Torture
CAPITOLO XVII
Dopo quel funesto incidente, il Santo andò soggetto a emottisi e, sorpreso durante una emorraggia da un confratello che voleva informarne il Rettore, lo pregò di non farlo.
Dimentico di se stesso, anche se non riceveva il necessario per i viaggi che doveva fare, non chiedeva mai nulla per spirito di mortificazione e perché fiducioso nella Provvidenza. Mandato, un giorno, alla terra di Accadia senz'alcuna provvista, vi giunse così stremato di forze, che svenne mentre scendeva da cavallo.
Quando, dopo un lungo viaggio, ritornava a casa sudato e stanco, non domandava mai ristoro, perché fedele al suo proposito di " non chiedere mai nulla per se stesso ".
Mentre ritornava da Foggia, a cavallo, per accompagnare un carico di legname, il carro si rovesciò in mezzo alla fanghiglia e tra le bestemmie del carettiere adirato. Scongiurato il bestemmiatore a desistere dall'offendere così gravemente Iddio, lo aiutò a togliere il rotabile dal pantano, dove lasciò perfino una scarpa. Giunto poi al collegio, benché inzaccherato e senza la calzatura, non se ne lamentò, perché amava soffrire in segreto per piacere al buon Dio.
Così caritatevole verso il prossimo anche se indegno, maltrattava se stesso quasi fosse un irreconciliabile nemico. Si torturava quindi in tutti i modi possibili, anche perché non impedito nel mortificarsi dal P. Cafaro " irsuto crocifissore di se stesso, che non amava le mezze misure neppure con i suoi penitenti ", come scrive il P. Ferrante. Perché quel suo direttore spirituale aveva detto che " per farsi santi bisognava sempre agonizzare mortificandosi in tutto, nel nutrirsi, nel bere, nel dormire e nel sedere", Gerardo attuava alla lettera questo duro programma di vita. Diceva perciò:
-Se perdo l'occasione di farmi santo, la perdo per sempre.
Quindi sedeva il più disagevolmente possibile, riposava con la testa all'in giù, mangiava pochissimo e cospargeva di assenzio le misere vivande, che prendeva soltanto per non morire d'inedia. Voleva il suo corpo sempre sulla croce, privo di ogni sollievo, macero dalla fatica e per la disciplina, malvestito e peggio trattato. Non volle mai una talare nuova, contento di cucire i suoi vestiti con ritagli di panno vecchio, intignato o logoro.
Con licenza dei superiori, occupò una cella simile a una tana, appena illuminata da una feritoia. Là dentro collocò due cavalletti di legno, sui quali pose un pagliericcio pieno di pietre. Come guanciale, accomodò due mattoni. Unico mobile, una scranna e per ornamento alcuni teschi umani, che aveva prelevati dal sepolcreto. Alla sera, quando il Santo entrava in quel bugigattolo da faine, sembrava che quei teschi lo fissassero con le occhiaie vuote, ma egli non provava ribrezzo, perché considerava la morte quale porta d'oro del Cielo, dacché viveva santamente come se dovesse quotidianamente soccombere.
Quando, dopo l'ultima preghiera, il penitente si stendeva su quel nuovo " letto di Procuste ", con le membra stanche e pèste dalle macerazioni cruente, cercava la posizione più scomoda affinché il riposo notturno consistesse, per lui, in una insopportabile tortura. Talvolta, specialmente se di venerdì e durante la quaresima, si coricava sopra un giaciglio irto di punte e si cingeva la fronte di una fascia intessuta di chiodi e di crine, così da riuscirgli più penosa di una corona di spine.
Quello stambugio divenne così famoso, che molti andavano a visitarlo per edificarsi e riflettere seriamente sulla necessità della penitenza. Il Vescovo di Menfi e quello di Lacedonia rimasero attoniti e atterriti nell'osservar quella tana, dove mancavano la luce, l'aria e ogni cosa indispensabile per riposare. Eppure il Santo vi passava le notti volentieri, come fosse un appartamento regale, perché poteva soffrire in segreto e silenziosamente secondo il suo desiderio.
Perciò quando gli si volle assegnare una stanza ordinaria, Gerardo ne provò rincrescimento, perché lo si privava di un efficace mezzo con cui poter acquistar tanti meriti; egli però cedeva la nuova stanza ai forestieri o agli ospiti, perché contento di dormir sulla nuda terra, o dentro la stalla con i giumenti o, meglio ancora, sul pavimento della chiesa.
Narrava il P. Landi, ch'egli dormiva volentieri nell'interno dell’ altar maggiore. Felice di trovarsi così vicino all'insonne Prigioniero del tabernacolo, intrecciava con Lui colloqui di amore, per i quali le ore notturne gli sembravano minuti. Ma vinto una volta dal sonno, si destò al trillo del campanello, che si suonò al " Sanctus " della prima Messa. Allora, per non lasciarsi vedere, dovette restar là dentro finché si celebrarono tutte le altre Messe, ch'egli ascoltò, rannicchiato, ma con la massima devozione.
Per la insistenza dei superiori, si rassegnò a usare un pagliericcio ordinario, ma ottenne di sostituirlo, tre notti per settimana, con una tavola sistemata su due embrici, mentre una grossa pietra gli pendeva dai piedi. Così egli si mortificava spietatamente, contento d'imporsi i più gravi sacrifici, di sopportare le più penose privazioni, di martoriare il suo corpo innocente e malaticcio " per amor del suo Dio e Creatore'".