San Gerardo Maiella
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Il cuore di un Santo

Capitolo XXIV

Intanto nuovi avvenimenti erano maturati nel monastero di Ripacandida, dove, verso la fine di aprile, madre Maria di Gesù, la veggente che aveva suscitato intorno a sé tanta disparità di giudizi, in seguito alle elezioni domestiche, dovette cedere l'ufficio di priora a madre Michela di San Francesco, già sua discepola nelle vie della perfezione. Lo cedette volentieri, ritirandosi nell'ombra a ringraziare il Signore; ma poi il suo piccolo cuore di carne sentì lo sconforto dei primi giorni, quando si trovò improvvisamente relegata nel silenzio, lei, nipote del fondatore e quasi confondatrice e maestra del monastero. Debolezze ? Sia pure; ma la santità non le toglie, anzi le presuppone come motivo perenne di elevazione purificatrice.

In uno di quei momenti di segreti tumulti in cui mente e cuore sono in lotta tra loro, la buona suora pensò di riversare la sua anima nell'anima dell'amico lontano che l'avrebbe saputa comprendere e consolare.

Gli scrisse come il cuore le dettava, senza frenar la foga delle parole e delle lacrime, felice di alleggerirsi di un peso e fiduciosa nell'indulgenza del santo. Gli parlava di amarezze, di dolori, di solitudine, e lo pregava di venir quanto prima a Ripacandida a confortarla con la sua presenza, seppure, aggiungeva con una punta di bonaria ironia, si ricordasse ancora di lei, giacché « ora che non sono priora, tutti si scorderanno di me».

Gerardo le rispose da Foggia ai primi di quel mese di maggio che fu tra i più movimentati della sua vita, ed è una risposta tenera, umana e insieme soprannaturale. I due motivi s'intrecciano e si fondono con naturalezza di passaggi e armonia di toni: « Mi dite che io venga costì: sì, mia cara Madre, quando Dio vorrà, io verrò, con tutto il cuore, a consolarvi. Perciò state allegramente, non vi affliggete, perché affliggete me pure... Mi dite che adesso che non siete Priora, tutti si scorderanno di V. Riverenza. Dio mio! E come lo potete dire ? E se mai se ne scorderanno le creature, non si scorderà di V. Riverenza il vostro divino Sposo Gesù Cristo. Se è per me, io mai mi sono scordato, né mi scordo di V. Riverenza. Vorrei che V. Riverenza non si scordasse di me, mai: poiché ben sapete che vuol dire Fede, Fede. Via su, animo grande in amare Dio e fatevi santa grande, perché adesso avete più tempo di prima » (o.c., pag. 28).

Ecco una di quelle lettere che diremmo scritta col cuore, tanto i sentimenti zampillano vivi e spontanei, freschi e immediati, come acqua di polla. Il santo accoglie i dolori della suora così come sono, senza giudicarli, condannarli, o rettificarli ; anzi li fa suoi. Siamo su un piano di umanità comune ; eppure avvertiamo che il divino la permea da ogni parte e la solleva gradatamente fino alla sfera del soprannaturale. Da questa altezza prorompe l'esortazione finale con quel grido tanto arioso di liberazione dalle pastoie della terra e con quello slancio poderoso verso le vette della santità. Così il divino non sopravviene dall'esterno : sboccia dal fondo stesso della natura dove si trova nascosto, come il lievito del Vangelo, per trasumanarla tutta intera alla luce della fede.

Ma non sarebbe completa l'umanità del santo, se, come sa piangere con chi piange, non sapesse ancora godere con chi gode. Da questo nuovo sentimento sboccia l'augurio sincero, alato, per la nuova superiora. Il trillo della gioia si avverte fin dalla giaculatoria iniziale: « La divina grazia riempia il cuore di V. Riverenza e Mamma Maria SS.ve la conservi. Amen.

Mia cara Sorella in Gesù Cristo,... mi consolo della vostra santa elezione... Prego il Signore che vi faccia davvero esercitare codesto vostro ufficio acciò possiate vigilare con somma attenzione su tante Spose di Gesù Cristo e di Maria Santissima, affinché con tale grazia e spirito possiate giungere a quella perfezione che si merita sua divina Maestà e tutte voi restiate tante serafine di amore di Dio » (o.c., pag. 29).

In poche parole è inquadrata la visione soprannaturale dell'ufficio di priora, voluto da Dio, mediante una santa elezione, al solo scopo di vigilare sulle spose di Gesù Cristo, onde trasformarle in serafine di amore. Il concetto, qui appena abbozzato, troverà pieno svolgimento in un'altra lettera alla stessa priora che gli aveva chiesto un regolamento spirituale per bene esercitare il suo ufficio. Questo regolamento, conservatoci in gran parte dal Tannoia, che però ha ritoccato con mano troppo forte lo stile originario, poggia interamente sul principio basilare della spiritualità gerardina : il volere di Dio. La priora è la vicaria di Dio; Egli l'ha prescelta « ab aeterno » per questo ufficio ed ella deve esercitarlo, uniformandosi per quanto le è possibile allo stesso volere di Dio, con rettitudine nell'intenzione; prudenza nell'azione; umiltà nello spirito; amore nel cuore.

« Primieramente la Madre Priora, che sta in luogo di Dio, ha da soddisfare il suo ufficio con somma rettitudine se vuol compiacere il suo supremo Signore che la tiene in suo luogo.

Sia piena d'infinita prudenza; ed in tutte le sue cose si deve regolare con lo spirito di Gesù Cristo.

Chi è superiora deve mirare continuamente la sua bassezza, considerando che non può fare altro che male; che in quest'ufficio in cui sta, ve l'ha posta Dio per sua bontà, poiché vi sono tante altre che potrebbero farlo e dargli maggior gusto ; perciò deve avvilirsi, considerando le sue imperfezioni e compatire i difetti delle altre. Deve disimpegnare il suo ufficio tutta piena d'amore di Dio e non aborrirlo come cosa che non le fosse data da Dio e pensare che Dio glielo ha preparato ab aeterno».

Amore e volontà di Dio sono una cosa. Perciò nell'amore la priora assommerà tutta la grandezza della sua missione. Ella deve amare per riflettere amore sulle sue figlie: « Vi vorrei vedere » le dice in un'altra lettera « vi vorrei vedere una Serafina piena d'amore di Dio, acciò la vostra vista infocasse codeste vostre figlie. Si stia al puro amore di Dio» (o.c., pag. 32).

In questa maniera, ella comanderà prima di tutto con l'esempio, diventando, come dice S. Pietro, modello del gregge: la priora « deve essere un puro vaso ripieno di sante virtù, da cui escono tutte le virtù per comunicarle alle sue figlie, acciò crescano tutte con le medesime virtù della Madre... Deve soddisfare (il suo ufficio) con somma angelica perfezione e conformarsi in tutto al divino volere; e stare in questo impegno indifferentissima, senza attaccarvisi».

Insomma, tutte le virtù della priora si riducono alla conformità al volere di Dio e la conformità si concreta nella rettitudine d'intenzione.

Ma come si dimostra praticamente la rettitudine d'intenzione ? Col cercare solo e sempre la gloria di Dio e non le proprie soddisfazioni. La gloria di Dio esige in primo luogo, fermezza nell'agire. Nei dubbi, la superiora chieda consiglio alle persone illuminate e appuri i vari elementi di giudizio, ma una volta presa una decisione, « deve mettersi avanti gli occhi la gloria di Dio... senza badare ad altro; e per Dio si deve mettere il sangue e la vita, perché è causa di Dio. Per amore del medesimo Dio deve disprezzare specialmente la propria stima; come non l'avesse. Solo deve mettersi in testa che è Superiora e dire : Dio mi vuole in questo stato, e perciò debbo fare in tutto la volontà sua».

La gloria di Dio esige, in secondo luogo, l'imparzialità: « Debbo vigilare sopra di tutte; debbo servire a tutte; debbo consigliare ed ammaestrare tutte; debbo dare sempre a tutte le cose migliori, e servirmi del peggio, acciò dia gusto a Dio; e finalmente debbo in tutto patire per godere la santa imitazione del mio caro divino Sposo Gesù Cristo».

La gloria di Dio esige, soprattutto, amore materno: « Il pensiero della Superiora ha da essere una continua ruota che si raggira a pensare sopra i bisogni delle sue figlie. Tutte le ha da amare puramente in Dio, senza veruna distinzione. Ha da pensare che le sue figlie non possono cercare ciò che loro bisogna, se non ce lo dà la santa ubbidienza, perciò non deve pensare niente sopra di sé, ma tutto il pensiero ha da essere sopra le sue care figlie. Quando viene dato il cibo, abito o altra cosa, non se li deve pigliare se prima non ha contentate le altre».

Ma l'amore materno si dimostra nel dare a tutte confidenza, specialmente alle più restie: «Deve dare confidenza a tutte, maggiormente quando vede che alcuna non ha con essa tutta la confidenza. Allora deve usare tutta la forza e tutta la prudenza per guadagnarsi il cuore, dimostrandole buona cera, ancorché non se la sentisse internamente; e deve farsi tutta la forza per vincere se stessa per amore di Dio. Se non fa così col dimostrarle familiarità di madre, accresce di certo il disturbo di sua figlia, e quella, vedendosi avvilita, si può dare alla disperazione, o almeno non avanza nell'amore di Dio, perché continuamente le sta nel cuore quella radice, e a questo vanno soggette le donne. Fortezza e dolcezza in essa si esige».

Anche la correzione deve partire dall'amore per non esasperar la colpevole ma umiliarla ed elevarla in Dio: « Stando la Superiora in luogo di Dio, deve farsi ubbidire e deve castigare le disubbidienti che non vogliono sentire la voce di Dio, ma castigarle con prudenza. La correzione si comincia con la dolcezza. Con questa vi resta una certa tranquillità che fa conoscere il proprio errore. Per esempio, la correzione si fa in questa maniera : tu sei un'indegna e la tua indegnità non si può da me sopportare e da tante anime buone che ti conoscono per tale. Dio mio, come voglio fare con quest'anima imperfetta ? Figlia mia, non vedi che col tuo male esempio sei causa di scandalizzare tante anime sante ?... Ti dico questo, te lo debbo dire, perché ti sono madre. Dio sa quanto ti amo e ti voglio bene e quanto desidero la tua santità ! Figlia mia, risolviti di farti santa e prometti a Dio che ti vuoi levare codeste tue imperfezioni. Fa così e vedi in che ti posso aiutare e vieni a me con confidenza di figlia ».

La dolcezza, unita alla prudenza, ottiene sicuramente il successo : « Io sono di sentimento che quando la correzione si fa in questa maniera, la figlia ricorre alla madre e la madre, dimostrandole confidenza, può disingannarla e farla camminare per la vera strada della perfezione. Si fa più bene con la dolcezza, che con l'asprezza. L'asprezza porta con sé turbamenti, tentazioni, oscurità e pigrizia. La dolcezza porta pace e tranquillità ed anima la figlia ad amare Dio ».

Le conseguenze di un tal governo non tarderanno a manifestarsi : la superiora coopererà con Dio alla santificazione delle sue figlie : « Se tutte le Superiore facessero in questa maniera, tutte le suddite sarebbero sante. Perché si manca di prudenza, perciò vi sono tanti disturbi in alcune case religiose. Dove c'è il disturbo, vi sta il demonio e dove sta il demonio non c'è Dio... » (o.c., da pag. 74 a 77).

« Manca il dippiù della lettera, dice il Tannoia (o. c. pag. 102), perché disperso», ma la parte che ci rimane è già sufficiente a darci una misura adeguata dell'intuito psicologico e dell'esperienza personale del santo, acquisita con l'osservazione esterna e, specialmente, con la riflessione sulle reazioni interiori, prodotte nella propria anima dai rimproveri ingiustificati e violenti, o dalla mancanza di carità e di tatto da parte di chi doveva rappresentare l'autorità del Signore. Tali reazioni, è vero, si placavano prima di risalire in superficie, in virtù di una volontà eroica che sapeva frenare i sussulti del cuore, ma tali sussulti non sparivano mai senza sedimentare in lui tesori di esperienze sofferte. Da tali esperienze è nato il regolamento spirituale che vuol fornire alcune norme pratiche di governo a una nuova priora. Sono norme vive, fluide, asistematiche ; spunti, più che norme, dipendenti dal principio rigoroso e immutabile che la superiora deve amare il suo ufficio come dato da Dio e agire in conformità di tale amore: cioè con rettitudine d'intenzione.

Ma se rigoroso e immutabile è il principio, molteplici e varie ne sono poi le applicazioni, come molteplici»e vari sono i casi della vita e le risorse di natura e di grazia fornite da Dio. Niente è più alieno dal santo dell'inflessibilità, dell'uniformita, del meccanicismo. Imparzialità non è livellamento, ma carità estensiva verso tutti, uguale nel grado, ma differente nel modo. Qui entrano in giuoco un'infinità di sfumature, corrispondenti al carattere, all'intelligenza, alle incombenze, alla sensibilità di ognuno. E di ciò la priora dovrà ricordarsi nel trattare con le suddite. Ella deve tener conto di ognuna, specialmente della situazione di ognuna, per evitare crisi spiacevoli o almeno prove dolorose. Niente di più facile che calcare la mano sulla superiora di ieri, specialmente se è stata autoritaria o peggio. Ma niente di più ingiusto. E il santo, così assetato di umiliazioni, si adopera a risparmiarle agli altri. Da tale preoccupazione è dettata la raccomandazione in favore di suor Maria di Gesù: « Vi stia nel cuore Suor Maria di Gesù, poiché ben sapete che lei vi è stata madre da principio e vi ha allattata col latte dell'amore di Dio. » (o. c., pag. 30).

La raccomandazione non poteva essere più efficace nei motivi, più tenera nelle parole, più soave nell'immagine che sembra tolta di peso da una lettera di S. Caterina da Siena. Il magistero della formazione spirituale è visto con gli occhi della maternità naturale, colta nella funzione più sacra e umana: l'allattamento. Le due maternità, naturale e spirituale, hanno questo in comune, che creano un vincolo indissolubile di affetto che non può essere alterato o spezzato da nessun mutamento di sorte. E le immagini e i concetti s'inquadrano spontaneamente nella visione gerardina della suora come perfetta incarnazione in terra della divina Madre.

Eppure tanta ricchezza interiore veniva celata ordinariamente sotto i veli di una umanità più spicciola, più quotidiana, quasi scanzonata, che sapeva punzecchiare e sorridere con grazia ingenua e biricchina : e Carissima Sorella », scriveva in data 11 luglio alla stessa Priora, e io vi scrivo da Foggia e vi scrivo in fretta. Dio mio! Vorrei proprio sapere che si fa costi. Io non ne so niente, perché a tutte le mie lettere non ho avuto nessuna risposta. Credo che non avete carta da scrivere. Per carità, se è così, mandatemelo a dire che ve ne mando un quaderno, acciò mi possiate scrivere appresso» (o. c., pag. 30-31).

Qualche volta sapeva perfino sgranare gli occhi e far la voce grossa come chi finge minacce per spaventare un bambino riottoso. Così nella lettera del 21 luglio ordina alla priora di mettere carcerata madre Maria di Gesù perché impari a pregare per lui (o. c., pag. 32) ; e in un'altra, non datata, ma scritta certamente nello stesso tempo e diretta alla stessa priora, minaccia di segar la lingua a una postulante che si preparava ad entrare in convento, se si fosse lasciata scappare una sola parola coi parenti (o. c., pag. 73).

Quando leggiamo siffatte espressioni, ci torna in mente il ritratto dei primi cristiani tracciato dal Pastore : « Costantemente semplici, felici, senza acredine gli uni contro gli altri, pieni di compassione per tutti e ricolmi di candore infantile».

E questa sensibilità, questo candore, questa felicità, si manifestavano a misura che procedeva negli anni e aumentavano le infermità fisiche e le angustie spirituali. I viaggi al Gargano, a Castel-grande, a Foggia, nonostante le ripetute emottisi, consumavano di giorno in giorno la sua fibra già tanto gracile e malferma. Doveva sentirsi molto stanco e abbattuto, se lui, così vigile nel nascondere le proprie sofferenze, poteva lasciarsi sfuggire l'11 luglio con la priora di Ripacandida, questo inciso rivelatore : « Io sto male » (o. c., pag. 31).

Coi dolori fisici aumentavano i travagli interni. Erano dolori d'una natura nuova, misteriosa, che il santo stesso vorrebbe esprimere e non trova parole adeguate per farlo: « Dio sa come sto afflitto e sconsolato assai», scriveva in data 7 maggio alla madre Maria di Gesù, « ... Dio sa che cosa vorrei dirvi» (o. c., pag. 28). E concludeva con un'esortazione rivelatrice del lavorio che si operava nella sua anima sempre più anelante all'unione trasformante in Dio «Restiamo uniti in uno, trasformati nell'essere di Dio. Amen » (o. c., pag. 28).

L'aspirazione è molto alta, raggiunge il vertice della mistica, quella che è la preparazione immediata alla visione beatifica di Dio.

In attesa di venir sollevato a queste vette supreme, si operava in lui una conoscenza sempre più profonda e sperimentale dell'infinita grandezza, bontà e beltà del Creatore, in constrasto con l'infinita piccolezza della creatura. La luce abbagliante della grazia che non lascia nulla nell'ombra, gli dava la sensazione minuta delle colpe commesse facendogli toccar con mano la putredine dei propri peccati che lo rendevano indegno d'ogni soccorso. Di conseguenza, si rendevano sempre più angosciose e imploranti le sue suppliche a tutte le anime buone, specialmente alla madre Maria di Gesù e alle suore di Ripacandida, che dovevano scongiurare l'Onnipotente per la salvezza della sua anima. Nella lettera dell'11 giugno giunse a pretendere che anche la nuova priora obbligasse in coscienza tutte le sue figlie a pregar sempre per lui (o. c., pag. 29).

Ma lo spettacolo della propria miseria, lungi dal deprimerlo gli porgeva le ali per sollevarsi fino al cielo ad inebriarsi della grandezza di Dio. Come San Giovanni della Croce, egli ne sentiva l'immensità sconfinata; come lui esultava nel cantico della gioia. Bastava pronunziare una sola parola che ricordasse qualcuno di questi attributi, per vederlo raggiare di una felicità incontenibile che dilatava tutto il suo essere nell'impeto folle dell'estasi. Le due estasi più fa-inose di questo periodo hanno per motivo ispiratore questo tema; tutte e due si manifestano con la stessa furia travolgente dell'anima che rapisce il corpo nei suoi movimenti e lo associa al suo estro interiore.

La prima estasi avvenne a Foggia nel pomeriggio del 16 giugno, vigilia della SS. Trinità. Il santo passava nel corridoio del monastero del SS. Salvatore, quando sentì dal coro il canto dell'antifona: «O altitudo divitiarum!», che grida la propria stupefatta ammirazione alla sapienza ineffabile della Santissima Trinità. Si fermò come sospeso ad ascoltare ; poi ripeté a voce alta : « O altitudo divitiarum ! », come assaporando l'eco di quel canto che gli riempiva il cuore. Rimase così, con gli occhi sbarrati verso l'alto, ripetendo tra un sospiro e l'altro: « O altitudo divitiarum ! », alternando il silenzio a grida di giubilo. Ad un tratto sembrò che una forza interna lo agitasse come una foglia, mentre i sospiri divenivano più roventi. Allora, come trasportato da un impeto irresistibile, si mise a correre all'impazzata per i corridoi, ripetendo a braccia stese: « O altitudo ! O altitudo ! ».

Percorse, veloce come il vento, un corridoio, un altro ; entrò, uscì da un dormitorio, riprese la via del corridoio, sempre a braccia aperte, sempre di corsa, finché non venne a imbattersi nel gruppo di suore che usciva dal coro. Allora si arrestò tutto di fuoco, con gli occhi al cielo e, sollevandosi da terra, esclamò : « O sorelle, amiamo Dio; o sorelle, amiamo Dio ! ».

Poi cadde in dolce deliquio, pallido, sbattuto, cercando di trattenere una visione che già dileguava nell'aria.

La seconda estasi avvenne a Melfi tra il luglio e l'agosto, in casa di mamma Vittoria. In quel periodo i padri che ne avevano bisogno, solevano far la cura delle acque del Monticchio. Lo ricaviamo da una lettera di Sant'Alfonso dei primi di giugno, diretta al chierico Angelo Picone di stanza a Ciorani : « Ho ordinato che vi mandino alla nostra Casa di Caposele, donde (se neppure quell'aria vi giova) passerete alla Casa d'Iliceto ; e voglio, senza meno (ditelo poi colà), che verso Luglio-Agosto vi facciano pigliar l'acqua di Monticchio » (o. c., I, 217).

Non sappiamo se a Melfi vi sia andato il Picone : sappiamo, però, che vi andarono due o tre congregati di Deliceto, tra cui il padre Liguori e il fratel Gerardo come serviente. Ma il servizio si ridusse a nulla, data la presenza di mamma Vittoria, e il santo potè dedicarsi completamente alla preghiera e alla mortificazione. Era abilissimo nel cospargere il proprio cibo con una polverina color cenere, ma una volta il gesto fu notato dall'occhio attento della donna che, incuriosita, volle assaggiarne un boccone. Non l'avesse mai fatto! Dovette rigettarlo in fretta. E così i Padri che ritentarono la prova.

Dalla mortificazione trovava alimento la sua carità, sempre più librata verso la sovrana maestà del Creatore. Un giorno, si sedette al clavicembalo e cominciò a cantare la nota arietta del Metastasio : « Se Dio veder tu vuoi... » Ma subito acceso da una foga sfrenata, scattò in piedi, continuando a modulare il canto secondo le suggestioni dello Spirito. Saliva trillando sugli acuti, si spegneva come un deliquio nello smorzato, per risalire, come colonna vibrante e sonora, verso Dio nella piena espansione del suo essere. E, accompagnando la voce con la testa, con le mani, coi piedi, col corpo, si moveva come in una danza velocissima e capricciosa, sfiorando appena appena il terreno. Ma a un certo momento gli sembrò che il pavimento gli sfuggisse di sotto, continuando a muoversi vorticosamente come un carosello. Allora, per sostenersi, si abbrancò al primo che gli capitò a tiro. Era il padre Liguori. Il povero padre, un pacifico ex-curato di campagna, entrato da poco nell'Istituto, si vide trasportato qua e là come una pagliuzza rapinata dal vento, poi sollevato alcuni palmi da terra.

Stavolta mamma Vittoria rimase sbalordita. Quel benedetto uomo di Gerardo ne aveva combinate di cose strabilianti, ma questa le superava tutte.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021