San Gerardo Maiella
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Il fiotto di sangue

Capitolo XXXVII

Una massa fremente di popolo lo aveva accompagnato lungo la campagna affogata dal sole; poi si era congedata. Rimasto solo col suo giumento, il santo prese a salire la collina deserta di San Gregorio sotto un cielo di bronzo ; la terra ardeva come un forno. Si era in una di quelle giornate tra l'ottava del ferragosto quando il caldo, sebbene accenni a scemare, porta in sé qualche cosa di guasto che lo rende più inerte e pesante. Ne sembrano fiaccati uomini e cose.

Entrò in silenzio tra le case annerite del paese, accasciato sul cavallo che arrancava di malavoglia, ciondolando la testa. Un monello scamiciato gli fece uno sberleffo; un uomo appoggiato agli stipiti di una porta continuò a sonnecchiare col cappello tirato sugli occhi. Anche l'arciprete don Robertazzi fu parco di parole : lo accompagnò nella stanza riservata agli ospiti, ritirandosi in fretta. Non aveva tempo da perdere coi frati cercatori : era già troppo il fastidio che gli davano.

Il silenzio di quelle rustiche mura, calato improvvisamente sulla sua persona, parve al santo una benedizione del cielo: diede un profondo respiro e, con un grido di liberazione, si gettò in ginocchio, a braccia spalancate, davanti al Crocifisso.

«Signore, Ti ringrazio; almeno qui non sono conosciuto da tutti ! ».

L'udì l'Arciprete dalla stanza attigua e sobbalzò dal suo seggiolone : « Chi è costui che ringrazia Iddio perché non è stato accolto con attestati di stima ? E perché altrove lo hanno applaudito ? Sarà certamente un gran servo di Dio. Voglio conoscerlo ». E, con un pretesto qualsiasi tornò da lui. « Desidererei », disse, « qualche cosa sulla passione del Signore, da usare nelle mie meditazioni ».

Egli gli presentò un libretto. L'altro intanto pensava : « Sarebbe stato più delicato da parte sua, se me lo avesse lasciato scegliere da me », ma nascose il pensiero sotto il più bel sorriso di ringraziamento. Proprio allora Gerardo ritirava prontamente la mano e, presentandogli l'intero mazzetto, diceva : « Signor Arciprete, ecco se lo scelga come crede ».

Don Robertazzi non ebbe il tempo di meravigliarsi perché fu distratto da un gentiluomo che entrava. Si scambiarono le presentazioni, poi uscirono tutti e tre nel salotto, intavolando una conversazione qualunque. Alle prime battute Gerardo interruppe bruscamente il discorso : « Signor Arciprete », disse, « se permette, vorrei chiederle un parere. Un uomo decide di commettere un adulterio e già vi si accinge, quando, o per difficoltà sopraggiunte, o per impulso superiore della grazia, cambia idea e si pente di quello che stava per fare. Ora se quest'uomo si confessa, è tenuto a specificare tutte queste diverse circostanze ? ».

« Certamente », rispose l'Arciprete, chiedendosi sorpreso dove egli andasse a parare. Lo seppe subito dopo, quando il gentiluomo che a quelle parole stentava a tenersi fermo sulla sedia, lo tirò in disparte per dirgli : « Signor Arciprete, voi avete un santo in casa vostra. Il caso proposto si riferisce proprio a me. Fui io che, prima di entrare qua dentro, volevo commettere un adulterio e poi, un po' per i rimorsi, un po' per l'ispirazione di Dio, sono riuscito a vincermi ».

Questi fatti diedero un avvio brillante alla questua che proseguì a ritmo serrato fino al 21 agosto, quando avvenne l'irreparabile che diede il segnale della fine.

Quella mattina egli aveva stentato ad alzarsi, vincendo la tosse e l'affanno. Poi si era trascinato in chiesa per le sue devozioni, inginocchiandosi per terra in un cantuccio solitario, ma all'improvviso fu sorpreso da un accesso di tosse insistente e accanita. Il petto parve spezzarsi e fu costretto a cercare un appoggio, ma qualche cosa di caldo gli corse alla gola. Era un fiotto abbondante di sangue, « un butto » come di fontana, secondo l'immagine espressiva del santo. Senza scomporsi, terminate le preghiere, si recò con tutta segretezza da un medico, il quale, dopo un attento esame, diede il suo referto. Il paziente era sano di petto. Il fatto del sangue trovava la sua causa adeguata nello sciogliersi dei coaguli interni prodotti dalla malaria. Era stata una valvola di sicurezza che aveva alleggerito la soverchia pressione. Al medico non restava che coadiuvare l'azione benefica della natura per rendere più normale la circolazione sanguigna. Forte di questo ragionamento, nonostante il pallore mortale dell'infermo, lo salassò alle tempie. Naturalmente il miglioramento non venne. Perciò il santo, deciso ormai ad accelerare il ritorno a Caposele, ripartì per Buccino.

Vi giunse la sera del 22 agosto. Era di venerdì e la salita in paese fu un vero calvario. Pure, sorretto da persone caritatevoli, riu-scì a raggiungere la canonica, ma mentre si adagiava sul letto, sorpreso dalla solita tosse, ebbe un nuovo sbocco di sangue, violento come il primo. Furono chiamati di urgenza due medici che confermarono la diagnosi del loro collega di San Gregorio e gli cavarono altro sangue. Questa volta dalle estremità. A loro discolpa possiamo dire che in quei giorni e in quelle zone non si parlava che di malaria e dei famosi salassi di precauzione. è sempre facile seguire la corrente.

Ma il rimedio fu peggiore del male: quel corpo esangue si abbatté sul letto come privo di vita. Che faro ? I due sanitari si strinsero nelle spalle. Alla fine, se la presero con l'aria troppo sottile del luogo, e consigliarono il trasporto dell'infermo nel clima più dolce di Oliveto Citra. Lì avrebbe potuto profittare della valentia di quell'altro luminare di scienza che era il dottor don Giuseppe Salva-dore, fratello dell'Arciprete.

Per sua fortuna, quando all'indomani vi giunse, il Dottore era assente. Così poté evitare - ma solo per quel giorno - altri salassi di precauzione e godersi il beneficio di quell'aria veramente salubre che gli apportò un giovamento immediato. Cessò la tosse e nuove forze sembrarono rifluire nel suo organismo. Approfittò del leggiero benessere per informare dell'accaduto il padre Caione : « Sappia V. R. che mentre stavo inginocchioni nella Chiesa di San Gregorio, mi venne un butto di sangue... ». E continuò raccontando la cronaca precisa dei fatti: senza un lamento, un rammarico, un turbamento. E concluse: « L'avviso a V. R. per sapere come debbo fare: se volete che me ne venga subito, me ne vengo ; se volete che continui la cerca, la seguiterò senza incomodo; perché circa il petto presentemente mi sento meglio di quando stavo in casa. Tosse non ne ho più. Via su, mandatemi un'ubbidienza forte e sia come si sia. Mi dispiace che V. R. si metterà in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente; raccomandatemi a Dio, che mi faccia fare sempre in tutto la sua Divina volontà» (o.c., pag. 47).

Solo ora, dopo la lettura di queste ultime righe, comprendiamo tutto il suo eroismo. Malato, sfinito, viene gettato allo sbaraglio in zone impervie, nei mesi più tristi dell'anno. Soccombe per via; prevede prossima la fine, ma se ha un tremito di commozione, non è per sé, per i suoi ventinove anni stroncati dal male : ma per il superiore che è stata la causa, involontaria sì, ma sempre la causa della sua rovina. Povero superiore ! Ora dovrà mettersi in apprensione per lui ! Solo questo ci mancava ! E lo incoraggia, egli malato e moribondo, a stare allegro, a fare la volontà dell'Altissimo.

La lettera produsse una profonda impressione in tutti, specialmente nel padre Caione che si sentiva in qualche modo responsabile dell'accaduto. Era di sabato e il popolo affollava la chiesa per la funzione mariana. Il Padre salì sul pergamo e con voce commossa scandì la triste notizia; poi mentre un fremito di costernazione giungeva fino a lui esortò i presenti a supplicare la Vergine per la salute del loro benefattore. Intanto aveva già mandato le sue disposizioni ad Oliveto : pregava i signori Salvadore di trattenere l'infermo fino a quando fosse in grado di tornare a Caposele e raccomandava all'infermo di fermarsi sul posto fino a quando lo permettesse la famiglia ospitale.

La lettera tranquillizzò il santo che desiderava solo di ubbidire. Si rimise perciò nelle mani dell'Arciprete, come suo superiore, felice di dipendergli in tutto. La stessa dipendenza mostrava al fratello dottore, che, appena tornato, era corso ad apprestargli le prime cure con l'affetto di amico. Con loro gareggiavano i familiari.

Si era appena riavuto dalla crisi, che alcuni valligiani portarono a braccia fratel Francesco Fiore, uscito per la questua dalla stessa comunità di Caposele. Era stato sorpreso da una di quelle violentissime febbri maligne, capaci di stroncare in pochi giorni l'esistenza di un uomo.

Don Giuseppe, dopo aver cercato di far condurre il Fratello al piano superiore, lo fece sistemare vicino all'ingresso e si recò ad informare Gerardo: Questi lo ascoltò in silenzio ; poi, fissando gli occhi al cielo, rispose : « Fate il favore di dire a fratel Francesco che, per ubbidienza, si faccia passar la febbre, si alzi e venga subito qui, perché noi abbiamo da fare ed io non posso andare ad assistere i malati ».

Don Giuseppe credette che volesse scherzare, ma egli replicò « Fate come vi ho detto: si lasci passare la febbre; si alzi e venga subito da me».

L'ordine era categorico e il Dottore si mosse. Quando si trovò davanti al Fratello con gli occhi lustri e in delirio, ebbe un momento di esitazione, ma si vinse e comunicò l'imbasciata. A quelle parole, l'infermo riacquistò l'aspetto normale; i suoi occhi persero la loro lucentezza metallica; puntò i gomiti sui guanciali e saltò giù. Poi, accompagnato dal Dottore, salì con facilità le scale. Lo attendeva Gerardo con lo sguardo ardente e le guance cadaveriche. Appena lo vide, con voce stanca ma martellata e decisa, disse: « Come ? Noi siamo usciti per la questua e tu ti fai venir la febbre ? Orsù, bando alle chiacchiere: ubbidisci e non farti venir più la febbre».

Fratel Francesco, drizzandosi sulla sedia, rispose: « Ubbidisco! ». « Ed ora », soggiunse rivolto al Dottore, « tastategli il polso ». Era regolare come un orologio. Appena una leggiera alterazione lasciava supporre che l'infermo era uscito proprio allora da un accesso violento di febbre. Gerardo si guardò intorno e, scorgendo un incrociarsi di sguardi stupiti, disse: « Signori miei, e che? Vi meravigliate di ciò che è avvenuto ? E no! Tanto può l'ubbidienza! ».

Il Dottore era un fervente cattolico e credeva al soprannaturale, ma, trattandosi di un fatto tanto straordinario, non volle trascurare le norme elementari della prudenza. Egli sapeva che le febbri maligne hanno un decorso molto irregolare e che, quando si credono scomparse, si riaccendono con maggior virulenza. Perciò tenne in osservazione il Fratello per tre giorni, ma dovette constatare che la convalescenza procedeva rapida e normale. Al terzo giorno, la guarigione era completa.

Fu questo il primo di una lunga serie di prodigi. Perché l'Arciprete, vista la facilità con cui li operava, lo supplicò per la sorella, Rosa, vittima anche lei della febbre di malaria. Si portarono insieme dall'inferma. La malattia l'aveva invecchiata; i capelli quasi grigi le ricadevano sulle guance avvizzite. Gerardo si appoggiò stancamente alla ringhiera del letto, poi disse sorridendo: « Non è niente, non è niente! ». E la febbre scomparve.

Un altro prodigio lo seguì di qualche giorno. Il santo nelle ore migliori del mattino e del pomeriggio, soleva lasciare il letto o il divano, lieto di muoversi un pochino e di trattenersi con le persone di famiglia. La malattia gli aveva accentuata quell'aria di fanciullo sognatore che, col sorriso gioviale, costituiva il fascino principale del suo volto fortemente angolato. La gioia di una coscienza serena, la limpidezza di un occhio esercitato alle altezze, ravvivava quell'aria stanca che cercava invano di nascondere. Parlava e scherzava coi bambini, tanto numerosi nella casa dove confluivano i tre fratelli coniugati dell'Arciprete.

Fu appunto in uno di questi giorni: era in salotto coi fratelli dell'Arciprete, don Nicola e don Filippo, quando irruppe dall'uscio aperto il piccolo Giovanni con la lieta spensieratezza dei suoi dodici anni. Correva schiamazzando come un trionfatore, stringendo in pugno un uccellino preso all'arco: una ficedola. Fece un giro per la sala, poi la pose sotto gli occhi del santo, dicendogli: « Guarda, guarda ! ».

Egli la prese, le fece molte carezze, poi, rivolto al cielo che s'incendiava al tramonto, sporse la mano aperta fuori del balcone. La bestiola si scosse un po' timida, poi prese il volo trillando per l'aria, mentre Giovannino scoppiava in un pianto dirotto, pestando i piedi sul pavimento. Gerardo cercò di rabbonirlo : invano. Allora tornò verso il balcone e, tendendo le mani, chiamò: « Belluccia mia, belluccia mia, vieni, perché il ragazzo piange e non è contento della tua libertà! ».

Non aveva finito di parlare, che si vide il piccolo pennuto tracciare un arco nel cielo e posarsi sulla sua mano, tra lo stupore dei presenti.

Più di tutti amava trattenersi col santo e profittare dei suoi esempi la diciannovenne Isabella Salvadore, figliuola di don Nicola. Era una di quelle anime belle che uniscono all'innocenza della vita il desiderio di evasione dal mondo, troppo brutto per le loro aspirazioni. Ma l'innocenza è frutto più di una felice disposizione di natura che di fermezza di carattere e le aspirazioni mancano di concretezza e sfumano nel sogno. Così vivono sempre ondeggianti, sempre in attesa di qualche cosa che debba strapparle dall'inerzia, risparmiando loro la fatica di una scelta decisiva: magari per anni, magari per tutta la vita. Isabella rifiuterà qualunque partito di mondo, sempre pensando di raggiungere il chiostro e sempre paga di mirarlo e sospirarlo da lontano. Ma ci fu un giorno in cui credette di toccarlo con mano e di trovare in sé la forza di correre generosa-mente incontro a Gesù: fu quando Gerardo con voce ardente, ma velata dal male, le parlò di quei sacri recinti dove aveva guidato altre anime giovanili, pure come la sua, e come la sua assetate d'ideali che non si trovano quaggiù. Allora Isabella si vide davanti schiere e schiere di vergini coi soggoli candidi e la lampada accesa sciogliere perpetuamente un cantico alla bellezza dello Sposo, ma quando era sul punto di congiungersi a loro, il santo, già lontano, non fu in grado di porgerle l'ultimo aiuto.

D'altra natura erano i colloqui con l'Arciprete, già tanto avanti nelle vie della perfezione. Con lui amava riprendere il tema dominante delle sue contemplazioni: l'immensità di Dio.

Una sera - si era al tempo del primo incontro e il chiarore lunare scendeva come una benedizione sull'afa opprimente di agosto - una sera, dopo cena, Gerardo s'inoltrò senza accorgersi nel suo caro argomento. Sotto il cerchio breve, oscillante della lampada, la sua persona stanca dai viaggi del giorno prendeva gradatamente vigore, si colorava in volto, dilatava le pupille, si protendeva verso 1'alto,quasi ad afferrare una musica divina. Doveva sentire, infatti, trascorrere il soffio onnipotente di Dio coi bagliori del cielo stellato, coi silenzi animati della valle, col respiro degli ulivi che tremavano nel vano delle finestre ; doveva vederlo avvolgere con la sua presenza i milioni di mondi sospesi sugli abissi e penetrare in ogni fibra di essi, se, dopo aver lanciato sguardi estatici in giro, indicando quella piccola sala illuminata, occhio acceso nella notte, e le pareti inerti e le pietre dei davanzali e degli stipiti, esclamò : « Anche sotto queste pietre, anche sotto di quelle, c'è Dio. Oh se cadesse dai nostri occhi questo velo di ombre, noi saremmo, d'un battito, alla presenza di Dio ; noi lo vedremmo attorno a noi e in noi. Noi ci vedremmo in Lui come pesciolini in un oceano sconfinato di acque! Allora non ci sarebbe più dolore, né affanno, né miseria. In ogni luogo, in ogni momento, sarebbe il paradiso!».

Un'altra sera i due amici si attardavano sul balconcino aperto nella loro meditazione. Erano scese le tenebre e nessuno pensava ad accendere una lampada. Si udivano solo le loro voci che parlavano della grandezza di Dio e i loro sospiri di amore. Poi tacquero, mentre le loro anime continuavano un colloquio senza parole. A un certo punto l'Arciprete si riscosse e pensò alla laboriosa giornata dell'amico e all'altra che lo attendeva quando l'alba si sarebbe levata sulla valle addormentata: « Gerardo mio caro», disse, « è tardi. è molto tardi. Sì, è bello parlare di Dio e dei suoi attributi, ma Egli vuole pure che diamo al nostro corpo il riposo necessario ».

S'udì un sospiro prolungato. « Che hai ? » gli chiese.

« Oh Dio ! », rispose, « come siamo miserabili, mentre durante il sonno non possiamo pensare al nostro caro Dio ! ».

Queste meditazioni, interrotte con la partenza del santo per la media valle del Sele, furono riprese al ritorno, durante la malattia. Quando egli vedeva don Arcangelo entrare nella sua stanza e sedersi accanto al suo letto, sollevava gli occhi al cielo e ne traeva ispirazioni per i suoi argomenti prediletti. Parlava adagio, con lunghe pause, sviluppando e assaporando mentalmente gli spunti proposti con la parola.

Anche i fratelli dell'Arciprete divennero ben presto discepoli spirituali di Gerardo che ripagava l'ospitalità ricevuta indirizzando le loro anime verso la perfezione. Non c'era dubbio, difficoltà, ansia di spirito, che non sottoponessero a lui, pronti ad assecondarlo in tutto. Perché erano sicuri che egli conoscesse la loro anima per illustrazione superiore della grazia.

Un giorno don Filippo, che era venuto per sottoporgli un dubbio di coscienza, lo trovò in estasi, sollevato due palmi da terra e se ne usciva silenziosamente, quando, giunto sulla porta, l'uscio cigolò. A quel rumore, tornato in sé, il santo gli fece cenno d'accostarsi : « Caro don Filippo», gli disse, « non farti scrupolo della tal cosa e riposa tranquillo sul mio consiglio».

E l'occhio lucido e fermo esprimeva più di quanto dicessero le parole.

Il susseguirsi di tanti prodigi indusse l'Arciprete ad esporgli un caso doloroso che angustiava una famiglia e l'intera popolazione. Erano sette anni che il sacerdote Domenico Sarro era caduto vittima di una malattia nervosa che aveva sconvolto i suoi sentimenti e straziava la sua anima. Se ne stava tutto il giorno disteso sul letto, lo sguardo vitreo, il volto stirato, impassibile. Non apriva bocca che per emettere urla e bestemmie contro Dio che lo aveva condannato, ancor vivo, nell'inferno. Se qualcuno cercava di consolarlo, lo investiva con un torrente d'ingiurie, agitando le braccia e gettando schiuma dalla bocca. Poi rideva d'un riso sinistro e profondo.

Da sette anni non aveva celebrato, né si era accostato ai sacramenti, sette anni di disperazione per i parenti, chiusi in un cerchio di ossessione allucinante. Erano ricorsi a medici famosi, avevano peregrinato ai santuari più celebri dei dintorni; erano saliti al collegio di Caposele ; tutto inutile. Perfino l'intervento del padre Cafaro che lo aveva benedetto ai piedi della Madonna ed aveva pregato a lungo col fervore di cui era capace. Il povero sacerdote, più stanco, più malato, più disperato, era tornato ad assordare la casa con urla, bestemmie e risa sinistre.

Ormai nessuno pensava alla possibilità della guarigione, quando le gesta prodigiose di Gerardo riaccesero una speranza nell'Arciprete che si rivolse fiducioso alla sua potente intercessione. Il santo promise di pregare. Poi all'indomani si fece accompagnare dall'infermo. Gli andò vicino senza lasciarsi turbare dalle sue escandescenze; lo guardò con quegli occhi capaci d'ammansire una belva e gli tracciò la croce sulla fronte corrugata. Miracolo ! Al tocco di quella mano, si spianarono le rughe, si ammorbidirono le guance, scomparvero le ombre, la bocca si chiuse, poi si aprì ad un sorriso di placido poppante. Allora il santo lo aiutò a scendere di letto, lo condusse al clavicembalo che dormiva da tanti anni appoggiato alla parete di fondo, e gli disse: « Suona qualche cosa».

« Che debbo suonare ? ».

« Una litania alla Madonna».

Il sacerdote mosse con disinvoltura le lunghe dita stecchite sulla vecchia tastiera. Gerardo intonò il canto, con la sua voce divenuta fioca dalla malattia; l'altro rispose con prontezza e le due voci s'intrecciarono e si modularono insieme fino alla fine.

« La grazia è certa », disse il santo all'Arciprete, rincasando. Infatti all'indomam si recò di buon'ora dal malato, lo condusse in chiesa, e gli fece ricevere i sacramenti. E così il giorno seguente. Il sacerdote appariva raccolto, devoto, tranquillo, come se fosse stato sempre l'uomo più normale del mondo.

Non restava che la celebrazione della messa e si fissò il giorno che doveva rivestire un carattere eccezionale.

Quel mattino i parenti del sacerdote erano pronti da un pezzo intorno all'altare addobbato e sfavillante; con loro i signori Salvadore e buona parte del popolo. Mancavano don Domenico e il suo accompagnatore: Gerardo. Il primo era a casa in attesa, ma l'altro dov'era ? Bussarono alla sua porta una prima, una seconda volta nessuna risposta. Allora entrarono in punta di piedi e lo trovarono genuflesso accanto al letto : una mano stringeva il Crocifisso ; l'altra era piegata sul petto, come fu poi rappresentato nelle immagini tradizionali; ma le palpebre erano socchiuse, la testa rovesciata leggermente verso il cielo, il volto pallidissimo come se tutto il sangue fosse rifluito nel cuore. Non respirava. L'Arciprete, messo sull'avviso, accorse immediatamente e con lui parecchi familiari. Contemplarono commossi lo spettacolo, poi uscirono adagio adagio, fermandosi a una certa distanza dalla porta. Quando, dopo una mezza ora, lo sentirono muoversi, bussarono per chiedergli come stesse.

« Questa notte», rispose, « non ho dormito a sufficienza, e sul far del giorno, sono stato sorpreso da un sonno profondo».

Don Sarro, senza indugio, scese in chiesa, dando la mano a Gerardo. Salì sull'altare con la pietà e la disinvoltura dei giorni migliori, sciolto nella pronunzia, composto nei movimenti, svelto nelle rubriche, come avesse celebrato ogni mattina. Da allora continuò a celebrare regolarmente, suscitando sempre la stessa commozione nel popolo che quando sentiva suonar la sua messa, diceva: « Andiamo a vedere il miracolo ».

Vi fu ancora qualche dubbio, qualche esitazione, qualche intoppo, ma bastava la presenza del santo per calmarlo. Anzi, e questo è ancora più stupendo, quando egli partì da Oliveto, lasciò come sostituto l'Arciprete, perché, vedendolo ricalcitrare, gli avesse comandato di celebrare in nome suo. Bastava che l'Arciprete pronunziasse questo nome, perché ogni resistenza cadesse e si avviasse sereno all'altare.

Nello stesso tempo avveniva un'altra guarigione, ma a distanza. Il santo aveva spedito un corriere a un certo Lorenzo Di Masi in Caposele, per informazioni di grande importanza. Nella risposta, Lorenzo gli raccomandava suo padre, Stefano, afflitto da grave malattia. Appena Gerardo aprì la lettera, alzò gli occhi al cielo. In quello stesso istante, l'infermo di Caposele si alzava perfettamente guarito. Intanto, approfittando delle ore mattutine in cui la febbre non gli dava molta noia, al fianco di qualche amico, si andava licenziando dai benefattori del luogo. Si trascinava a stento, ma voleva andare di persona, grato di ogni beneficio ricevuto. La tradizione ricorda solo l'addio alla famiglia Pirofalo per i fatti straordinari che l'accompagnarono. Mentre tutti si congratulavano con lui nel vederlo ancora in piedi e gli auguravano una perfetta guarigione: « Oh», rispose, « morirò presto, molto presto ». E guardava il cielo come volesse spiccare il volo verso il luogo della sua liberazione.

« Guardate », disse infine, « le finestre del nostro collegio : quando vedrete un lenzuolo spiegato ad una di esse, io sono ancora in vita. Quando non lo vedrete più, sarò morto ».

Per più di un mese i signori Pirofalo dal loro giardino spinsero gli occhi verso il collegio che appariva come una striscia bianca campita all'orizzonte. Il lenzuolo era sempre lì, alla finestra, visibile a occhio nudo, come se la distanza di oltre sei miglia in linea d'aria che lo separava da Oliveto fosse stata raccorciata, o i loro occhi avessero acquistato nuova potenza visiva. Solo la mattina del 16 ottobre non videro più il lenzuolo per quanto aguzzassero gli occhi e allora si precipitarono a Caposele per rendere l'ultimo omaggio al grande amico e benefattore.

Terminata la visita, Gerardo si avviò verso l'uscita. Proprio allora una giovinetta gli riportò un fazzoletto che aveva lasciato sulla sedia: « No, no, tienilo pure*, rispose sorridendo, « un giorno ti potrà servire». Le servì, infatti, alcuni anni più tardi quando si trovò in preda alle doglie del parto. Allora, mentre tutti i santi del paradiso parevano sordi e i medici non sapevano più che fare, lei si ricordò del fazzoletto e lo chiese insistentemente. Subito cessarono i dolori, e con estrema facilità potè stringere fra le braccia il figliuolo. In seguito, per soddisfare la devozione dei fedeli, il fazzoletto prodigioso fu diviso in molte reliquie. Una di esse, circa novant'anni dopo, era conservata da colui che attestò il fatto prodigioso nei processi apostolici.

Ma l'addio più commovente fu con la famiglia ospitale, specialmente con l'Arciprete che, più degli altri, sapeva apprezzare la grandezza della sua santità. Non lo lasciò partire senza aver firmato un patto di mutua preghiera e assistenza in vita e in morte. Il patto fu stipulato « in presenza della SS. Trinità e di Maria SS. e di tutta, la corte celeste », ma obbligava quasi unicamente uno dei due contraenti, cioè « il detto venerando Fratello Gerardo » il quale era tenuto, tra l'altro, e « in virtù di santa bbidienza in vita e dopo morte »

« A pregare efficacemente il Signore ... perché ci vediamo per tutta l'eternità nella gloria del Paradiso ...

A soccorrermi anche da lontano in tutte le necessità spirituali e temporali con raccomandazioni a Dio ...

Ad impetrarmi forza di adempiere santamente la mia carica, santificar tutti, fuggir le offese del Signore e purificarmi di tutte le imperfezioni.

A pregare Dio per la salute spirituale e temporale di quelli di mia casa e per la quiete e la pace generale di questa patria dello Oliveto ...

Ad impetrare una perfetta ubbidienza a tutti quei penitenti a lui ben noti ».

Questo ultimo punto rivela una perfetta intesa tra l'Arciprete e l'umile laico nel campo dell'apostolato. I « penitenti» sono le anime

che egli convertiva e presentava al sacerdote per la confessione sacramentale. Essi dovettero essere molti se si parla : « di tutti quei penitenti» e il santo dovette assisterli con una certa frequenza per conoscerli assai bene. Così, anche fiaccato da un male che non 'perdona, Gerardo continuava il suo apostolato.

Da parte sua, l'Arciprete si obbligava a « corrispondere a tutti i lumi del Signore, e a pregare e far pregare Sua Divina Maestà per il suddetto venerando Fratello Gerardo » (o. c., pagg. 83-84).

Col patto il santo compensava ad usura la famiglia Salvadore e tutto il popolo di Oliveto, tanto cari al suo cuore.

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    In alcuni casi potrebbero avere accesso ai Dati Personali anche soggetti coinvolti nell’organizzazione del Titolare (quali per esempio, amministratori di sistema, ecc.) ovvero soggetti esterni (come società informatiche, fornitori di servizi, hosting provider, ecc.). Detti soggetti all’occorrenza potranno essere nominati Responsabili del Trattamento da parte del Titolare, nonché accedere ai Dati Personali degli Utenti ogni qualvolta si renda necessario e saranno contrattualmente obbligati a mantenere riservati i Dati Personali.

  4. Luogo

    I Dati Personali sono trattati presso le sedi operative del Titolare ed in ogni altro luogo in cui le parti coinvolte nel trattamento siano localizzate. Per ulteriori informazioni, è sempre possibile contattare il Titolare al seguente indirizzo email info@sangerardomaiella.it oppure al seguente indirizzo postale Via Trinità 41, 85054 Muro Lucano (PZ).

  5. Diritti dell'Utente

    Gli Utenti possono esercitare determinati diritti con riferimento ai Dati Personali trattati dal Titolare. In particolare, l’Utente ha il diritto di:

    • revocare il consenso in ogni momento;
    • opporsi al trattamento dei propri Dati Personali;
    • accedere ai propri Dati Personali e alle informazioni relative alle finalità di trattamento;
    • verificare e chiedere la rettifica;
    • ottenere la limitazione del trattamento;
    • ottenere la rettifica o la cancellazione dei propri Dati Personali;
    • ottenere l’integrazione dei dati personali incompleti;
    • ricevere i propri Dati Personali;
    • proporre reclamo all’autorità di controllo della protezione dei Dati Personali.
  6. Titolare del Trattamento

    Il Titolare del Trattamento è TC65 S.r.l., con sede in Via Trinità 41, 85054 Muro Lucano (PZ), Partita Iva 01750830760, indirizzo email: info@sangerardomaiella.it

Ultimo aggiornamento 27/07/2021