Il dramma di Nerea
Capitolo XXVII
Parallela all'azione apostolica rivolta alle masse, Gerardo ne andava svolgendo un'altra in favore delle vergini consacrate o che volevano consacrarsi al Signore. Mai apostolato fu abbracciato con più ardore operativo. La divina poesia della purezza lo rendeva audace nelle iniziative, perseverante negli sforzi, ardito e angelico nelle manifestazioni esteriori. A lui come a pochi, si attagliano le parole dell'Apostolo : « Tutto è puro per i puri ». Un'anima che prima di salire al cielo confessa candidamente al superiore di non sapere cosa fosse una tentazione impura, ma di avere solo e sempre amato il suo caro Dio, un'anima che vede riflesso nel volto di ogni donna il candore della Vergine Immacolata, ha potuto agire con la libertà dei figli di Dio: ormai egli si era affrancato completamente dalla carne. Era, a detta di tutti, un angelo e gli angeli si portano naturalmente verso gli angeli per averli compagni nella gloria.
Ecco la genesi segreta di questo apostolato che Gerardo fomentò prima col calore della sua santità, poi, quando le circostanze glielo permisero, con l'esuberanza della sua azione. Perché le circostanze all'inizio non gli furono favorevoli.
Una giovane suora di Ripacandida, quella suor Maria Giuseppa salutata tante volte dal santo in calce alle sue lettere, gli aveva raccomandata la sorella che non poteva seguire la vocazione per mancanza di dote. Egli aveva pensato di rivolgersi ai numerosi benefattori di sua conoscenza, ma non ebbe il consenso dai superiori. Così fu costretto a limitarsi al campo spirituale dove aveva più libertà di movimenti : leggeva nelle coscienze giovanili le intenzioni più riposte, i desideri inespressi, le vaghe nostalgie di cielo e scuoteva la loro inerzia, spronava le loro volontà e le rilanciava verso le altezze.
Trovava generalmente docilità, facili entusiasmi e saggi propositi, naturali in un popolo di sane tradizioni e di affetti robusti, fertile semenzaio di vocazioni, ma purtroppo, poca corrispondenza all'invito di Dio. Per colpa delle condizioni ambientali. La vocazione richiedeva un corredo, una dote in danaro liquido, non eccessiva, ma sproporzionata alle condizioni economiche delle famiglie, parificate nella miseria, spadroneggiate da pochi signori feudali. Per cui, ad eccezione delle giovani ricche, poche avevano la possibilità di seguire la chiamata interiore. Le altre avrebbero trovato facile ricetto negli Ordini attivi, ma dove trovarli in quei tempi e in quelle località ? Abbondavano i monasteri di clausura che avevano bisogno di una certa sicurezza economica per dedicarsi alla contemplazione, giacché le loro occupazioni retributive, ordinariamente l'educazione delle fanciulle che potevano permettersi il lusso di una certa istruzione, non trovavano facilità d'impiego in quei paesetti rurali. Restava, dunque, come mezzo principale di sostentamento la dote e i monasteri giustamente non transigevano nel ricevere le postulanti il fervore non si concilia con la miseria.
Le Teresiane di Ripacandida erano in questo più esigenti; più moderata la Crostarosa, forse perché la città di Foggia le dava maggiori possibilità di sussistenza, o perché, come dirà Gerardo nel suo fervore, ella aveva più fiducia nella Provvidenza.
Stando così le cose, il santo, all'inizio, si vide tarpar le ali da difficoltà d'ogni genere, ma appena nella primavera del '53, ebbe dal padre Fiocchi più ampie libertà e promesse di aiuti, allora potette imprimere alla sua opera un ritmo accelerato, quasi vertiginoso, che si protrasse fino alla primavera seguente, quando fu spezzato dalla calunnia. Seguiamo le fasi di tale movimento attraverso le poche lettere che ci sono rimaste, briciole sparute di una corrispondenza vasta e nutrita, perduta, forse, per sempre.
Appena, dunque, Gerardo ebbe dal padre Fiocchi non solo le necessarie facoltà, ma perfino la promessa di un contributo in davaro, mise in moto l'ingranaggio di conoscenze e di amicizie in favore della sorella di suor Maria Giuseppa. Scrisse alla madre Priora di Ripacandida perché interponesse l'autorità della madre Maria di Gesù presso donna Nunzia di Palma, sposa di don Benedetto Graziola : « Chieda una buona elemosina per l'affare che sapete, ma sia con segretezza di suo marito, e che sia presto presto e con somma sollecitudine. Fatele intendere che si sono avute altre elemosine, acciò essa pure concorra» (o.c., pag. 31).
Nel prospettare alla buona signora il generoso concorso di altre benefattrici, il santo rivela una tattica squisita intesa ad eccitarne l'emulazione, ma nel raccomandarle il segreto col marito vi aggiunge ancora una certa astuzia, una certa abilità diplomatica e faccendiera. Perché il marito avrebbe dovuto concorrere nello stesso affare, con un contributo piuttosto cospicuo. Anzi di più : avrebbe dovuto farsi intermediario e intercessore presso il principe della Torella, don Domenico Caracciolo, di cui era l'agente generale e ot-tenere anche da lui « una grossa elemosina ». Il santo è ardito nelle sue richieste. « Ci contentiamo », scrive, « che l'elemosina del Principe e quella di Don Benedetto siano di ducati cento» (o.c., pag. 77). Circa centomila lire della nostra moneta e forse più.
« Ci contentiamo ! ». Saremmo tentati di credere che Gerardo abbia voglia di scherzare e invece parla sul serio. In tempi di tanto dispotismo, in cui si è sempre confuso il diritto di proprietà col diritto di usare e abusare dei propri beni, senza renderne conto ad alcuno, egli sente istintivamente che il povero ha diritto di ricevere ciò che chiede in nome di Cristo, mentre il ricco non può sottrarsi al suo preciso dovere di dare il superfluo, senza ledere le norme elementari di giustizia. E tra i poveri, la precedenza assoluta spetta alle giovani che vogliono consacrare a Dio la propria verginità. Perciò scrisse a tutti i conoscenti che sapeva dotati di beni di fortuna. Scrisse anche a suor Maria Francesca, sua concittadina, « affinché essa pure cercasse un'elemosina a suo fratello » (ibid).
Dopo questi sforzi, il 21 luglio poteva annunziare alla priora āi Ripacandida d'aver ricevuto già tre zecchini (circa quindici ducati) da una persona che voleva mantener l'incognito. Quasi contemporaneamente riferiva al padre Margotta d'avere ottenuto cinquanta ducati « alla prima aperta di bocca » e lo supplicava di voler cooperare anche lui allo stesso scopo, rivolgendosi ai signori Berrilli di Calitri, suoi concittadini: « Via su, Padre mio, cercate a chiunque senza rispetti umani. Io cerco senza rossori » (o.c., pag. 67).
« Senza rispetti umani, senza rossori». Quest'uomo che durante la vita, nonostante le malattie e l'indigenza assoluta, non ha chiesto nulla per sé, quando si tratta della gloria di Dio sa chiedere « senza rossori», con abilità, prudenza umana e anche con una certa astuzia che fa sorridere per l'ingenuità con cui si manifesta.
Raccolti i trecento ducati, si affrettò a comunicarlo alla priora di Ripacandida : credeva che ormai ogni difficoltà fosse stata appianata e la giovane potesse raggiungere la sorella nello stesso monastero. Ma la madre Michela non fu soddisfatta della somma indicata che giudicò troppo al di sotto del tasso stabilito dalla regola. Se non si poteva racimolare altro danaro, gli rispose, era segno evidente che il Signore non voleva l'entrata in religione della sua protetta. In questo casa si contentasse di far la volontà di Dio e il danaro avrebbe potuto servire per ben maritare la giovane. Glielo avesse pure spedito ; avrebbe pensato lei a custodirlo.
La replica del santo è di quelle che rivelano il fondo cristallino della sua coscienza ed esaltano la dirittura della sua volontà: « Madre Priora, mia cara, in quanto alle difficoltà che vi sono per la sorella di Suor Maria Giuseppa, mi dite che mi contenti della volontà di Dio. Sissignore, levatemi questa e poi vedete che cosa mi resta!... dei danari che stanno in mio potere... mi dite che li volete costì, perché se non riesce a farsi Suora, potrebbero servire per maritarla. Madre mia, che dite ? Questo né io né alcuno lo può fare, perché sarebbe lo stesso che disonorare la nostra Congregazione, mentre io a chi li ho cercati, li ho cercati con patti e fini di farla monaca e non per maritarla. E se ciò non riesce, si devono restituire a coloro di cui sono».
Ma il santo non si perde di coraggio ed è già entrato in trattative col conservatorio di Foggia « perché là ci vorrebbero più pochi danari », sebbene abbiano anch'esse lo stesso tenore di vita civile di Ripacandida, ma, aggiunge, con una punta di rimprovero per la priora, « là vivono della divina Provvidenza», recitando l'Ufficio della Madonna - forse perché più semplice di quello ordinario e quindi più accessibile a tutte - e poi, sommo pregio per il santo della carità, « stanno tutte senza veruna distinzione tra loro » : ciò non avrebbe umiliato la sua protetta, facilmente una conversa. Egli però non vuol decidere senza la principale interessata. Vuol dunque che gli si mandi « quella figliuola », per poterle parlare « con somma sincerità e sentire i suoi desideri. Così subito, subito, riescono meglio le cose» (o.c., pag. 73).
Non sappiamo se la giovane sia stata ricevuta; non abbiamo motivo di dubitarne. Il santo non si perde a raccontare i suoi risultati, proteso com'è alle nuove imprese da realizzare, senza darsi tregua, ma basta questa lettera per puntualizzarne la tattica nella nuova azione apostolica e il complesso delle qualità che richiedeva dalle chiamate da Dio. Egli non impone loro decisioni precostituite. Ama esporre « con somma sincerità » i propri punti di vista ed ascoltare attentamente i desideri delle candidate. Ma quando si è giunti ad una determinazione, allora si spezzino gli indugi e si abbattano gli ostacoli: « Subito subito, riescono meglio le cose ! ». Gerardo ama le volontà ferme, risolute, che non arretrano di fronte a qualunque difficoltà: ne andasse la vita; che sanno darsi senza riserva; che sanno essere tutte di Gesù. Che, insomma, sanno farsi sante. è questa la vetta che egli non perdeva mai di vista; verso cui pungolava le anime. La santità non era un lusso per lui; un'eccezione alla norma; era la regola, era la norma dalla quale non si poteva transigere senza venir meno al fine stesso della vita religiosa.
Un giorno conduceva una nipote al conservatorio di Foggia ed erano giunti sull'Ofanto : al di sotto le acque scorrevano torbide e minacciose per le piogge autunnali, mentre rombavano i tuoni, guizzavano i lampi e i salici si piegavano fin sul letto del fiume. Egli afferrò la giovane per un braccio e « Vuoi farti santa ? », le disse, « vuoi farti santa ? Se no, mo' ti butto nel fiume ».
Farsi sante o morire ! Gerardo conosceva questa sola alternativa e la brandiva come una lama affilata davanti agli occhi attoniti delle postulanti, le quali dovevano avere il coraggio di una decisione. Decidersi a scandire un « sì » risoluto che le impegnasse per la vita e oltre la vita a curare l'onore del loro Sposo Gesù, a dispetto delle tentazioni più fiere e delle lotte più cruente. Ripiegare, venir meno, era tradire lo Sposo ; rendersi reo di adulterio. Un delitto che gridava vendetta davanti a Dio e alla propria coscienza. A questo pensiero fremeva e gli uscivano dal cuore parole roventi di carità e di sdegno. Il santo mite e gioviale prendeva in prestito la foga travolgente degli oratori.
Un giorno venne a sapere che una novizia di Ripacandida, forse suor Maria Celeste dello Spirito Santo, figliuola di don Benedetto Graziola, vacillava nella vocazione. Prese subito la penna e scrisse quella lettera che, come dice il Tannoia, ha veramente del divino. Con una sicurezza, con un'autorità che s'impone; le annunzia fin dall'inizio, da parte di Dio, che la sua è tentazione del demonio «Sorella mia in Gesù Cristo, sono a dirvi, da parte del mio caro Dio, che vi mettiate in una soda e santa pace, perché tutto è opera del demonio per cacciarvi da codesto santo luogo... ».
Si vince il demonio con la fiducia in Dio. Egli permette le tentazioni per provar la nostra fedeltà : quindi è obbligato per ciò stesso, a rispondere alle nostre suppliche : « Tutti siamo stati tentati sulla vocazione, e Dio è quello che manda le tentazioni per vedere la nostra fedeltà. Perciò statevi allegramente, ed offritevi sempre a Dio senza riserva, ché Egli vi aiuterà».
L'accento batte non solo sull'aiuto immancabile di Dio, ma sulle risorse interne della volontà e sulla costanza del carattere che sono il distintivo stesso della nostra personalità: « Com'è possibile che la vostra carità si vuole scordare delle belle risoluzioni che tante volte ha fatte a Gesù Cristo con chiedere di essere sua sposa ? Se dunque allora lo desiderava, ora perché lo vuole rifiutare ? ».
Ma questa fedeltà è vista, nei termini stessi del matrimonio cri-stiano che ha come esigenze assolute : la perpetuità e l'esclusività da, ogni altro amore. L'anima non può amare che Dio o il mondo: nei due termini dell'antitesi c'e la sua felicità, o la sua tragedia: « Sorella mia, chi può darvi pace se non Dio ? Quando mai il mondo ha saziato il cuore umano, ancorché di principessa, di regina o d'imperatrice ? Non si è sentito ancora, non si è letto in alcun libro... Quanto più erano ricche, onorate e stimate con una vita di soddisfazioni, altrettanto erano cruciate nel loro interno ».
« Allegramente, dunque, animo grande, vincete ogni tenta-zione con la generosità dichiarandovi sempre sposa del nostro grandissimo Signore Gesù Cristo ; in Lui si ritrova ogni felicità, ogni pace, ogni bene. A che servono le brevi apparenze del mondo in paragone di quella celestiale ed eterna beatitudine che si gode in cielo, da chi è sposata a Gesù Cristo ? ».
E l'argomento rifluisce in un'antitesi ancora più aperta, ancora, più stridente : tra il tempo e l'eternità ; tra la vita che sfocia nella morte e la vita che s'infutura nella gloria. Argomento comune senza dubbio, ma ravvivato da un sentimento gagliardo che investe e trasfigura le cose: « Non dico che chi vive nel mondo non possa salvarsi ; ma dico che sta in continuo pericolo di perdersi, né può farsi santo con tanta facilità come nel chiostro. Considerate, vi prego, la brevità del mondo e la lunghezza dell'eternità e riflettete che ogni cosa finisce. Finisce ogni cosa a chi vive nel mondo, come se mai fosse stato nel mondo. Dunque, a che serve appoggiarsi su ciò che non può sostenerci ? Ahi! Ché tutte quelle cose che non ci portano a Dio, tutte son vanità, che non ci possono servire per l'eternità...
Sorella mia, andate un poco sulla vostra sepoltura dove sono racchiuse le ossa di tante sante Religiose di codesto Monastero ; ri-flettete a quello che avrebbero trovato se fossero state le più grandi del mondo. Oh quanto è loro giovato l'esser vissute povere, mortificate, disprezzate, e chiuse in codesto piccolo Monastero !... Quale pace non ebbero in punto di morte, vedendosi morire nella Casa di Dio! Ognuno vorrebbe esser santo in punto di morte, ma allora non si può : quello che si è fatto per Dio, quello solo si trova».
Ma la fiducia della vittoria, più che in queste considerazioni, il santo la ripone nella preghiera : « Se la tempesta non è passata, io tengo tanta fede e tanta speranza nella SS. Trinità ed in Mamma Maria che Vostra Carità abbia a farsi santa costà. Non mi fate trovar bugiardo. Calpestate la testa alla gran bestia infernale che pretende cacciarvi fuori di codesto santo luogo. Disprezzatelo, ditegli che siete sposa di Gesù Cristo, acciò tremi; statevi allegramente; amate Dio di cuore, datevi sempre a Lui senza ripulsa, e fate che il demonio crepi e muoia; pregate per me, ché io lo fo per voi» (o.c., pag. 61-63).
Tanto interessamento per il progresso spirituale delle suore da lui dirette, non gli faceva dimenticare il loro benessere materiale, la salute del corpo. Il santo che è stato il carnefice di se stesso, ha tremato per ognuna delle sue figlie ed ha chiesto a Dio la loro guarigione in termini tanto arditi che spaventano la nostra piccolezza. « Voglio che t'impegni fortemente a pregare Dio per una Sorella che sta per morire », scriveva a suor Maria di Gesù. « Io non la voglio morta, ditelo al mio caro Dio, perché voglio che si faccia più santa e che muoia in vecchiezza, acciò goda d'aver passati molti anni nel servizio di Dio. Via su, impegnatevi con la Potenza di Dio, e che questa volta ci lasci fare come noi vogliamo. In nome di Dio, vi dò l'ubbidienza di non farla morire... » (o.c., pag. 55).
Quante volte il verbo « voglio» in poche parole! E davanti a Dio! E per ridare la salute fisica a una sua figliuola spirituale! Questa relazione di amicizia non creava soltanto un vincolo spirituale dolcissimo tra lui e le sue figlie, ma si estendeva ai loro parenti coi quali conservava l'affetto più cordiale e duraturo. In una lettera diretta ad una religiosa di Ripacandida si sente felice di renderla partecipe della gioia provata in casa dei suoi genitori: « Viva il nostro caro Dio! Carissima in Cristo, io sono stato in vostra casa, perché mi comandò il vostro signor padre acciò io avessi consolate tutte di sua Signora casa. Tanto ho fatto ed io sono stato consolatissimo per aver parlato con tante serve di Dio... » (o.c., pag. 33).
Nessuna meraviglia se con tali sistemi, messi a servizio della carità infinita di Dio, il santo producesse tali ondate di entusiasmo da travolgere l'intera zona del Vulture e le regioni adiacenti. Candide masse di giovani movevano verso le ombre auguste del chiostro, affascinate dalla sua parola, desiderose di offrire la propria verginità al loro Sposo Gesù. Con queste anime ardenti, Gerardo ripopolò antichi e illustri monasteri, come Savignano, Foggia, Ripacandida, Atella, riportandoli ad un alto grado di fervore.
Al monastero benedettino di Atella, il santo vi si portò durante una missione predicata dai padri redentoristi nella città. Egli li accompagnava come coadiutore, ma nel palazzo signorile di don Benedetto Graziola dove alloggiavano, c'era poco bisogno dell'opera sua. Potette così dedicarsi alla riforma spirituale delle suore che abitavano in una casa di fronte, completando l'opera felicemente iniziata dai padri Fiocchi e Margotta, suoi confratelli. Essi erano stati i teorici della riforma, ma chi l'attuò, ridestando il fervore dell'osservanza, fu appunto lui, Gerardo. Vi predicò più con l'esempio che con la parola, perché libero da ogni lavoro, passava lunghissime ore in chiesa à pregare. Una volta la suora sagrestana, venuta a chiudere la chiesa, verso l'ora di mezzogiorno, lo trovò bocconi nella cappella dell'Immacolata senza dar più segni di vita. Spaventata, corse ad avvisar la superiora, la quale cominciò a chiamarlo dal coretto, ma Gerardo non sentiva. Allora lo chiamò con l'ubbidienza del superiore.
« Ah fratel Gerardo, pazzo d'amore per Gesù Cristo, i padri sono a tavola, il superiore ti cerca e tu te ne stai qui a pregare!». Al nome del superiore, Gerardo parve svegliarsi e, rosso rosso, senza rispondere, uscì di chiesa.
Dopo quindici o venti giorni di tali preghiere ardenti e di esor-tazioni continue, il monastero parve rinato al fervore e all'osservanza regolare.
L'avvenimento si diffuse rapidamente all'esterno e molte giovani di buona famiglia bussarono alla porta, condotte e spronate dal santo.
Ma il quartier generale delle sue leve giovanili era sempre Lacedonia dove, dopo la missione all'epoca delle febbri malariche, egli aveva acquistato un ascendente straordinario. La sua parola aveva una presa irresistibile su quelle anime tenere e naturalmente generose alle quali faceva brillare tutto l'incanto d'una vita d'immolazione e di sacrificio, perfettamente modellata sulla Vergine Immacolata che visse perduta nel suo sogno d'amore : Gesù. Le vergini lo ascoltavano estatiche e s'incolonnavano dietro a lui, pronte a seguirlo dovunque. Erano stuoli candidi e fitti, prelevati generalmente dalle famiglie migliori. Basti pensare che i signori Cappucci, tra parenti e cugine, diedero quattordici giovani ; tre, i signori Graziola.
Questo ci dice la vastità dell'incendio suscitato. Il santo stesso le accompagnava ai diversi monasteri, a preferenza nel conservatorio di Foggia o a Ripacandida, creando all'intorno, col suo fervore, un clima di leggenda che trasfigurava ogni sua azione, seguiva ogni suo passo.
Si raccontavano in giro cose meravigliose : un giorno il santo conduceva sette giovani al monastero di Savignano, quando cominciò a cadere una fitta pioggia con fulmini e lampi. Il santo allargò il suo mantello sulle spalle delle giovani proseguendo sereno sotto la furia degli elementi sconvolti, per vie aspre, trasformate in torrenti, fino alla meta. Allora il monastero si aprì e le suore si precipitarono loro incontro : « Povere figliuole, come sarete bagnate ! ».
Sorrisero : erano asciutte come un osso. Asciutte anche le scarpe e avevano nuotato nel fango.
Un altro giorno accompagnava don Costantino Cappucci e le figliuole Maria Teresa e Maria Antonietta al monastero di Foggia,. La pianura a mano a mano si trasformava in pantano, poi in palude.
I cavalli arrancavano a fatica, sguazzando nell'acqua ; la carrozza affondava fino al mozzo. In mezzo a quella marea di fango, scorreva il Cervaro, gonfio di piogge recenti. Il ponte e le rive sommerse. Qualche pagliaio spuntava livido, sotto un cielo bluastro. Anche gli alberi grondavano lacrime sulle morte rovine. Le giovani rabbrividirono e Gerardo: «Volete farvi sante nel monastero ? Altrimenti: ecco, il fiume v'inghiotte ».
Risposero : « è quello che vogliamo : farci sante ».
In quel momento le acque rotolarono a destra e a sinistra e si alzarono a muraglia, lasciando in mezzo la via aperta e il breccime luccicante. Allora i cavalli avanzarono rapidamente, mentre dietro le loro groppe le acque si ricongiungevano mugghiando.
Tutto questo mondo di santità e di leggenda che levitava sulla figura del santo, esercitò una forte impressione sulla fantasia di una giovane romantica e passionale, la quale da tempo aveva attirato l'attenzione generale per quell'aria di pietà che traspariva dalla sua persona: Nerea Caggiano. Quella strana creatura che aveva concepito la religione come qualche cosa che accarezzasse il sentimento, fu sospinta verso Gerardo dal fascino che sprigionava da lui e da un certo desiderio di non rimanere indietro alle compagne che raccontavano cose straordinarie delle sue virtù. Ben presto quel desiderio di distinguersi, di farsi notare, la rese una delle più assidue alle sue conversazioni, una delle più entusiaste alle sue esortazioni a consacrare la propria verginità al Signore.
Con più calma, con più introspezione, Gerardo avrebbe potuto scoprire il carattere di quella postulante, ma non bisogna perdere di vista che l'introspezione di cui godeva era un dono gratuito e transeunte con cui Dio veniva incontro alla sua semplicità estrema. Era un'assistenza prodigiosa e continuativa del cielo che gli faceva evitare gli scogli connessi con la sua natura e la sollevava nel divino.
Ora Dio volle, per un istante, ritirare da lui una parte dei suoi doni, perché dalla prova la creatura uscisse sublimata e ingigantita. Gerardo, dunque, si lasciò convincere delle buone disposizioni della giovane e decise, con la solita sveltezza, di venirle in aiuto. Perché il babbo, interrogato al riguardo, non si mostrò contrario; solo rispose che con sette figli sulle spalle di cui uno suddiacono, più una sorella e una zia nubili, non poteva approntare tutta la somma richiesta. Gli impiegati dello stato, da che mondo è mondo, non furono mai ricchi, se vollero conservare la propria onestà. E Candido doveva essere onesto. E, forse, anche un po' letterato se scelse per questa figlia il nome arcadico di Nerea.
Senza spaventarsi, il santo riuscì a raggranellare, a tempo di primato, duecento ducati. Con questi e con quelli forniti dalla famiglia fu approntata la dote e anche la Nerea, versando lacrime che parvero di consolazione, poté raggiungere l'Istituto della Crostarosa. Ma non aveva fatto i conti col suo povero cuore malato. Sbolliti i primi entusiasmi, cominciò a sentire la nostalgia del paese, della famiglia, degli amici, di tutte quelle persone che finora avevano servito da sfondo alla sua sensibilità morbosa. Tutto le tornava in mente e tutto si colorava di passione e di dolore : perfino la pietà. La pietà austera del monastero, moderato da una santa autentica come la Crostarosa, dovette sembrarle troppo fredda a paragone di quell'ideale piuttosto sentimentale che finora aveva cullato la sua fantasia. Le confessioni stesse accrescevano il suo tormento, perché la riportavano continuamente al confessore di Lacedonia che l'aveva conosciuta da piccola e le apriva il cuore a maggior confidenza. Lo rivedeva con la mente, ne riascoltava la voce e si consumava dal desiderio di sfogarsi ancora con lui. La lotta di giorno in giorno si fece più tremenda, il dramma più acuto e, allo scadere della terza settimana, la Nerea era di nuovo a Lacedonia. In un paesetto di fede primitiva, il ritorno al secolo della giovane cagionò un piccolo scandalo e diede la stura alle più strane congetture. Ella fu costretta a parlare, a difendersi e non trovò di meglio che gettare la colpa sulle suore, sulle compagne, su tutto il monastero. Meno era creduta, e più rincarava la dose; più crescevano i suoi rimorsi e più sentiva gelosia delle coetanee che spiccavano il volo per lo stesso monastero da lei disprezzato. Avrebbe voluto ripresentarsi a Gerardo e sgravare la coscienza, ma non ne aveva il coraggio. Avrebbe voluto chiudersi nel silenzio, ma troppo spesso giungevano da Foggia, da Ripacandida, da Atella, le notizie delle altre giovani che esaltavano la bellezza della vocazione religiosa. Questo insieme di cose finì per inasprirla, per spingere all'assurdo la gelosia verso le compagne che si recavano da Gerardo per essere guidate verso il chiostro. Se almeno costui fosse andato altrove ! Ma no; le sembrava che non trovasse più la strada di lasciar Lacedonia ; e quando la lasciava, era per tornarvi poco dopo, destando ripercussioni sempre più vaste tra le sue coetanee. Allora cominciò a spiarlo da lontano, arrovellandosi internamente alla ricerca di una soluzione. E la soluzione si presentò da sola.
Dopo la partenza delle due sorelle minori, Gerardo stringeva sempre più da vicino la Nicoletta Cappucci che sembrava nata anche lei per la pietà, ma era alquanto indecisa nelle sue risoluzioni. Egli, ospite abituale della sua casa, spendeva ogni ora libera a spronarla con quei discorsi sulla bellezza della verginità religiosa che rendevano rubicondo il suo volto e rapivano in estasi il suo spirito. Parlava come il cuore gli dettava, con calore, con franchezza, con trasporto.
Un giorno in cui, più accalorato che mai, s'intratteneva con la giovane, fu visto da donna Emanuela che andava e veniva, tutta presa dalle sue occupazioni. A un certo momento, la signora ebbe quasi uno scatto di nervi ma si contenne e disse tra sé: « Guarda là, io a lavorare e mia figlia con le mani alla cintola. E anche lui... i santi tremavano nel parlare con donne ed egli, invece, ci prova tanto gusto».
Ma fu uno scatto momentaneo di cui si penti come di una colpa; perché chi poteva mai azzardare il minimo sospetto verso un santo come lui ? Già ne sentiva rimorso e già pensava di confessarsene, quando Gerardo, passandole vicino, le disse: « è da madre saggia pensare come hai pensato tu. Se tutte le madri avessero la stessa accortezza verso le figlie, non si vedrebbero tanti scandali anche nelle famiglie migliori. Questa volta, però, i tuoi giudizi sono errati, perché io spero che anche Nicoletta imiti le altre due sorelle».
La donna, sorpresa, rispose: «Non ti comprendo: che cosa vuoi dire ? ».
E Gerardo : « Non ti ricordi dei pensieri che hai avuti poco fa ? ». La donna balbettò qualche scusa.
« No, no », riprese Gerardo, « tu hai perfettamente ragione. Sono io che ho torto*.
E, tra lo sgomento della buona signora rimasta di sasso, si gettò a baciarle i piedi.
Da allora ella non cessò di raccontare il fatto, sbalordita di tanta umiltà e più della scrutazione del suo cuore. Tra le ascolta-trici, la più intenta fu Nerea e fu anche l'unica a gridare allo scandalo. Giacché nella sua mente malata tutto si colorava di passione, tutto veniva riportato in termini di gelosia. Gerardo dunque faceva la corte alla rivale ! Chissà che cosa si nascondeva dietro a quelle conversazioni ! E, a poco a poco, con la fantasia diede corpo alle ombre e i sospetti divennero realtà. Allora non trovò pace se non quando si fu sfogata col confessore e questi, semplice come l'acqua, non si accorse di trovarsi di fronte a una penitente travolta dalla passione. Credette di salvar la prudenza, chiedendole di confermare per iscritto quanto aveva detto a voce. Ella confermò e la lettera fu spedita a Sant'Alfonso, conosciuto otto anni prima durante la missione. Così un santo, autore di miracoli, e una giovane innocente chiamata dal padre Caione : « onestissima e piissima donzella », cadevano insieme vittime della cieca credulità di un prete, messa a servizio della fantasia esaltata di una donna.
Sant'Alfonso, fulminato dalla strana notizia, mandò sul posto il buon padre Villani, suo braccio destro nel governo dell'Istituto. Questi interrogò a voce il sacerdote e la Nerea : il primo, in buona fede, gli fece l'elogio della calunniatrice, una coscienza retta, incapace di mentire ; la seconda giurò sulla verità della sua deposizione scritta. Dopo di che, al buon padre Villani non restò che ascoltare in giro ciò che si diceva di Gerardo: erano elogi per i suoi miracoli e per le sue gesta ardite e originali. Forse troppo originali per lui che esaminava i fatti con la freddezza compassata del critico. Allora si portò a Deliceto e interrogò diversi padri autorevoli i quali furono discordi sulla valutazione del Fratello incriminato. Non tutti potevano approvare il suo operato tanto soggettivo che sconcertava ogni calcolo umano, fondato sul conformismo a norme prestabilite. L'agire per intuito d'un uomo molto diverso dagli altri sorprende sempre i mediocri, adoratori delle tradizioni secolari.
L'unico a non essere interrogato - come troppo spesso avviene in simili circostanze - fu il nostro Gerardo.
Con questo bagaglio d'informazioni, il buon padre Villani tornò a Pagani, a colui che attendeva con tanta trepidazione. Sant'Alfonso, il patrizio napoletano, educato nell'infanzia secondo la rigida etichetta spagnola, lottatore indomito contro i moti ribelli del proprio cuore fino alla tarda vecchiaia, analizzatore acuto dei peccati e delle cause dei peccati, era portato a un certo pessimismo nel giudicare il cuore umano. Ed aveva ragione. Ne trovava conferma ogni giorno nella sua esperienza di confessore. Se avesse conosciuto Gerardo, non avrebbe tardato a capire che questa volta si trattava di una gloriosa eccezione, da giudicarsi con criteri speciali, come già aveva fatto per la madre Maria di Gesù, umiliata soverchiamente dai suoi giudici carmelitani. Ma i due santi non s'erano mai incontrati finora. Il fondatore conosceva Gerardo solo attraverso i discorsi dei confratelli, usi magari a fermarsi alla scorza della sua santità, senza penetrarne lo spirito. Un santo che sconvolge ogni schema precostituito con una istintività che rifluisce spontaneamente nel moto circolatorio dell'amore di Dio si presta più alla denigrazione che all'esaltazione. « I santi», ha detto il Bernanos, « sono stati la prova della Chiesa, prima di divenirne la gloria» (Dia-rio di un Curato di campagna, Mondadori 1952, pag. 74).
Il fondatore dunque si convinse, o almeno dubitò d'avere a che fare con un esaltato che, preso dal proprio orgoglio, in seguito allo strepito popolare suscitato intorno a sé, fosse riuscito a falsare la propria coscienza, venendo meno alle norme più elementari della prudenza. Volle vederci chiaro : volle esaminarlo personalmente e farlo esaminare da altri. Perciò lo fece venire a Pagani e lo sottopose a una serie di umiliazioni severe.
Più complessa la figura di Nerea la quale odia Gerardo perché la sua presenza le ricorda un passato che vorrebbe dimenticare; ma sotto quell'odio si cela un sentimento d'amore che accende la sua gelosia; la gelosia mette in moto la calunnia che deve servire ad allontanare il santo dalle sue rivali. Poi quando, dopo un certo tempo, si accorge di essere andata troppo oltre, si ritratta piangendo.