In sott'acqua e sotto vento
Capitolo XIV
Dopo il brusco richiamo al rispetto dell'autorità, Sant'Alfonso volle provvedere la sua cara comunità di Deliceto d'uno di quegli uomini eminenti che rendono amabile la virtù e bella l'ubbidienza. Il padre Carmine Fiocchi aveva appena trent'anni, ma già era stato rettore della casa di Pagani e consultore generale. Questo ci dice il prestigio che godeva presso tutti. Il fondatore lo considerava un santo autentico. Scrivendo, infatti, l'anno prima al padre Margotta, gli augurava di farsi santo, come i padri Cafaro, Villani, Mazzini, Fiocchi, Ferrara: uomini morti alla loro volontà (Lettere, I, 173).
I confratelli lo ammiravano indistintamente per la costanza incrollabile nel seguire la propria vocazione, il trasporto istintivo verso la pietà, lo zelo indefesso per le anime e la carità inesauribile verso i sudditi. Compiuti gli studi a Napoli, aveva abbandonato le speranze di unà brillante carriera per chiudersi nel seminario di Salerno. Da qui, spinto dal desiderio del più perfetto, era volato al noviziato di Ciorani. I genitori, pur di riaverlo, si rivolsero al braccio secolare fu rinchiuso in un convento di Salerno, ma egli, forte dell'aiuto di Dio, vinse ogni ostacolo e ritornò nella solitudine di Ciorani, dove emise i voti nelle mani di Sant'Alfonso. Morì in concetto di santità dopo trent'anni di laborioso apostolato.
Questo era l'uomo destinato da Dio a divenire prima superiore diretto di Gerardo; poi, alla morte del padre Cafaro, suo direttore di spirito. E fu lui a dare una nuova svolta alla sua vita. Finora Gerardo era stato una fiaccola sotto il moggio ; il p. Fiocchi lo porrà sul candelabro. Ma sempre con la dovuta prudenza: lanciandolo a tempo e luogo opportuno e tirando i freni quando l'entusiasmo della folla minacciava di diventar travolgente. Fu lui ancora a mitigarne i rigori e a prescrivergli un vitto meno scarso e una stanza come gli altri. Così facendo, egli salvaguardava la salute del santo sempre più cagionevole e assecondava il proprio spirito di moderazione e di prudenza verso tutti i confratelli. Egli capiva bene che l'osservanza non può attecchire in un clima di miseria: povertà, ma non miseria. Perciò voleva un tenore di vita più umano che tenesse conto delle esigenze legittime della natura.
Ma dove trovare i mezzi ? Il padre Fiocchi era uno di quegli uomini che hanno l'arte di farsi gli amici e di suscitare la loro generosità : saper chiedere è già un gran vantaggio. Inoltre aveva a portata di mano un ambasciatore straordinario che parlava con l'eloquenza della santità e dei miracoli. E Gerardo fu il suo ambasciatore, un ambasciatore singolare che marciava all'insegna dell'umiltà, del disprezzo. E specialmente dell'ubbidienza. Al primo cenno del Rettore, partiva come si trovava, senza cambiarsi d'abito, senza provvedersi di nulla, presentandosi agli altri con la diplomazia della semplicità e della fiducia in Dio.
Fu così che cominciò ad allargare la sua cerchia di lavoro e di apostolato. Rimonta a questo tempo la maggior parte delle opere meravigliose che compì nei dintorni di Deliceto : miracoli e conversioni. Gli episodi si moltiplicano, ma tutti hanno alcuni punti in comune. Primo : l'occasione del viaggio, ed era la ricerca della carità materiale dei fedeli. E Gerardo riceveva con una mano e donava con l'altra. Riceveva un'offerta materiale e donava l'offerta spirituale della luce e del conforto. Secondo : il fiuto infallibile con cui avvertiva il peccato e leggeva i segreti delle coscienze. In ultimo la prontezza con cui spingeva l'anima a specchiarsi nella luce. Uno scossone formidabile e l'effetto era ottenuto.
Un giorno si aggirava nelle vicinanze di Sant'Agata. Andava, come al solito, a cavallo, con gli occhi socchiusi, immerso nella preghiera. Giunto a un bivio, si fermò di scatto. Una voce, di dentro, gli aveva detto: « Fermati, tra poco arriverà un gran peccatore! ». Ecco infatti spuntare un uomo sulla quarantina, mascella stirata, cappello sugli occhi. Proseguiva diritto, a grandi passi, nero come la tempesta. Gerardo gli si fece incontro con un grazioso sorriso
« Fratello, dove vai ? ».
« E a te che importa ? », rispose l'altro e seguitava a camminare torvo e dispettoso.
« Ma pure, dimmi chi sei, dove vai: forse, ti potrei aiutare ».
«Vado per i fatti miei; lasciami andare, frat4ccio della malora ! » e, chiuso come una lanterna, continuava la sua strada, più burbero, più arrabbiato che mai. Fu allora che Gerardo compi uno di quei gesti che atterrano : lo afferrò violentemente per un braccio e, ficcandogli addosso due occhi fulminanti, gli disse: « Io so chi tu sei : tu sei un disperato che stai per dar l'anima al diavolo. Ma coraggio ! Non è niente ! Dio mi ha mandato apposta per te. Abbi fiducia ! ».
« Sì, sì, è vero», borbottò il disgraziato e la faccia assunse un atteggiamento di smorfia dolorosa e la parola si sciolse in pianto. « Non temere! » riprese Gerardo, « va a Deliceto dal padre Fiocchi; digli che ti mando io. Fatti da lui una buona confessione e non aver paura di niente».
Dopo qualche ora, il disperato di Sant'Agata era ai piedi del padre Fiocchi, a piangere i suoi peccati e a ringraziare il Signore della grazia della propria conversione. Fu tanta la sua gioia che volle rimanere molti anni in collegio a prestar la sua opera gratuita di sarto, esempio a tutti di lavoro indefesso, di preghiera e di penitenza assidua. In ultimo, spinto dal desiderio dell'immolazione completa per i suoi fratelli, volle recarsi a Napoli come infermiere volontario all'ospedale degli Incurabili, dove morì, vittima eroica della sua carità. Si chiamava Francesco Teta.
Un altro giorno Gerardo s'imbatté, a poche miglia dal collegio, in un giovanotto stravagante : qualche cosa tra l'avventuriero e il sognatore squattrinato. Costui, vedendo aggirarsi per i dirupi della montagna quella strana figura di frate infagottato in una vecchia talare, con due occhi fosforescenti sotto un cappellaccio a cencio, gli disse in tono di burla: « Fossi tu per caso un negromante ? ». Gerardo si fece una risata
« Altroché ; sono negromante, e come!».
Il giovane aveva sentito parlare di stregoni che vivono nelle grotte a custodia di tesori favolosi. Bastava superar delle prove e in un momento si diveniva ricchi sfondati. E subito la sua fantasia si accese: « Senti», disse correndogli vicino, « se vai a cavar qualche tesoro, son qui, ti accompagno, posso darti una mano ».
Gerardo colse a volo la circostanza favorevole e, con una certa sospensione nella voce, gli rispose: « Ma ... sei uomo di fegato tu ? ».
« Io ? ... Ah tu non mi conosci. Io ho fatto questo, io ho fatto quest'altro ... » E continuò per un bel pezzo a snocciolare tutte le
sue prodezze. Infine concluse: «Te nei sei convinto ora? No? E allora senti anche questa: sono sei anni che non mi confesso». «Bene, benone », soggiunse Gerardo, «proprio te andavo cercando, tu fai proprio per me. Fai come ti dico e il tesoro è bell'e trovato ».
Così dicendo, s'incamminarono per un boschetto, mentre il giovane si sbracciava sempre più a mettere in mostra le sué bravure. Penetrarono tra le piante umide, nel folto dei cespugli, e giunsero in una breve radura, sperduta nel silenzio dei tronchi e dei rami. « Orsù, a noi», esclamò Gerardo, « ecco il luogo*. E, steso a terra il mantello, comandò al giovane di entrarvi. Il giovane si sbiancò in volto e tremò, credendo di veder sbucare da un momento all'altro il diavolo in persona.
« Ed ora inginocchiati ! » tonò il santo a voce alta, « ti ho promesso un tesoro e voglio mantener la parola. Ma il tesoro di cui ti parlo, non è un tesoro di questo mondo. è il tesoro di tutti i tesori, è il tesoro del paradiso». E tirò fuori il Crocifisso dal petto: « Ecco quel tesoro che tu hai perduto da tanto tempo, quel tesoro che tu hai barattato per niente ... ». Seguitò con zelo infiammato per circa mezz'ora, finché non vide il giovane sferrare a piangere e urlare come un pazzo. Allora, abbracciandolo, lo sollevò da terra e lo condusse in collegio dove, con una bellissima confessione, gli ridiede serenità e pace.
A tante conversioni, si aggiungeva la fama di molti stupendi prodigi. Si diceva da ogni, parte che le sue mani avessero guarito molti infermi già disperati dai medici. E la voce richiamava malati d'ogni genere. Ma un giorno un fatto straordinario accadde proprio alla portineria del collegio. Gerardo rientrava da una delle solite escursioni, quando si trovò di fronte un giovanotto abbattuto lungo gli stipiti della porta. Vicino, un uomo attempato, taciturno come una statua.
« Chi volete ? », chiese loro. «Vogliamo fratel Gerardo ». « Sono io ».
Allora i due ruppero in gran pianto, chiedendo ad alte grida la grazia.
« Quale grazia ? », proseguì Gerardo che già si curvava benigramente verso il giovane. Questi, per tutta risposta, si portò la mano al piede fasciato, urlando : « Oh Dio ! è finita per me ! Mi taglieranno la gamba e dovrò morir di patimenti e di fame!
Gerardo, in ginocchio, già sfasciava le bende impregnate di pus e di sangue. Quando apparve una poltiglia di fetido marciume, ebbe un moto di ribrezzo, subito represso da un movimento più forte di carità di fronte al giovane che si dimenava per terra in preda agli spasimi: chiuse gli occhi; accostò la bocca e succhiò, succhiò, finché apparve l'osso spolpato e intorno una pellicola nuova, teneramente rosata. Allora rifasciò la ferita, poi disse all'infermo e all'accompagnatore: « Ora riposatevi, ripartirete domani di buon'ora ».
All'indomani il giovane si levò guarito, incamminandosi a piedi, benedicendo Dio e fratel Gerardo.
Tale miracolo, con le inevitabili ripercussioni, provocò un certo afflusso di pellegrini che minacciavano di turbar la pace della comunità, durante il raccoglimento quaresimale. Si corse perciò ai rimedi, e s'innalzò una barriera di silenzio tra il santo e gli estranei, chiunque essi fossero, compresi gli eremiti che vivevano ai margini del collegio. Il provvedimento fu opportuno, perché, liberando il nostro Fratello dagli impegni domestici, proiettò più lontano la sua attività altamente benefica. Cominciò da allora a frequentare i centri popolosi delle Puglie e del Vulture, sempre uniformato « ad miraculum », secondo la felice espressione del p. Caione, alla volontà di Dio e sempre perseguendo, anche nelle città e nei palazzi, il suo ideale di perfezione evangelica.
Un giorno gli fu comandato di recarsi dalla duchessa d'Ascoli, Eleonora Sanfelice, della prima nobiltà del regno. Doveva recarsi nel suo castello dorato, passando tra maggiordomi gallonati, paggi e servitori in livrea, per essere ricevuto proprio da lei, la gran dama. Quale onore ! Il santo non si scompose : con la divisa dei seguaci di Cristo, potrà figurare anche davanti alle regine del mondo. Prende cappotto e cappello e fa per avviarsi, quando si accorge di dover pensare anche ai piedi, ai poveri piedi ravvolti in vecchie pantofole scalcagnate. Come fare ? Dove trovare un paio di scarpe ? Le sue sono dal ciabattino che non sa più dove metter le mani per aggiustarle. Ne chiederà di nuove ? Ah questo poi no, non lo vuole la povertà professata. E allora ? Parte come si trova; raggiunge Ascoli Satriano, penetra nella piazza dove viene salutato con una salve di sassi e torsoli e fischi e grida da parte di una frotta di monelli; ma egli prosegue diritto e sereno, fiero della sua livrea di povero di Cristo. Inutile dire che la visita produsse un grande effetto sulla duchessa che divenne sincera ammiratrice del santo.
Da Ascoli, sul suo cocuzzolo pelato, a guardia del Tavoliere, raggiunse Foggia, capitale dello stesso Tavoliere, in quella quaresima del '52 con l'indirizzo del monastero del SS. Salvatore e il saluto del padre Fiocchi per la madre Maria Celeste Crostarosa. Questa Madre nel 1731, nel monastero di Scala presso Amalfi, aveva avuto la prima rivelazione dell'Istituto dei Redentoristi. Poi, costretta da circostanze esterne a lasciare quell'asilo, aveva fondato in Foggia il conservatorio del SS. Salvatore che dirigeva con mano esperta e sicura. Anima infiammata di Dio, ripiena di carismi eccezionali che la pongono tra le più grandi mistiche del Settecento, estrosa e volitiva, ingenua ed esperta della vita, sapeva passare con naturalezza da una contemplazione ardita sul mistero del Verbo Incarnato, a una dissertazione sui gradi dell'orazione infusa, o alle canzoncine spirituali, vivaci nel sentimento e felici nelle immagini, anche se trasandate nella forma. Ricordiamo la « Tarantella al dolcissimo Nome di Gesù» e il « Dialogo tra Gesù e l'anima zingarella », se non altro, per quel senso di pastorale e di arcadico che spira dai titoli ed è testimone di una certa cultura umanistica.
Solo i santi sanno comprendersi e i due si compresero perfettamente ai piedi di Gesù che divenne il fulcro della loro amicizia. La Crostarosa che toccava ormai i cinquantacinque anni e portava sul volto le rughe scavate dalle incomprensioni e dalle invidie, dovette avere una predilezione materna per quel giovane tanto semplice e tanto folle del suo Dio. Certo, sarà l'unica, come vedremo, a ricordarsi di lui, nel momento supremo della prova.
Da parte sua, Gerardo dovette sentire affetto e riverenza di figlio per quella suora austera e gioviale, dal manto azzurro sulla tunica rossa, perché l'Istituto da lei fondato doveva riprodurre perfino nelle vesti la vita terrestre del Salvatore. Era nella tradizione della spiritualità teresiana la meditazione costante dei misteri del Verbo Incarnato: e la Crostarosa, come le Carmelitane di Ripacandida, come lo stesso Sant'Alfonso, si distinguevano per la fedeltà agli insegnamenti della grande maestra di Avila.
Sulla scia di questi santi, Gerardo, che finora non aveva visto che l'Eucarestia e la Croce cioè la passione e il memoriale della passione, allargò lo sguardo su tutta la sacra umanità di Gesù. è facile notarlo nella corrispondenza di questo periodo alle suore di Ripacandida. Il 22 gennaio del '52, rispondendo alla Priora che gli aveva manifestato il desiderio di parlargli da solo a solo nel luogo più sicuro, cioè nel sacratissimo Costato di Gesù, Gerardo se ne dichiarava sommamente soddisfatto. Oh in quel rifugio egli vi penetrava frequentemente e sempre aveva la gioia di trovarvi e rimirarvi Maria di Gesù e di offrirsi al Sacro Cuore per lei. Nel sacro Costato la salutava e con lei tutte le suore.
Ma su tutta l'umanità del Signore, egli vedeva proiettarsi l'ombra della Croce: il Cuore di Gesù era sempre impiagato; il sacro Costato, sempre trapassato dalla lancia, ; il volto di Gesù, sempre velato di mestizia.
Così la visione dell'infanzia si allargava senza perdere la sua originalità che proprio in questo periodo acquista gli accenti più profondi. Lo spettacolo di tante suore estatiche intorno al Verbo Incarnato, il loro corpo assiepato intorno al muto tabernacolo, gli suggeriscono l'immagine suggestiva delle suore carceriere di Gesù; della Priora, prima carceriera del Signore appassionato. Ma il loro è un assedio d'amore; è la morsa materna sul corpo del figlio. Così l'immagine rifluisce naturalmente dal carcere al focolare, alla mamma. La suora è appunto una madre ed ha un figlio: Gesù. Dunque, la suora è qui in terra l'immagine più perfetta della Madonna. « Non vi meravigliate - dirà alla stessa Priora - se io vi scrivo così affezionato. L'unica ragione ne è che voi siete stimate da me per vere dilette spose di Gesù Cristo, e perciò mi muove a divozione il conversare continuamente con voi. Ma l'unica ragione che mi tocca al vivo del cuore è che voi tutte spose, mi ricordate e rappresentate la Divina Madre » (Lettere del 1o e del 16 aprile). Forse la somiglianza gli sarà stata suggerita dalla tunica rossa e dal manto azzurro che trasformavano le suore del conservatorio in immagini viventi del Figlio della Vergine.
A Foggia, Gerardo rimase buona parte della settimana santa con sommo profitto del suo spirito, come dirà a una suora di Ripacandida. La somiglianza della regola con quella del proprio Istituto gli dava l'illusione perfetta di trovarsi in Deliceto, tra i confratelli, mentre la presenza serafica della madre Crostarosa gl'infondeva un senso di calma nelle prove dello spirito. Prima di ripartire, volle mostrare alle suore il frammento della statua di Santa Teresa, avuto a Ripacandida, ed esortarle ad amare la gran santa. Non l'avesse mai fatto ! Le suore insorsero con la prepotenza delle anime buone, e lo vollero a ogni costo. « Mi fu tolto » scriverà poi il santo alla madre Maria di Gesù, chiedendone un secondo, « mi fu tolto da un Monastero desideroso di esso e, per non far loro perdere la devozione, mi fu forza darlo» (o. c., pag. 20).
Verso la fine di marzo, prese la via del ritorno.
Era una giornata tempestosa con grosse nuvole e lunghi ululati di vento. Quando comincìò la salita di Deliceto, la pioggia, trasportata dal vento che muggiva fra le gole selvagge, lo prese d'infilata.
Il cavallo, acciecato dalle raffiche, s'impennava a ogni passo, portandolo a casa a notte avanzata. Gli venne ad aprire, borbottando, il ' portiere con gli occhi tra i peli. Lo aiutò in fretta in fretta a scarìcare le provviste e si ritirò a continuare i suoi sogni. Anche Gerardo cercò di ritirarsi nella sua stanza, ma la trovò occupata da un confratello di passaggio. S'udiva di fuori il suo ronfare rumoroso. Allora andò tranquillamente nella crociera del corridoio, si raggomitolò per terra, fradicio di pioggia e morto di fame, e attese, sbattendo i denti, il mattino.
Tali incidenti, ci avvisa il padre Caione, non furono rari, perché la sua stanza era considerata la stanza di tutti ed egli non chiedeva mai nulla, né alloggio, né biancherìa per cambiarsi. D'altra parte non era facile accorgersi delle sue necessità: tanto era abile nello sfuggire all'attenzione degli altri.
L'incidente della pioggia e del vento suggerisce al nostro santo una delle immagini più espressive per raffigurarci il suo stato interiore, sbattuto dalle prove. Non lo crederemmo, tanto siamo avvezzi a considerare la sua vita come il susseguirsi di fatti strepitosi, lo svolgersi di un magnifico arazzo dipinto dalle mani di un grande artista. E invece ,non è così. Abbiamo in contrario le confessioni dolorose dello stesso Gerardo che crescono di angoscia col passare degli anni e col moltiplicarsi dei miracoli.
Era solito dire : « Quando si tratta di patire, Dio è sempre pronto ad esaudirci. Non c'è domanda che accoglie più volentieri. Le altre grazie, specialmente quella della salvezza eterna, egli le dona sì, ma con una certa lentezza, perchè siano stimate a dovere. Ma quando si tratta di patire, non si fa a tempo a chiedere e si è esauditi ». Il santo lo aveva imparato a sue spese e ne subiva le conseguenze.
Quanto più rifletteva sugli altri la luce abbacinante della propria anima, tanto più si addensavano sul suo spirito le oscurità e le prove. L'intervento del Blasucci era stato una goccia di balsamo in una coppa di fiele. Poco dopo, il tormento lo riprese con un crescendo continuo, come le acque di un fiume che corre verso la foce. La sua anima si dibatteva nell'ìmpotenza, nel vuoto assoluto. Era tentata di disperazione e, come un naufrago, si afferrava all'ultimo scoglio rimastole in mano: la volontà di Dio. Da lei, solo da lei riconosceva
l'origine della prova e solo nel cieco abbandono tra le sue braccia gli si apriva un fioco spiraglio di luce. Perciò scriverà alla Priora di Ripacandida in data 16 aprile: « Il Divino Volere vuole che io cammini in sott'acqua e sotto vento». è Dio, dunque, che vuole che egli vada avanti alla cieca, senza vedere dove metta i piedi, o quale efficacia possano avere le sue preghiere per il bene della propria anima. è Dio che lo vuole povero, come il pezzente della strada, coperto di piaghe e di cenci ; è Lui che vuole che egli bussi alla porta di tutte le case, e specialmente dei monasteri, in cerca di preghiere. Le vergini consacrate, le carceriere, le spose, le madri di Gesù, hanno dei titoli speciali per aiutarlo e Gerardo non si stanca di chiedere e d'importunare l'aiuto delle loro preghiere : « Per l'avvenire non vi scordate di raccomandarmi a questo Divino impiagato d'amore. Vi ripeto di nuovo che non vi scordiate di raccomandarmi spesso al Signore, perché ne ho un grandissimo bisogno e Dio sa le solite mie necessità ». (Lettera del primo aprile alla madre Priora di Ripacandida).
E in un'altra vorrebbe che la madre Priora desse alle sue figlie l'ubbidienza di pregare continuamente per lui. E quando viene assicurato del compimento volontario di questo suo desiderio da parte delle suore, esplode in grida di gioia: « La grazia del Divino Amore sia eternamente nell'anima di V.R. Amen.
0 Dio, che somma contentezza ho avuto quest'oggi nell'interno per aver ricevuta la sua stimatissima da me tanto tempo bi amata! ». Ma l'assicurazione della Madre attizza maggiormente le fiamme dei suoi desideri. Non ha ancora finito di ringraziare per le preghiere già fatte, che torna a bussare con maggiore insistenza. Anzi questa volta si appella, come estremo argomento, alla stessa volontà di Dio «Vi discorro con verità innanzi a Dio: questo mio desiderio non è mio volere, ma è (volere) dell'Altissimo che mi fa sempre chiedere aiuto dagli altri, perché io non posso». E non può perché deve uniformarsi alla divina volontà che lo vuole come un relitto schiaffeggiato dalla tempesta: « Il Divino Volere vuole che io cammini in sott'acqua e sotto vento... Voglio che sia fatto sempre perfettamente il suo Divino Volere, purché Dio me ne faccia degno». Ma, ardire stupendo, mentre si sente impotente a pregare per se stesso e tremante ricorre alle preghiere degli altri, ha poi la balda certezza d'avere nelle proprie mani la forza infinita di Dio e di poterne disporre a beneficio di tutti: « Il mio unico padrone Gesù Cristo ha dato a me tutta la sua infinita mercé, la quale io l'ho offerta al suo Eterno Padre e voglio che, con la stessa mercé datami da suo Figlio, paghi a voi (cioè alla madre Maria di Gesù) duplicatamente e con l'infinita gloria per tutta l'eternità».
L'affermazione è davvero di una grandezza sovrumana: Gerardo che non si lascia abbattere dalle aridità e dalle desolazioni, Gerardo che si abbandona nelle mani di Dio perché lo conduca, attraverso il deserto, fino a Lui, si rende forte della stessa forza di Gesù e l'offre al Padre a beneficio del prossimo. Se vogliamo conoscere il segreto dei suoi miracoli e delle sue conversioni, dobbiamo ricercarlo proprio qui, in questa debolezza che si appoggia all'onnipotenza di Dio, anzi, per un'audacia inaudita, se l'appropria per la salvezza degli uomini.