La freccia
CAPITOLO XIII
La prova della "crocifissione" era l'ultima che Gesù richiedeva dal Santo per appagare il suo desiderio di arruolarsi alla santa milizia. La Domenica in albis, arrivarono a
Muro alcuni Redentoristi guidati dal venerabile P. Cafaro, direttore spirituale di S. Alfonso ed eloquente oratore sacro, le cui parole, come scriveva il Fondatore, " erano come frecce che ferivano'". I suoi Confratelli lo chiamavano " ira di Dio'" perché, quando predicava specialmente sul peccato e sul Giudizio universale, faceva tremare gli uditori per indurli alla penitenza.
Anche gli altri missionari erano animati dallo Spirito di Dio e quindi la loro missione riuscì assai proficua e provvidenziale per tante anime prima addormentate nel male. Superfluo dirlo, Gerardo era assiduo a quelle prediche, cui partecipava con esemplare attenzione e grande profitto anche perché, nell'ascoltar quei predicatori, sentiva ingigantire in se stesso l'amore verso il divin Crocifisso.
Da notarsi che, tra i vari esercizi di penitenza prescritti da S. Alfonso per attirar le divine benedizioni sulle moltitudini evangelizzate, c'era anche la disciplina. Essa cominciava nel quarto giorno della missione, dopo la predica vespertina, ed era riservata agli uomini, che rimanevano soli in chiesa.
Perché i missionari avevano preannunciata la flagellazione fin dalla prima predica, la sera del quarto giorno due giovanotti di dubbio spirito cristiano si posero vicini a Gerardo per scaricargli addosso molti colpi con funi nodose. A questa sorpresa però il Santo non reagì, ma ringraziò, anzi, i " solerti suoi flagellatori", che così bene interpretavano il suo ardente desiderio di soffrire per amore del divino Paziente.
Nel partecipare a quella missione però il Majella non solo si prefiggeva d'infervorarsi maggiormente nella pietà, ma specialmente di conoscere lo spirito dei missionari per far parte quanto prima della loro Comunità. Affascinato dall'ideale di vivere intensamente per Iddio e per la salvezza delle anime, il Santo si presentò al P. Cafaro per essere ammesso, quale aspirante, tra i Redentoristi. Ma il venerabile, nel vederlo così sparuto, lo giudicò incapace di reggere alle fatiche di fratello laico.
-No! -disse quindi. -La nostra vita non è adatta a te.
-Ma provatemi almeno! -supplicò Gerardo con il pianto in gola, ma con occhi radiosi di speranza.
-Inutile provarti': ne rimarremo tutti delusi.
Ma il Majella non si scoraggì: aveva troppa fiducia in Dio per desistere dalla sua nobile aspirazione suggerita da Lui stesso. Egli però non doveva soltanto vincere la diffidenza del P. Cafaro, ma lottare anche contro la ritrosia della mamma, che, appena informata del suo divisamento, vi si oppose risolutamente.
-Anche se rimarrai nel mondo, -gli disse la buona donna -potrai far tanto bene e salvarti eternamente. Intanto mi conforteresti durante gli ultimi anni della mia triste vita. Perché dunque vorresti abbandonarmi per andar là dove non potresti resistere per l'asprezza della vita religiosa non adatta al tuo fisico?
Ma Gerardo, che sentiva impellente la vocazione religiosa, non si lasciava traviare da questi lamenti; nel constatar quindi che egli era sordo alle parole della mamma, costei ricorse al P. Cafaro per raccomandargli di non accettare il figlio tra i postulanti.
Il Venerabile ne la rassicurò dicendole:
-State tranquilla, buona donna! Vostro figlio rimarrà con voi per confortar la vostra vecchiaia. Perciò fareste bene a rinchiuderlo in camera quando noi, domani, ce ne andremo da Muro.
Detto, fatto.
Ma quando Gerardo si trovò chiuso come un prigioniero, scrisse alla mamma una lettera giustificativa che lasciò sul comodino; poi, annodate le lenzuola, evase con esse dalla cameretta per raggiungere i Redentoristi già partiti verso Rionero, come seppe da un informatore incontrato per via.
Poco dopo, ansante e trafelato, riuscì a scorgere di lontano la comitiva che viaggiava con un calesse. Allora, rinfrancato, proseguì di corsa e, arrivato a poca distanza dai missionari, gridò :
-Padri, aspettatemi!
A quel grido angoscioso, il P. Cafaro fece arrestare il cavallo e poi disse al Majella: -Ma non ti ho già detto che non sei fatto per noi?! Ritorna quindi a casa!
-Provatemi almeno! -singhiozzò Gerardo. -Poi mi licenzierete se non resistessi.
I missionari però non si piegarono a quelle suppliche, ma Gerardo non desistette. Li seguì invece fino a Rionero, dove rimase a servirli. Contento degli avanzi di tavola, continuava a insistere per essere accettato in
prova, ma il Venerabile era come un muro di bronzo. Allora Gerardo si gettò ai suoi piedi e, con gli occhi vela ti di lacrime, gli disse:
-Se non mi accettate, mi vedrete ogni giorno con i poveri accattar pane alla porta del vostro collegio. Se temete che non possa reggere alle fatiche di fratello laico, provatemi e poi, semmai, mi licenzierete.
Allora, vinto finalmente dalla sua tenace insistenza, indice di vera e provata vocazione, il Venerabile accondiscese e lo mandò al Rettore della Casa di Deliceto con una lettera, su cui scrisse così :
" Vi mando un altro " fratello inutile'", riguardo alla fatica perché molto gracile di complessione, ma non ho potuto farne a meno, data la sua insistenza e il credito ch'egli gode di giovane virtuoso nella città di Muro'".
Ricevuta quella lettera-salvacondotto, Gerardo partì come una freccia verso Deliceto, a piedi, ma con cuore esultante alla prospettiva di muovere i primi passi verso la vita religiosa che lo attirava irresistibilmente.