Per città e per castelli
Capitolo XVI
Il 19 giugno del 1752, Sant'Alfonso scriveva da Napoli al suo fedele collaboratore don Andrea Villani, ordinando preghiere per « la casa di Deliceto che passa dei guai. Gli Ilicetani si sono voltati contro, dicendo che vogliono farvi un Seminario». (Lettere, I, 200). Finché s'era trattato d'un romitorio cadente, nessuno lo aveva considerato, ma ora che Santa Maria della Consolazione s'innalzava superba come una fortezza, tutti pensavano che era un vero peccato lasciarla deserta per buona parte dell'anno, mentre i loro chierici non trovavano a Bovino una casa adatta alla loro formazione sacerdotale. E l'idea di avere un seminario, togliendolo alla città vicina, lusinga larghi strati della popolazione.
Forse sotto la pressione di tali avvenimenti, il fondatore decise di trasferire da Pagani a Deliceto gli undici studenti del corso teologico. Essi sarebbero giunti nell'autunno inoltrato sotto la guida del celebre padre Alessandro De Meo. Intanto, per preparare l'ambiente, vi furono inviati Padri eminenti che potessero svolgere il ruolo di professori : tra gli altri, i consultori Ferrara e Carbone, il dotto padre Rizzi e il modesto e pio padre Stefano Liguori.
Ma il problema principale era costituito dai rifornimenti : come sfamare tante bocche ora che il raccolto del grano era stato scadente e i pochi mezzi finanziari erano stati assorbiti dalla fabbrica ? Si pensò di ricorrere agli aiuti delle popolazioni che beneficiavano maggiormente dei missionari: gli abitanti a cavaliere della regione Lucano-Pugliese.
L'uomo prescelto per quest'opera non poteva essere che Gerardo, ed egli vi si mise con vigore, animato, come sempre, dall'eroismo della sua virtù.
Così, appena consacrato a Dio con la professione religiosa, diede inizio ai viaggi in grande stile. Finora le sue azioni avevano avuto la rapidità di una scorreria ; ora invece, senza nulla perdere dell'impetuosità del corsaro, acquistano una certa organicità tattica e geografica. Si svolgono infatti di preferenza lungo l'arco nordorientale del bacino del Vulture e lungo la cresta settentrionale dell'Appennino Irpino-Lucano.
Un fiume torna di frequente come spettatore e, qualche volta, come attore della nostra storia: 1'Ofanto. L'Ofanto impetuoso e strepitoso di Orazio, che, nato a occidente di Sant'Angelo dei Lombardi, nel mezzo dell'Irpinia, sbocca nella piana delle Puglie, ingrossato dall'Osento e dalla fiumara di Atella, per ricordare solo due nomi gerardini. Il fiume, nella stagione estiva, ha l'aspetto di un torrentaccio addormentato in un ampio letto argilloso, avvolto da giunchi e canneti. Si sveglia tumultuoso alle prime piogge autunnali per il rapido scolo delle acque, dovuto alla impermeabilità dei terreni dintorno. Allora il fiume merita davvero l'appellativo oraziano di « tauriforme » per la violenza con cui dilaga nelle valli adiacenti.
La zona che più c'interessa, si aggira lungo le sponde del medio Ofanto e, più precisamente, attorno alle falde della mole conica del Vulture, un vulcano spento chiamato volgarmente Monticchio. Scendendo infatti dal nord le colline che circondano il monte, s'incontrano i centri popolosi di Rocchetta, Lacedonia, Carbonara - la presente Aquilonia -, Melfi, Rionero, Ripacandida, Atella e Ruvo del Monte: tutti nomi che entrano trionfalmente nella storia gerardina. Ogni sasso, ogni pianta, è testimone di un prodigio, di una conversione, di un'acclamazione, o, almeno, di un suo passaggio a cavallo o a piedi, ma sempre con gli occhi rivolti al cielo, in preghiera. Andava per ricevere un'offerta, ed era lui che dava la sua carità che non conosceva mai limiti, perché era la carità stessa di Colui che è morto in Croce per tutti. Perciò, secondo la sua stessa confessione, le donne si sarebbero levato l'oro dalle orecchie e dal collo e gli uomini si sarebbero strappati gli occhi, se lui non li avesse trattenuti. Chiedeva con la voce dei miracoli e le offerte rappresentavano la riconoscenza spontanea delle moltitudini.
I viaggi ebbero inizio verso la fine di luglio, quando Gerardo parti alla volta di Muro, per la cerca dell'orzo e del grano. Le prime elemosine le ebbe così dalla città natale, donde era fuggito per la conquista della santità, ma che portava sempre nel cuore. Avrà rivisto il suo negozio ? La stanza della sua prigionia ? Il davanzale donde si era sporto penzoloni nel vuoto ? Ne dubitiamo. Con la morte della mamma; e forse anche prima, la casa era tornata agli antichi proprietari. Le sorelle, ristrette nei loro buchi con le relative covate di figli, non potevano offrirgli nessuna ospitalità. Accettò quindi di buon grado, l'invito premuroso dell'orefice Alessandro Piccolo che lo accolse come un figlio e lo accompagnò nella cerca.
Con lui ripercorse le solite stradette, risali quelle scale semibuie, tra una fila di occhi che lo spiavano dalle finestre socchiuse, dai pianerottoli, dalle vie affollate. E chi cercava di baciargli la mano, chi d'averne un'immagine, un ricordo e perfino di tagliuzzargli la veste come preziosa reliquia. Avranno ricordato i Muresi la profezia di Gerardo, quando essi lo deridevano chiamandolo: «Fate voi*, ed egli rispondeva: « M'avete da baciar questa mano ? ». Era sembrato uno scherzo, ed ora diveniva realtà. Quella mano benedetta bisognava portarla sempre nascosta sotto il mantello : tanto era ricercata !
Una mattina i due amici uscirono insieme per la questua. Faceva da battistrada il figlio dell'orefice, Pasquale, un frugolo di dieci anni che correva avanti, dando grossi pugni alle porte e saltando come un capriolo da uno scalino all'altro. La sua voce argentina squillava come un campanello d'allarme, invitando tutti ad essere generosi col loro compaesano. Indietro veniva Gerardo, discorrendo sommessamente con l'amico e aprendo sugli usci la sporta che gli pendeva dalla spalla.
A un certo punto s'udì un grido; poi altre grida soffocate, e un accorrere frettoloso di gente. Qualcuno si fece incontro ai due ; guardò l'orefice, esitò, non trovava parole : « Tuo figlio... una di sgrazia... è caduto... ha colpito con la testa contro un sasso. Poverino! che disgrazia!».
« Dov'è ? » chiese Gerardo. « è stato portato a casa ».
Gerardo prese per un braccio l'amico e s'incamminarono in fretta. Per i vicoli si sussurrava sotto voce : « Il ragazzo è morto ». Davanti alla casa, per il cortile e le scale, stazionava una folla di curiosi. Da dentro giungevano ondate di pianto, rumori e strida. Alessandro si accasciò sulla porta, con la faccia tra le mani ; Gerardo sali le scale ed entrò. Fece scansare i parenti che andavano e venivano all'impazzata, dicendo loro « Non è niente, non è niente ! ».
Si avvicinò al lettino : il fanciullo, cereo, non dava segni di vita. Si chinò su di lui, gli tracciò una croce sulla fronte gelida e corse a chiamare l'amico. Quando tornarono, il fanciullo era alzato e senza dolori, come ridesto dal sonno.
Il miracolo fu la migliore propaganda: dopo qualche giorno, Gerardo poté tornare a Deliceto con le sporte ricolme.
Ripartì per Muro poco dopo per c,intinuare l'impresa interrotta. Ultimò la città e si diede alla campagna, sempre preceduto dalla fama dei miracoli. Forse è da riferirsi a questo tempo il fatto narrato da una certa tradizione locale.
Egli si trovava a passare per la contrada. detta della « Maddalena», quando fu attratto da un alterco violento. Dai ponti di una casa in costruzione, muratori e manovali si rimandavano parolacce e bestemmie.
Il santo tramortì per l'offesa di Dio e si fece avanti: « Di che si tratta, buona gente ? ».
Il fatto era davvero irreparabile : la trave maestra risultava troppo corta. Era là, a mezz'aria, con le funi abbandonate.
E Gerardo : « Vi siete sbagliati. Riprovate ! ».
« Abbiamo provato troppe volte. Non c'è più nulla da fare!». « Riprovate: che vi costa ? ».
Qualcuno sbuffò; qualcuno protestò ; poi si riportarono ai loro posti e ripresero a tirare. Una testa poggiò sul muro. Si tentò con la seconda : quadrava perfettamente. Gli operai si guardarono in viso, muti e sbalorditi ; poi si volsero verso Gerardo, ma costui aveva proseguito il cammino.
Le offerte venivano depositate nella casa dell'orefice, Alessandro, che più tardi, dopo la morte del santo, racconterà al Padre Caione i benefici ricevuti da quella ospitalità.
Il primo beneficio riguardava la salvezza eterna della prima moglie, Rosa Caruso, la quale non s'era mai confessata di un peccato commesso in gioventù. Gerardo le disse a bruciapelo: « Confessati il tal peccato e poi preparati alla buona morte, perché, tra breve, dovrai passare all'eternità. Ma, quando sarai a quel punto, invoca i santi nomi di Gesù e Maria e ti troverai bene ».
La signora ubbidì e non ebbe davvero a pentirsene. Infatti, dopo qualche tempo, si mise a letto con una malattia piuttosto grave, ma che non destava preoccupazioni. Lei stessa sembrava cullarsi nella speranza di una prossima guarigione. E con lei il marito. Ma una sera, mentre questi s'intratteneva presso il suo capezzale, sentì bussare alla porta. Si affacciò : nessuno. « Sarà stato il vento », pensò tornando al suo posto, ma il colpo si ripeté con più forza. Si riaffacciò : silenzio e deserto. Interrogò le vicine : nessuno aveva visto, udito nulla. Fece entrare un'infermiera esperta del mestiere ed ella sentenziò : « Nessun pericolo di morte ».
Intanto il vipvai aveva prodotto cicaleccio e strepito, e la donna si lamentò che non la lasciavano riposare, che le avevano guastato il sonno. Tutti perciò si ritirarono. Ma quando l'ultimo passo si spense nel buio, fu bussato alla porta con violenza maggiore. Alessandro si riaffacciò : come prima, silenzio e deserto.
Allora credette di capire e andò a chiamare il parroco. Ma il parroco era al capezzale di un infermo. Dove ? Si fecero vari nomi ed egli corse di porta in porta, finché poté rintracciarlo e condurlo a casa. Trovò la moglie in agonia. Allora si ricordò distintamente della profezia di Gerardo : lo aveva preavvisato, perché l'inferma non morisse senza sacramenti. Di ciò ne ebbe la certezza assoluta quando, incontratolo dopo qualche tempo, gli chiese : « Fosti tu a bussare quella sera ? ».
Non rispose se non queste parole : « Tua moglie è stata fortunata perché è morta bene, col nome di Gesù e di Maria sulle labbra. Io mi son fatta la comunione per l'anima sua».
Passato il periodo di lutto, l'orefice contrasse nuove nozze con donna Eugenia Pascale. Tutto lieto, recandosi a Caposele per gli esercizi spirituali, ne informò l'amico che nel frattempo era stato trasferito colà. Gli rispose « Stattene allegramente e di buon cuore. Avrete molti dolori, ma non mancheranno le gioie. Sei già padre da quaranta giorni. Avrai un bel maschietto».
Alessandro prestò fede alle sue parole e chiamò fin d'allora il nascituro col nome di Gerardo. E l'evento premiò la sua fede. Appena tornato a Deliceto, il santo si presentò al Ministro « Padre, debbo partire immediatamente; il Superiore mi vuole a Melfi ».
« Che ? Ti ha scritto ? ».
«No, ma poco fa mi ha comandato tre volte di partire*. Il Ministro doveva conoscere la sua virtù se lo lasciò andare senz'altre spiegazioni.
Quando il padre Fiocchi se lo vide in episcopio, finse di cadere dalle nuvole: « Perché sei venuto ? Chi ti ha chiamato ? ».
« Vostra Riverenza».
« Io ?... ma tu sogni... Io non ti ho mandato né lettere né corrieri ».
Sorrise alquanto : « Sì, mi avete chiamato ieri alla tale ora, davanti a Monsignore ».
La cosa, secondo il racconto del Tannoia, era andata così : il giorno prima, il padre Fiocchi aveva parlato con mons. Basta delle virtù di Gerardo e dei doni straordinari ricevuti da Dio. Monsignore aveva mostrato vivo desiderio di conoscerlo, proponendo di mandare d'urgenza un corriere a Deliceto.
« Non occorre». aveva risposto il padre Fiocchi, «basta che ia gli dia il precetto mentale ed egli sarà qui ».
Aveva formulato mentalmente il precetto e Gerardo si era messo in viaggio.
Un viaggio intrapreso all'insegna del miracolo, non poteva non produrre frutti consolanti nel cuore del Vescovo e del clero melfitano. Il Vescovo specialmente non si saziava di ascoltarlo. Egli che era un'anima contemplativa educata alla scuola di Santa Teresa e di San Giovanni della Croce, lo volle interrogare sulle più ardue questioni della mistica e ne ebbe risposte così chiare ed esaurienti, quali non poteva aspettarsi che da uno specialista in materia. Il santo ne parlava senza astruserie, senza sforzo, come di cose conosciute per esperienza personale; ne parlava con una parola calda che illuminava e persuadeva. Dalla mistica passarono alla teologia; toccarono il mistero dell'Incarnazione del Verbo e della Redenzione e su ogni argomento Gerardo affondava lo sguardo con tale sicurezza d'intuito, con tale precisione di termini, con tale vastità di panorami che vescovo, canonici, e quanti ebbero la fortuna di ascoltarlo, lo paragonavano a un Sant'Agostino e a un San Girolamo.
Venuto il giorno del ritorno, il padre Fiocchi volle ancora da Gerardo un miracolo: la guarigione della signora Vittoria Buono Murante che giaceva a letto, in preda a dolorosa nevralgia.
Questa donna chiamata confidenzialmente in una lettera posteriore, «Mamma Vittoria», era una benefattrice dell'Istituto di cui conosceva tutti i missionari e lo stesso fondatore. Ogni missionario le ricordava suo figlio Mauro che, durante la missione del '50, si era talmente affezionato a Sant'Alfonso da volerlo seguire a ogni costo. Aveva quindici anni ed era ardente e generoso, ma debole e incostante. Sant'Alfonso doveva volergli un gran bene se lo chiamava il suo « Mauriccio » e apriva, unicamente per lui, una specie di scuola missionaria a Cioram, dandogli a maestro di umanità, il padre Ferrara. Ma il giovane aveva fatto i conti con l'esuberanza dei suoi sentimenti, non con le sue forze. Più volte aveva lasciato la casa religiosa e più volte aveva chiesto, con le lacrime della disperazione, di esservi riammesso. Finalmente, dopo la professione e ordinazione sacerdotale, col pretesto della salute, chiese la dispensa dai voti. Sant'Alfonso cercò in tutte le maniere di rimettere sulla retta strada questo figlio traviato : inutilmente. L'infelice, ritiratosi in famiglia, preso da rimorsi violenti, morì di crepacuore. Misteri del cuore umano!
Ma all'epoca della nostra storia, Mauro era ancora studente di umanità a Ciorani e mamma Vittoria, orgogliosa di lui, correva ad aiutare i missionari e complimentarli per le loro prediche. Le ascoltava in prima fila, pettoruta e soddisfatta, come se ascoltasse suo figlio, qualunque fosse la chiesa e chiunque fosse il missionario, ma le sue preferenze andavano per il padre Fiocchi. Tutti erano bravi lui era fuori concorso. Questa volta però il padre Fiocchi, che predicava in cattedrale, non aveva avuto il piacere di vederla tra i suoi uditori. « Deve essere malata», pensò, e non si sbagliava. Era a letto con una forte nevralgia che, gonfiandole la guancia, le aveva prodotto una stortura alla bocca. Quando lo seppe, inviò il santo a guarirla. Questi la trovò sul letto che si copriva, arrossendo, le labbra e sorrise di cuore, tra le proteste della donna che si credette burlata nei suoi dolori. Poi, con un balzo in Dio, la sollevò nella fiducia alla divina volontà. E, con un segno di croce, le raddrizzò la bocca.
Così un altro miracolo dell'ubbidienza conchiudeva questo viaggio. All'indomani Gerardo lasciò le vie affollate di Melfi per la solitudine di Deliceto. Ma ormai l'azione e il riposo, la città e il deserto avevano lo stesso valore per lui. Ormai aveva trovato l'equilibrio perfetto tra la preghiera e l'azione, perché la solitudine la portava nel cuore, e non gli era più necessario, come in gioventù, di appartarsi dal mondo per parlare con Dio. Ormai aveva raggiunto la calma degli spiriti grandi e il mondo lo guardava dall'alto, dove non giunge il breve trambusto degli uomini. Perciò, al primo cenno del superiore, partiva veloce, con l'occhio e il cuore dilatato. E con la stessa gioia si ritirava nel romitorio, solo a solo con Dio. I superiori non seppero ma; stabilire quale delle due tendenze prevalesse in lui: la contemplazione, o l'azione; la solitudine o i viaggi apostolici.
Quale il segreto di questo equilibrio ? Lo possiamo cogliere in una nota che risale al ritorno da Melfi. è l'unica volta che il santo ha fissato sulla carta una data: vi annetteva, dunque, una grande importanza. Doveva trattarsi di una illustrazione soprannaturale che s'incise come una lama nella sua anima : « Al 21 Settembre 1752 mi feci capace di questa massima : cioè che se fossi morto dieci anni addietro, non cercherei, né pretenderei cosa alcuna ». (o.c., pag. 87). Gerardo dunque si considerava come un essere morto a se stesso, a ogni propria inclinazione, a ogni propria volontà. Aveva raggiunto trionfalmente il « Perinde ac cadaver » di Sant'Ignazio di Lojola, cioè l'ubbidienza indifferente dei cadaveri, ed era divenuto uno strumento 'efficacissimo nelle mani dei superiori. Perciò la sua azione entrerà in un crescendo vertiginoso che lo porterà di peso fino al cielo.