La grande epifania
Capitolo XXI
Le opere di Dio, anche le più meravigliose, stupiscono per l'umiltà delle loro origini: fiumi regali, scaturiti da minuscoli rivi, seppelliti nelle viscere della terra. è Dio che vuole così, perché nessuna creatura possa insuperbirsi davanti a Lui.
Insuperbirsi ! Ecco una parola che non poteva comprendere il nostro Gerardo. « L'uomo», diceva, « non può nemmeno dire: io mi umilio, o io mi abbasso. è troppo umile per umiliarsi; troppa basso per abbassarsi».
Forte di questo principio, fatto carne e sangue suo, egli ha occupato costantemente l'ultimo posto nella scala sociale, si è adeguato alla terra. Perciò il Signore lo ha imposto all'ammirazione dei popoli. Prima, ai singoli individui, poi alle collettività intere, trasformando la sua azione in apostolato vero e proprio, di quello che getta la rivoluzione nelle città e nelle campagne.
Il passaggio a questa nuova forma di apostolato, più esplicito e continuativo, avviene proprio adesso, nella primavera del 1753, in occasione d'uno dei soliti viaggi caritativi, compiuto questa volta nella città di Corato. Il viaggio, per un seguito di circostanze provvidenziali, diventa una vera missione che cambia il volto di una città popolosa e lo addita ai superiori e ai vescovi come l'apostolo e il taumaturgo per eccellenza. Per questo, il Rettore di Deliceto gli affida un gruppo di studenti in partenza per un lungo pellegrinaggio ; il padre Cafaro lo manda come paciere a Castelgrande ; il vescovo di Melfi lo reclama nella sua diocesi, perché dice: « Ora conosco che Gerardo è veramente santo»; il vescovo di Lacedonia, durante un fiero contagio, lo vuole nella sua città, medico dei corpi e delle anime. Tutto in conseguenza del viaggio trionfale di Corato che è stato la grande rivelazione di Gerardo.
Quale lo scopo del viaggio ? Non lo sappiamo. « Fu a Corato », ci dice il padre Caione, « per non so quali affari, in casa dei signori Papaleo, e furono più le opere prodigiose che fece, che i passi che diede ». Così risalta anche meglio la sproporzione tra i fattori umani e l'intervento divino. Il quale cominciò a manifestarsi prima ancora che il santo raggiungesse la meta.
Infatti, dopo un lungo viaggio, si era già accostato alle ultime ondulazioni che cingono la città. Il paesaggio era monotono, ma, tra il biancheggiare delle ghiaie e il lividore delle frane, squillava l'azzurro degli ulivi e l'arco cristallino del cielo.
Vi saliva il nostro santo sulle ali della preghiera, quando scorse al margine della strada un massaro che si torceva rabbiosamente le mani, mugolando parole di dolore e di disperazione. Arrestò il cavallo: « Che c'è, buon uomo ? ».
« Che c'è ?... Che c'è ?... Non mi far parlare, tanto è inutile, nessuno ci può far niente ».
« Come, buon uomo? Tu credi che Dio non ti possa aiutare?». Quegli allungò la mano verso il campo.
« Vedi ? I topi mi hanno rovinato il grano. Quest'anno morrò di fame con tutta la famiglia ».
Si scorgevano, infatti, tra solco e solco, in tutte le direzioni, strani rigonfiamenti a fior di terra: i roditori compivano nell'ombra la loro distruzione.
Gerardo non ci pensò due volte : strappò dalla siepe una pertica, tracciò sui seminati una gran croce e si rimise tranquillamente in cammino.
Il massaro riprese la sua geremiade, gettando un passo dopo l'altro lungo i seminati con la svogliatezza di un condannato a morte. Aveva fatto appena qualche passo, quando vide una fila di topi con le zampe all'aria, morti o moribondi. Si spostò rapidamente a destra a sinistra, in lungo e in largo: dappertutto, topi morti, o moribondi. Allora saltò sulla strada e si diede a rincorrere l'uomo di Dio, urlando a perdifiato: «Il santo, il santo! Miracolo, miracolo! ».
« Che c'è, che c'è ? ». Qualcuno sbucò dai campi, qualcuno che veniva dalla città, si fermò : in un baleno una piccola folla circondò il contadino, il quale non faceva che ripetere il miracolo dei topi. Parlava e correva e tutti lo seguivano gridando : « Miracolo, miracolo ! Il santo, il santo ! ».
Gerardo si vide perduto: alle sue spalle, la marea montante di grida : davanti, la strada sconosciuta ; in lontananza, le prime case della città. Dove andare ? Dove abitava questo Felice Papaleo ? Non c'era tempo da perdere. Abbandonò le briglie al collo del cavallo e lo mise al galoppo. La bestia divorò la strada ed entrò, scalpitando, tra le mura di Corato, infilando una via dopo l'altra : poi si fermò di botto davanti a un portone.
Ne usciva una donna: « Buona donna», Gerardo le chiese, « sapreste indicarmi dove abita il signor Felice Papaleo ? ».
« Papaleo ? I Papaleo siamo noi. Questa è la nostra casa». E lo fece entrare.
Intanto la folla aveva messo a rumore la città. Qualcuno era andato e tornato dal campo del miracolo con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Tutti cercavano il santo, tutti volevano il santo. Dov'è, dove non è, finalmente scovarono la famiglia ospitale e la presero d'assalto. Gerardo dovette mostrarsi e parlare. Con poche parole li spinse all'entusiasmo e alle lacrime. Da allora, la casa, il cortile, la via antistante fu invasa da una moltitudine d'ogni età e condizione sociale che chiedeva di vederlo e parlargli ; si apriva al suo passaggio e lo accompagnava dovunque, i ricchi accanto ai poveri, le dame alle massaie, tutti affratellati, almeno per un giorno, dalla carità di Cristo.
Ma l'afflusso principale era di sera, quando sacerdoti, signori e gentildonne, operai e contadini si avvicendavano nella casa per aver la fortuna d'intrattenersi da solo a solo con lui. Lo trovavano in uno stanzone, con gli occhi posati su un grande Crocifisso appeso alla parete di fronte. Attingeva da Lui i pensieri, le parole, quella lucidità di visione per cui penetrava in ogni coscienza e vi leggeva come in un libro aperto. Vi attingeva, specialmente, quel calore interno che, qualche volta, lo faceva rimanere estatico con la parola spezzata in bocca.
Una sera, parlando con un gentiluomo, s'interruppe, restando immobile, le pupille dilatate, senza respiro, senza movimento. Così per una buona mezz'ora; poi, con un lungo sospiro, come uscendo da un sogno, riprese il colloquio.
Verso l'una o le due di notte, congedato l'ultimo ospite, si ritirava nella stanza, si disciplinava aspramente, poi si gettava sul nudo pavimento che già baluginava. Si alzava dopo qualche ora, scompigliava coperte e lenzuola e riprendeva il lavoro : un lavoro che cresceva d'intensità con l'avvicinarsi della settimana santa. Passava dalla chiesa al capezzale dei malati; dalla casa Papaleo ai monasteri delle suore.
Il monastero delle Domenicane aveva bisogno assoluto di riforma, perché, situato lungo la strada maestra, a pochi passi dalle mura della città, era più un osservatorio che una casa religiosa. Infatti da un magnifico belvedere si poteva contemplare l'ampia vallata sottostante, mentre da un finestrone alquanto basso si potevano contare i passi di chi entrava e usciva da Corato. Così l'aria del mondo circolava liberamente in clausura, producendo i suoi tristi effetti. C'era anche chi faceva sfoggio di vesti ricercate e di anelli preziosi. Il silenzio e la disciplina erano decaduti; la rilassatezza era generale. La priora, sulle prime aveva cercato di arginare il male; poi la sua parola era caduta nel ridicolo.
Gerardo arse di zelo. Il tempo sacro della passione gli fornì materia per le sue conversazioni : di proprio ci mise tutto il fuoco dell'anima e l'ardore degli occhi.
Un giorno, mentre parlava dell'amore di Gesù nell'affrontare la morte per noi, la fiamma, divampando all'esterno con forza irresistibile, gli mozzò il respiro. Dovette fermarsi, muto e tremante come un fuscello. Si abbracciò all'inferriata, con gli occhi al cielo, sotto il peso di un dolce deliquio ; poi si riscosse e chiese dell'acqua. Ne tracannò una parte ; il resto se la gettò sul petto per temperarne l'arsura. Spesso i suoi discorsi finivano in soliloqui amorosi con Dio, come se l'uditorio fosse scomparso dai suoi occhi.
Il prodigio fu operato : si gettarono gli anelli e le vesti raffinate; l'osservanza tornò a fiorire. Specialmente l'ubbidienza. Ma il santo non era ancora contento. Sapeva che i propositi più eroici non sarebbero durati se l'aria del mondo avesse continuato a circolare liberamente nel sacro recinto. Perciò volle che le suore s'impegnassero solennemente a non mostrarsi più all'esterno. Lo promisero. Allora si levò dal petto il Crocifisso e lo fece appendere nel corridoio di accesso al belvedere perché rimanesse lì a ricordare le loro promesse e ad ammonire le incaute.
Restava il finestrone, l'osso più duro, e bisognava battere il ferro finché era caldo. Gerardo pregò a lungo ; poi raccolse ancora una volta le suore e le portò a tal clima di fervore, che lì, a tamburo battente, se ne decise, con voto unanime, la chiusura. Chi prese i chiodi, chi il martello, chi la scala e fu un risonare di colpi, uno stridere d'imposte. In poco tempo tutto fu a posto. Allora Gerardo ordinò che vi fosse inchiodato sopra un grande Crocifisso, dicendo « Le suore che vogliono salvarsi, guardano solo Gesù Crocifisso ».
E non fu fuoco di paglia.
Passarono sette anni, quando giunsero a Corato due padri redentoristi, tra cui il padre De Meo. Questi, osservando il belvedere sempre deserto a qualunque ora del giorno, esclamò: « Gesù ! E che è questo ? Son tutti morti qua dentro ? ».
Il sacerdote che lo accompagnava rispose: « Sono ormai sette anni che venne qui fratel Gerardo; da allora non si vede più una suora ».
Il ricordo di quegli avvenimenti grandiosi non si spense più tra quelle mura, perchè le religiose se li tramandarono l'una all'altra, anzi qualcuna attribuiva al santo l'origine della propria vocazione. Tra le altre, due suore venerande, morte in concetto di santità : suor Maria Iacobi e suor Vincenza Palmieri, le quali, all'epoca della nostra storia, erano ancora educande.
« Mia madre », diceva suor Vincenza, « era molto ricca e, partendo per Napoli, mi affidò, come educanda, alle suore. Io ero ancora piccina, ma già pensavo con invidia alla vita galante che la mamma avrebbe condotto nella capitale : spettacoli, festini, divertimenti. Perciò sentivo più gelide le mura del monastero. Ma verrà la mamma, dicevo per confortarmi, e avrò anch'io la mia felicità. Ma un giorno venne fratel Gerardo e mi disse : - Che uscire, che uscire ! Voi dovete esser monaca in questo monastero. - Oh non è questa la mia vocazione, risposi freddamente. - Bene, bene, soggiunse, Dio è padrone dei cuori e saprà cambiare anche il tuo. Tu sarai suora proprio in questo monastero che ora detesti e vi morrai da serva di Dio. - Da allora, non so come, cominciai a sentirmi mutata e ad amare la vita austera del chiostro. Quando venne la mamma per portarmi via, ero un'altra e mi rifiutai di seguirla, nonostante le sue insistenze ».
Morì quasi centenaria, confortata visibilmente, come si narra, dal patriarca San Giuseppe.
Col monastero delle Domenicane, Gerardo visitò quello delle Benedettine.
Qui, grazie a Dio, le cose andavano molto meglio : non c'erano abusi ; l'osservanza era in fiore. Ma egli voleva il fervore, l'eroismo, la santità, insomma quella volontà risoluta che non dice mai basta al soffio rigeneratore dello Spirito. A questo mirò con le sue esortazioni alla preghiera assidua, alla comunione frequente, al distacco assoluto dal mondo. E ottenne l'intento.
Non si ricordano tra queste mura opere strepitose, ma solo una profezia alla badessa Azzariti.
Era un'anima umile e pia che voleva l'esonero dalla carica. « Prega Dio», disse. a Gerardo, « che mi liberi da questa croce». Egli la fissò un momento; poi cispose: « Si, ne sarai liberata, ma solo per caricarti di un'altra croce più pesante.
E così fu. Di lì a qualche tempo, tornata al rango di semplice suora, fu colpita da una piaga cancrenosa alla gamba che la portò alla tomba dopo anni di atroci sofferenze pazientemente sofferte.
Tanto zelo, tanto fervore di apostolato doveva finire in bellezza. La sera del 20 aprile, venerdì santo, il popolo sfilava muto dietro i simboli della passione, al chiarore delle torce a vento. Precedevano uomini incappucciati coi lanternoni inastati: in mezzo avanzava un Crocifisso dissanguato, con la bocca aperta e le pupille semispente. Lo spettrale corteo attraversò le vie del paese ; poi entrò nella chiesa delle Benedettine, disponendosi a semicerchio intorno alla balaustra, mentre il coro delle suore intonava un canto di dolore e di pentimento. Questo canto, queste luci riscossero il nostra santo che pregava chissà da quanto tempo, in un angolo buia del tempio. Aprì gli occhi e si trovò a faccia a faccia col Crocifisso alto e massiccio sul quale sbatteva sanguigna la luce dei ceri. Come una potente calamita, quella visione lo attirò, lo attirò fino a portarlo ai piedi del Crocifisso, fino a sollevarlo più palmi da terra per congiungere le sue labbra con le labbra divine tra il commosso entusiasmo della moltitudine.
Era l'epilogo trionfale del viaggio. Dopo qualche giorna, Gerardo ripartiva improvvisamente, invano trattenuto da sacerdoti e gentiluomini, contadini e artigiani ai quali non faceva che ripetere: « Il superiore mi vuole; non posso restare ».
Tutti stupirono, perchè non erano giunti né lettere, né corrieri da Deliceto. Il canonico Giovio ne domandò, in seguito, spiegazione al padre Fiocchi e costui svelò il mistero della partenza subitanea egli aveva comandato mentalmente al Fratello di tornare in collegio. Partì, dunque, seguito dalle benedizioni di tutta Corato. Il canonico Scoppo di Melfi si rese interprete di tali sentimenti con una relazione particolareggiata allo stesso padre Fiocchi, ripiena di ammirazione e di stupore.
« La Divina Provvidenza », egli scrive, « ha fatto che in Corato si portasse Fratel Gerardo, inaspettatamente, anzi, per divino volere, miracolosamente, per provvedere alla salute delle sue dilette creature, mentre con la sua venuta e col suo buon esempio, ha tirato a divozione tutto il popolo, ed ha operato stupende conversioni. I signori, le gentildonne lo seguivano a folla e la compunzione e l'ammirazione è stata somma ... Padre mio, mi si confonde la mente e mancano le parole in bocca per potermi spiegare. Vostra Riverenza non si può immaginare il concorso e il seguito che aveva per la città ; mai lo lasciavano, anzi lo portavano in mezzo, come un santo calato dal Paradiso... Era una cosa meravigliosa... Ogni parola che usciva di bocca a Gerardo feriva i cuori di tutti gli astanti... Al solo proferire qualche sentimento di Dio, si vedeva il silenzio e si udivano i profondi sospiri, mentre egli con poche parole ammolliva e atterriva ogni duro cuore... Infiammati dalla sua santità e dal suo buon esempio, i signori non solo vogliono la Missione in Corato, ma una ventina di essi e anche più, vogliono venire per il 15 o 20 del mese entrante a fare gli esercizi a Deliceto, e molti sono animati a lasciare il mondo...».
E, dopo aver parlato della conversione del monastero delle Domenicane e accennato al fervore che regnava nella città, conclude « Vorrei scrivere di più, ma mi manca la lena di scrivere quanto mi sta in mente. Spero nel Signore di venire di persona per parlarvi a viva voce di molte cose meravigliose ».
La lettera porta la data del 24 aprile 1753. Erano due o tre giorni che il santo aveva lasciato Corato e già le sue gesta avevano acquistato una risonanza epica.
Erano passate alla storia.