di fiori ed un’altra ricompensa. 116. All’Incoronata. 117, Le premure del Santo per assicurare alle giovani la vocazione religiosa . 118. La giovane beneficata: questa è l’ingrata.
107. Tutta l’Italia, anzi tutto il mondo cattolico sa del celebre santuario di S. Michele Arcangelo sul Monte Gargano, nella provincia di Foggia. L’origine di esso ci viene così raccontata dal Breviario Romano: Sotto il pontificato di Papa Gelasio I, il Monte Gargano, alle cui falde giace l’antica Siponto, fu illustrato dall’apparizione dell’Arcangelo S. Michele. Un cert’uomo a nome Gargano possedeva colà pascoli ed armenti. Ora avvenne che un toro fuggisse dalla mandria e dopo lunghe ricerche, si trovasse all’imboccatura d’una caverna. Uno di quelli che erano andati in traccia dell’animale, scoccò su di lui una freccia, ma questa, respinta da mano invisibile, tornò per ferire lo stesso arciere. Per la qual cosa, presi da spavento i testimoni di tale accaduto, e con essi quanti l’udirono raccontare, non osarono più appressarsi alla grotta. Il vescovo, cui gli abitanti di Siponto narrarono il prodigio per averne consiglio, rispose essere d’uopo far ricorso a Dio e intimò un digiuno di tre giorni. A capo dei tre giorni, gli apparve il Sant’Arcangelo e gli dichiarò come quella grotta fosse sotto la sua protezione e quella dei santi Angeli, cui si dovesse rendere onore in quel luogo a gloria dell’Altissimo. Dietro questa apparizione il vescovo andò alla grotta seguito dal popolo, e trovando il luogo disposto a forma di cappella, cominciò immediatamente a celebrarvi i santi misteri.
108. Or a questo santuario nell’autunno del 1753, circa sei mesi prima del tempo in cui siamo giunti col nostro racconto, i giovani studenti della nostra casa di Deliceto chiesero al superiore di andare in pellegrinaggio, ed il superiore lo acconsentì a patto che vi fossero guidati da Gerardo, e che fossero seguiti da due asinelli condotti da un certo eremita, che si chiamava frat’Angelo. Combinate così le cose, Gerardo tutto in festa al pensiero di andare a venerare il suo santo Patrono, si pose a capo della comitiva, che era in tutto di dieci persone, e, invocato l’aiuto di Dio, partirono. Avevano ricevuto per tutto il viaggio, d’oltre quaranta miglia, non più di trenta carlini, cioè meno di tredici lire. Si dolevano gli studenti che fosse pochissimo per un sì lungo tragitto; ma Gerardo li incoraggiava dicendo: Dio provvederà !
109. Giunti a Foggia, vollero venerare la prodigiosa immagine di Malia SS., che chiamano Icone Vetere o dei Sette Veli, innanzi a cui, predicando, S. Alfonso era stato rapito in estasi, e sembrava che il Servo di Dio non potesse più distaccarsene. Tanto si era immerso nel contemplare le grandezze della Madre di Dio! “Non era nuovo in Foggia, dice il Tannoia, ove da buona pezza conoscevano lo sue virtù e i doni di Dio che possedeva . Perciò, saputosi il suo arrivo con la comitiva dei chierici, molti ecclesiastici e gentiluomini corsero a lui per goderne la conversazione. Introdussero ad arte discorsi ascetici e teologici, nei quali egli prese parte da maestro. Volle anche vederlo una monaca del monastero dell’Annunciata per conferire con lui su i bisogni della propria coscienza, e n’ebbe l’avviso di prepararsi a ben morire. Era ancora giovane e robusta; ma non visse più che altri quattro mesi.”
110. Non sappiamo dove avessero preso alloggio per riposare; ma, passata la notte, Gerardo volle noleggiare un carretto per proseguire il viaggio fino a Manfredonia; mentre alcuni studenti erano già stanchi dal viaggio del giorno precedente. I giovani dicevano : Come faremo a pagarlo? ma egli rispondeva: Dio provvederà, e con questa fiducia ripresero il viaggio. Inoltratisi nel cammino, frat’Angelo s’era perduto d’occhio, perchè gli asinelli, stanchi anch’essi e poco nutriti, movevano a stento il passo. Gerardo disse: Aspettiamolo, e fecero sosta in una taverna. Era questa la taverna chiamata del ponte di Candela, distante da Manfredonia circa otto miglia, dove poterono prendere una parca refezione. Dopo qualche tempo si vide da lungi frat’Angelo che veniva con lena affannosa, tutto coperto di polvere. Mossone a compassione, Gerardo s’affrettò a muovergli incontro e, presolo per mano, lo condusse a prendere un qualche ristoro, di cui quel misero sentiva grande bisogno. Dopo di che diede il segno della partenza; ma frat’ Angelo si protestava di non volere andare più oltre, perchè, diceva, gli asinelli alle sue cure affidati, sarebbero morti per la via . No, rispondeva Gerardo, gli asini debbono venire, e penso io a farli camminare. Legò dunque gli asini al carretto e, fatto montare su l’uno l’eremita, su l’altro il figlio del carrettiere, egli, seduto in cassetta, diè loro una frustata, dicendo: In nome della SS. Trinità vi ordino di galoppare. Gli asinelli galopparono meglio che due destrieri e in poco d’ora divorarono la via fino a Manfredonia. Ivi pagò il prezzo convenuto al carrettiere, e gli restò poco più di due carlini, meno di una lira. Gli studenti dicevano: Comefaremo? ed egli: Dio provvederà.
111. Con quella meschina moneta rimasta comprò un mazzetto di garofani, che vide vendersi nella piazza e, rivolto ai giovani, disse: Andiamo in chiesa. Era la chiesa del castello. Subito che vi furono entrati, tutti si prostrarono in ginocchio a pregare. Dopo brevi istanti egli si alzò, e col mazzetto in mano, salì i gradini dell’altare del Sacramento, e, postolo ai piedi del santo tabernacolo, disse: Signore, vedete: io ho pensato a voi: ora tocca a voi pensare alla mia famigliuola. L’aveva appena detto, od ecco il cappellano che gli dice: Vorreste degnarvi di pernottare in casa mia?- Egli: Il Signore vi rimuneri, ma vedete: noi siamo molti. - E quegli: Non importa, verranno tutti, purchè si contentino del poco che potrò fare, avendo mia madre da due mesi malata, che non potrà servirli come meritano! -Ah! se è per questo, ei riprese, si può subito rimediare. Segnatela in fronte con una croce e, vedrete che starà bene. Il cappellano corse innanzi, e, segnata in fronte la madre, vide che stava bene . Quando arrivarono gli ospiti essa era già pronta per servirli. Dopo questa provvidenza ne venne anche un’altra. Un sacerdote, che già conosceva per fama la santità di Gerardo, avendo udito raccontare di quel suo tratto di semplicità, onde aveva offerto il mazzetto di fiori a Gesù sacramentato, fu tanto preso in simpatia verso di lui, che, a mostrargliela, si recò a visitarlo e gli promise che a suo riguardo avrebbe mandato in regalo alla nostra chiesa di Deliceto un turibolo d’argento. Infatti dopo breve tempo compì la promessa, e così quella chiesa fu fornita di un incensiere del valore di circa sessanta ducati.
112. L’indomani i giovani studenti, incoraggiati da questo intervento visibile della divina provvidenza, presero a salire il sacro monte. Gerardo, per meglio aggraziarsi il suo Patrono, volle farlo a piedi. Entrati nel santuario, si prostrarono con piena effusione del cuore. Dopo aver lungamente pregato, i giovani si volsero a lui per domandargli di andare a prendere qualche ristoro ... Con la faccia rivolta al cielo era tutto assorto in Dio: non vedeva, non sentiva. Lo chiamano e non risponde ... Ma che è!... temono non l’abbia incolto qualche malanno. Gli si accostano di più, lo scuotono, e non ancora ritorna ai sensi. L’abbracciano, lo sollevano e allora si riscuote dall’estasi profonda, fissa loro lo sguardo, e, vedutili spaventati: Non è niente, dice, non è niente: andiamo a prendere un po’ di ristoro. Usciti dal santuario, con un’elemosina, non si sa da chi ricevuta, il Santo li fe’ cenare in un albergo, dove pernottarono . La mattina fecero colazione, pregarono e ripregarono nel santuario, e tornati all’albergo, venne l’ora del pranzo. Gerardo s’era allontanato, mentre gli studenti si domandavano come avrebbe fatto pel desinare. Fratel Ricciardi, uno degli studenti, giurava che la sera innanzi non gli erano rimaste più di quattro grana. Intanto ei viene e dice: Venite a tavola. Poi, cavate dalla tasca ventiquattro grana, le consegnò a frat’Angelo che andasse a comprare il pane. Quei si guardavano tra loro e sorridevano. Gente di poca fede, riprese, è dunque così che fate l’ubbidienza’! Presto, venite a tavola. La tavola, per essere giorno di magro, era imbandita di pesci, e di pesci squisiti di più specie. I giovani stentavano a credere ai propri occhi, quando, ritornato frat’Angelo e, colto il punto che Gerardo si fosse per poco allontanato, spiegò loro l’arcano, narrando come l’avesse visto poco prima pregare all’altare di S. Michele e farsigli innanzi una persona sconosciuta, che gli porgeva un cartoccio di monete . - Chi era quello sconosciuto? un angelo? un uomo? Non lo sappiamo. Però non dubito che sia stato mandato dalla divina Provvidenza ad intercessione del santo Arcangelo.
113. Venuta l’ora della partenza, fu domandato il conto all’albergatore e questi lo presentò troppo esagerato. Ma badate, gli disse Gerardo, che se non vi mettete sul giusto, in castigo vedrete morte le vostre mule. L’aveva appena detto, quando il figlio dell’albergatore venne gridando: Correte, correte, che le mule si rotolano per terra in modo spaventoso: presto correte. L’ingiusto cadde ginocchioni a chiedere perdono. Sì, vi perdono, disse il Santo, ma ricordatevi che Dio sta coi suoi poveri: guai a voi, se dimanderete un’altra volta più di quello che v’è dovuto. Quegli voleva allora condonare il prezzo dell’alloggio, ma Gerardo glielo pose sul tavolo e, uscito coi giovani, fece un segno di croce su le mule, che ricuperarono all’istante la sanità primiera.
114. Dato l’addio al santuario, si misero nella via del ritorno. Disceso il monte e fatto gran tratto di strada, gli studenti sentivano sete. Pazienza, ei diceva, più in là troveremo un pozzo. Arrivati al pozzo, non v’era la fune. Gerardo la chiese al padrone, ma questi la negò. Ebbene, tu neghi l’acqua al tuo prossimo e il pozzo la negherà a te. Così disse, e proseguirono il viaggio. S’erano allontanati appena un mezzo miglio, che sentirono dietro di sè un alto piangere e gridare: Aspettate, aspettate, uomini di Dio. Era quell’uomo dal cuor duro, il quale correva a pregarli che per carità facessero ritornare l’acqua, scomparsa dal pozzo, il quale, come asseriva, era il solo che poteva provvedere il povero popolo di quella contrada. Gli studenti, vinti dalla curiosità, si diedero a correre indietro e scorsero che il pozzo era asciutto sino al fondo . Gerardo che li aveva seguiti, mosso dalle lagrime dell’uomo pentito e dalle preghiere dei giovani che volevano bere, fece sul pozzo un segno di croce, e l’acqua risorse come prima . Dunque, ei conchiuse rivolto al contadino, dunque, fratello mio, questo fatto ti sia di norma: Non negare più l’acqua che è di tutti, altrimenti lddio la negherà a te. Non ci comanda forse Gesù Cristo d’amarci come fratelli? Usa dunque misericordia, se vuoi che Dio l’usi a te.
115. Rinfrancati dalla sete, i pellegrini ripresero la via e giunsero a Manfredonia, e il dì seguente da Manfredonia fino a Foggia . Quivi Gerardo, non avendo più che pochi soldi, comprò un altro mazzetto di fiori ed entrato coi suoi compagni in una chiesa, lo pose, pregando, innanzi al tabernacolo, come aveva fatto, nell’ andare, in Manfredonia . Uscendo di chiesa trovarono su la porta due fanciulle che offrirono loro vettovaglie in due cestini, onde poterono rifocillarsi.
116. A sei miglia incirca da Foggia, in un bosco remoto, trovasi una chiesa dedicata alla divina Madre sotto il titolo della incoronata, la quale già, più d’una volta era stata termine di devoto pellegrinaggio pel nostro Santo. Fu in questo santuario che volle condurre seco la religiosa comitiva. A misura che egli appressavasi al tempio benedetto, manifestava sempre meglio la gioia dell’animo suo, stantecchè il solo pensare a Maria, sua Madre, lo faceva, a cosi dire, liquefar d’amore. Al primo calcar la soglia di quel santuario ei s’immerse nella contemplazione delle grandezze della Regina degli angeli e degli uomini: era in estasi . I compagni non ne furono punto stupiti; già altre volte erano stati spettatori di simili meraviglie. Questo però non impedì ad uno dei più giovani fra essi di domandargli, allorchè ritornò ai sensi, che cosa avesse avuto . Niente, rispose, è una infermità che io patisco. Dopo d’aver prestato cosi il loro omaggio all’Incoronata, i nostri pellegrini desideravano por termine alle visite di pietà con l’andare a prostrarsi dinanzi al Crocifisso di Troia. Questa venerata immagine era stata scolpita per ordine di Monsignor D. Emilio Cavalieri, Vescovo di quella città e zio materno di S. Alfonso. Ora essendo Troia a 24 chilometri da Foggia, il tratto da percorrersi era assai lungo, ma poichè lo scopo del viaggio era d’infondere nell’animo degli studenti nuovo amore a Gesù Cristo, Gerardo non esitò punto. Quella santa immagine che recavansi a visitare, era divinamente espressiva laonde indicibile fu la consolazione degli studenti nel contemplarla. Maggior però fu quella del Santo, il quale, come dice il Tannoia, vedendo in quel legno il suo Dio, per amor dissanguato e morto, non tardò ad essere come rapito in estasi, in modo che potenti furono gli slanci del suo cuore ed i trasporti del suo spirito. Prima di compiere il viaggio, egli predisse allo studente Pietro Paolo Blasucci che un giorno sarebbe stato eletto a Superiore generale della nostra Congregazione. Questa profezia si avverò 40 anni dopo. Infatti il 24 aprile del 1793 il Capitolo Generale l’elesse a Rettore Maggiore, ed egli governò felicemente l’Istituto fino alla sua morte che avvenne il 13 giugno 1817. Il viaggio durò nove giorni, ed i nostri pellegrini tornarono a Deliceto con la borsa meglio provvista che quando ne partirono. Qual ricca sorgente è la fiducia nella divina provvidenza! Ora per rimetterci nella via, per poco abbandonata, e per maggiore intelligenza di quanto saremo per dire nel capitolo seguente, è necessario che il lettore ricordi come il nostro Santo, dopo il suo pellegrinaggio al Monte Gargano, andasse per ordine dei suoi superiori, prima a Melfi, e poi, sul principio del 1754, a Lacedonia, dove, risanando gl’infermi e convertendo i peccatori, come abbiamo narrato, rimase per lo spazio di circa un mese, ospitato dal signor arciprete D. Domenico Cappucci e da suo fratello Costantino, il quale, è circostanza da notarsi, aveva più figlie di condotta illibata: e di queste, due, per istimolo e protezione ricevuta da Gerardo, s’erano consacrate al Signore.
117. Qui, giacché ci si presenta l’occasione, ricordiamo ciò che abbiamo detto altrove, che il Servo di Dio aveva ricevuto dal cielo una seconda vocazione, cioè quella di condurre e stringere le anime, più che potesse al suo Signore Gesù Cristo; donde poi veniva, che, persuaso dei pericoli del secolo e dei vantaggi della vita religiosa, si desse moto, quando andava peregrinando dall’uno all’altro paese, per aprire la via dei sacri chiostri alle verginelle che vi si sentissero chiamate. Sopratutto era somma l’industria che usava per riuscire ad accozzare la dote a quelle donzelle, che, chiamate da Dio, non potevano, per la povertà delle loro famiglie, costituirsi una dote ad ottenere l’ingresso in qualche monastero. Allora a voce, o per lettere si rivolgeva a persone di sua conoscenza, che sapeva bene essere abbastanza ricche ed inclinate a portare il loro soccorso alle opere di carità. Sappiamo che tra quei a cui soleva ricorrere erano il principe di Torella, D. Antonio Caracciolo, il signor Benedetto Grazioli di Atella, con sua moglie, signora Nunzia, ed i signori Berilli di Calitri. Non possiamo precisare il numero delle giovani, alle quali con questa sua caritatevole industria aprì le porte dei sacri asceteri; ma certo furono molte. Conosciamo la storia di una e vogliamo narrarla, affinchè il lettore veda come sia vero quanto abbiamo asserito, che cioè Gerardo non trovasse posa finchè non avesse condotto dentro le sacre mura le verginelle che vi fossero state chiamate da Dio. Era questa una giovane, nativa di Ripacandida, sorella di una Religiosa Carmelitana, di nome suor Maria Giuseppa, per la quale aveva preso l’impegno di trovare la dote. Ora noti il lettore lo zelo che usò e l’avvedutezza del modo che tenne. Egli sapeva che la Madre Superiora Maria di Gesù era in singolare venerazione presso il sig. Benedetto Grazioli; sapeva ancora che, guadagnato questo, si sarebbe facilmente guadagnato il principe di Torella, di cui il Grazioli era l’agente generale; perciò pensò di interporvi la loro mediazione per riuscire più facilmente all’intento, e lo fece per mezzo di una lettera che scrisse alla nuova Priora, la Madre Maria Michele. Nella lettera diceva cosi: “Fate che Suor Maria scriva a D. Benedetto e gli dimandi una grossa limosina per la sorella di Suor Maria Giuseppa, ed il medesimo potrà pregare ancora il sig. Principe di Torella. Ci contentiamo che la limosina del Principe e la sua sia di ducati cento. Io per scrupolo non posso quanto voglio; ma se ho licenza dal Padre Fiocchi perfezioneremo l’impresa. Ho scritto ancora a Suor Maria Francesca in Muro, affinchè essa pure cercasse una limosina a suo fratello.” E perchè la Priora tardava a rispondere, egli le scrisse di bel nuovo per sollecitare la riuscita della monacazione e per pregarla di farvi cooperare pure la pia consorte del sig. Benedetto Grazioli. Questa lettera, che porta la data dell’11 luglio 1753, è del tenore seguente: “Rev .ma Sorella, io vi scrivo da Foggia e vi scrivo in fretta Dio mio! vorrei proprio sapore che si fa costà; io non ne so niente, perchè a tutte le mie lettere non ho avuta nessuna risposta. Credo che non avete carta per iscrivermi. Per carità, se è cosi, mandatemelo a dire, che ve ne manderò un quaderno, acciò mi possiate scrivere appresso. Ora basta. Io per grazia di Dio ho fatto nuova limosina per lo detto affare . Ma voi mi tenete sospeso. Sia per l’amor di Dio! Fate scrivere dalla Madre Maria di Gesù alla signora Donna Nuncia e che le cerchi, anche ad essa, una buona limosina per lo consaputo affare; ma che sia con segretezza di suo marito, e che sia presto presto e con somma sollecitudine. Fatele intendere ancora che si son fatte altre limosine, acciò essa pure la faccia. Se vi sono lettere mie, mandatemele. Io sto male. Salutatemi tutti. Indegno servo e fratello in Gesù Cristo, Gerardo Majella del SS.mo Redentore.” La Priora s’affrettò a rispondergli, ma la lettera di lei gli fu piuttosto di afflizione che di contento; imperocchè, stimando troppo meschina la somma che credeva potersi da Gerardo raccogliere per la dote della postulante, non gli diede quasi nessuna speranza per l’ammissione di lei nel Carmelo di Ripacandida. Onde Gerardo, che allora stava in Melfi ed alloggiava nella casa della signora Vittoria Bruno, ai 21 luglio così scrisse alla Madre Michele di S. Francesco: “ Madre Priora mia, rispondo alla sua riveritissima, nella quale ho inteso cose che mi hanno dato afflizione. Sia fatta la volontà di Dio! Io ho ricevuto tre zecchini da rimettere a V. Riverenza, e chi me li ha dati vuole che non si sappia. Frattanto io me li ritengo; ma se vorrà Dio far riuscire l’affare, ve li manderò.” Subito che la Priora seppe di questa nuova piccola somma, si affrettò a scrivere un’altra volta a Gerardo per domandare il danaro, dicendo, che qualora non fosse stato impiegato per la monacazione della giovanetta, servirebbe a prepararle la dote per andare a marito, e dopo aver esposte nuove difficoltà, per le quali mostravasi avversa all’ ammissione della giovanetta, massimamente perchè questa sembrava aver più inclinazione per altre religioni che pel Carmelo, conchiuse esortandolo, nel caso di non riuscita, a conformarsi alla volontà di Dio. Letta questa lettera, Gerardo, cominciando a dubitare della chiamata della giovanetta al Carmelo di Ripacandida, rivolse il pensiero a procurarle l’entrata in un altro monastero, ove si dimandasse una dote minore, e dove il tenore di vita fosse meno severo; e la scelta del Fratello cadde sopra un Conservatorio di Foggia, Conservatorio d’ Orfane, fondato nell’anno santo 1700 dal vescovo di Troia, Emilio Giacomo Cavalieri, zio materno di S. Alfonso, e che fioriva per ben regolata clausura. Per effettuare questo nuovo disegno, il Santo s’indirizzò incontanente al nostro P . Margotta, per ottenere a mezzo di lui dalla famiglia Berilli di Calitri un sussidio il quale, unito a ducati cinquanta, già raggranellati, ed alle varie piccole somme che sperava ottenere, costituirebbe la dote di trecento ducati, che stimava sufficienti per l’ammissione della giovanetta in quel conservatorio. Ci è stata conservata questa lettera al P. Margotta, ma, prima di riportarla, vogliamo mettere sotto gli occhi dei nostri lettori la risposta che nello stesso tempo Gerardo fece alla lettera della Priora di Ripacandida . Questa risposta porta tanto l’impronta della sua grande prudenza da meritare di essere qui per intero inserita. Eccola quale si trova nel processo di beatificazione. “Jesus Maria. “Madre Priora mia. In quanto alle difficoltà che vi sono per la sorella di Suor Maria Giuseppa, mi dite che mi contenti della volontà di Dio . Sì Signora; levatemi questa e poi vedete che in me ci resta. In quanto poi ai denari che stanno in mio potere e che ho procurato dagli amici, mi dite che li volete costi in riscontro, e che, non riescendo a farla monacare, servirebbero a maritarla. Madre mia, che dite? Questo nè io, nè nessuno può farlo, senza disonorare la nostra Congregazione, perchè a chi io cerco danaro, lo cerco con il fine di farla monaca e non per maritarla: “e se ciò non riesce, i danari si devono tutti restituire indietro di chi sono. Ma spero da Dio che non sarà così, perchè qui stiamo trattando di metterla dentro il conservatorio delle orfanelle di Foggia, dove ci vorrebbe meno danaro per la dote, e dove perciò la cosa potrebbe succedere più sicuramente, perché, sebbene vi sieno persone di civile condizione, si vive della divina Provvidenza (nè vi manca regolare osservanza): dicono l’ufficio della Madonna e stanno tutte senza veruna distinzione tra loro. O Dio mio! Io proprio vorrei qui quella figliuola, acciò le potessi parlare con somma sincerità e sentire i di lei desideri: così subito subito riescono bene le cose. Si potrebbe dunque mandare uno a posta, acciò la figlia si porti qui in casa di mamma Vittoria con la scusa di portarsi a vedere S. Teodoro . Si faccia tutta la spesa che si vorrà per farla venire, perché io tutto pagherò qui. Evviva Dio! Amate Dio. Questo nostro Dio vi benedica, ed io pure.” La giovinetta non mancò di recarsi a Melfi, ed avendo manifestato il desiderio di entrare nel conservatorio di Foggia propostole , Gerardo si affrettò di scrivere al P. Margotta nel senso che abbiamo detto di sopra . Ecco la lettera : “Padre mio, sono tre anni che Suor Maria Giuseppa mi raccomandò sua sorella di Ripacandida . Io non posso perchè non ho libertà; ma ora il Signore mi tira ad aiutarla. Il P . Fiocchi ne ha tutto il gusto. Anch’esso mi vuol dare qualche limosina e vuole che io procuri delle altre . Alla prima aperta di bocca ho procurato ducati cinquanta . Il Signore mi fa trovare le porte tutte aperte. Ho pensato metterla in Foggia, compromettendomi con la Priora per ducati trecento . Via su, Padre mio, cercatela a chiunque senza rispetti umani. Io la cerco senza rossore. Vedete coi signori Berilli ed altri. Voi tutto potete se volete.” La risposta del P. Margotta non ci è stata conservata; ma è a credere che tante premure del Servo di Dio non andassero a vuoto, e così la pia donzella avesse la consolazione di seguire la chiamata di Dio. Dopo aver ei,posta questa storia, che dimostra quanto Gerardo fosse premuroso d’assicurare alle donzelle la vocazione religiosa, che avevano ricevuto dal cielo, rimettiamoci per la nostra via e proseguiamo innanzi nel racconto.
118. Dimorando egli dunque, come s’è detto, in Lacedonia, si presentò a lui una giovane a dirgli che sentiva brama ardentissima di darsi tutta al servizio di Gesù Cristo in qualche monastero, ma che non aveva la dote por esservi ammessa. Egli, sempre sollecito della perfezione delle anime, e sempre pietoso verso i miseri, le raccomandò che stesse ferma nel suo proposito, perchè, in quanto alla dote, avrebbe egli stesso pensato. Infatti in quei giorni che rimase in Lacedonia, perorò presso i ricchi la causa di lei, e raccolse duecento ducati . Con questa dote, che non sarebbe stata sufficiente allo scopo, le ottenne l’ingresso nel monastero del Santissimo Salvatore di Foggia, il quale a riguardo di lui fu pronto ad aprirle le porte. La giovane aveva nome Nérea Caggiano: il lettore lo ricordi. Nel monastero del SS. Salvatore di Foggia il Santo era molto bene conosciuto. Vi era venuto spesso, vi aveva operati prodigi, vi aveva lasciata l’impressione di quell’estasi stupenda, che abbiamo già narrata. Erano dunque sotto quest’impressione quelle religiose, quando ottenne di far entrare tra loro la Nérea Caggiano di Lacedonia e quando dopo alcuni giorni vi venne per l’ultima volta e vi passò gran parte della settimana santa in orazioni continue o profondo raccoglimento nella loro chiesetta, come ci attesta il P. Landi, e noi abbiamo già accennato altrove. Allora, può ognuno pensarlo, le religiose che lo vedevano pregare l’avranno senza dubbio guardato dall’alto piene di rispetto e di venerazione. Eppure v’era tra loro una postulante ricolma di malinconia e di tristezza, che gli avrebbe apportato tra poco il più fiero cordoglio. Il demonio l’aveva già presa di mira per servirsene come strumento a tagliare i passi delle sue apostoliche peregrinazioni. Questa postulante si chiamava, trema la penna a scriverlo, Nérea Caggiano.