San Gerardo Maiella
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É Dio che mi batte

Capitolo IV

« Figlio mio», diceva mamma Benedetta a Gerardo appena passati i primi giorni di prova, « figlio mio, lo vedi come siamo ridotti ? Ormai non c'è più nessuno che porti a casa qualche cosa. Brigida si è sposata e le altre due, se Dio vuole, si sposeranno tra poco. Io ho i miei anni e i miei acciacchi. Non ci resti che tu. è tempo ormai d'impararti il mestiere. Sei grande e devi guadagnarti da vivere ».

Egli chinò la testa e si lasciò condurre dal maestro sartore. Martino Pannuto era un uomo sulla quarantina, asciutto e collerico. Dal suo posto di comando, dietro al bancone affollato di stoffe e modelli, squadrò da capo a piedi il ragazzo e lo affidò a un suo dipendente con l'incarico d'istruirlo. Il giovanotto ebbe un lampo di dispetto negli occhi. Voleva dire: « Che ne faremo di questa gatta morta ? » ma si limitò a mostrargli sgarbatamente una sedia. Doveva guardare per apprendere. E Gerardo guardava attentamente, protendendosi con tutto il corpo verso il maestro improvvisato che manovrava abilmente le forbici e l'ago, ma poi l'abitudine lo vinse e scivolò in ginocchio, tra lo stupore dei presenti. Forse solo Martino non se ne stupì, messo sull'avviso dalla mamma. Pensò che ben presto la sua autorità e le sue mani massicce avrebbero avuto ragione di un ragazzo buono, ma svogliato. Perché Martino era un uomo religioso e austero che non transigeva coi dipendenti ; facile ad irarsi e a placarsi, ma capace anche di far volare qualche scapaccione o di ricorrere a mezzi più efficaci. Col nuovo venuto ci sarebbe voluta comprensione e, qualche volta, condiscendenza. E queste doti mancavano a Martino e, molto più, al suo subalterno.

Con tutto ciò, stiamo bene attenti a non giudicarli troppo severamente. Perché noi ragioniamo con la scienza del poi e non riflettiamo alla difficoltà di trattare con un ragazzo come il nostro, guidato da un programma tutto suo, tanto diverso da quello dei comuni mortali. Il suo lavoro sembrava alle volte macchinale: mani e testa andavano ognuna per conto suo. Spesso arrivava in ritardo e non tentava neppure di giustificarsi; spesso se ne sgattaiolava fuori a ogni cenno di campana; spesso si lasciava cadere in ginocchio sotto il bancone a leggere un libretto sgualcito, o se ne rimaneva a sognare con la gugliata in aria e gli occhi al soffitto. Poteva durare così ? E il Pannuto cominciò con le sgridate, poi passò agli schiaffi; qualche volta al bastone ; ma non trascese mai una certa misura. Non così il suo subalterno.

Costui, con l'orgoglio e l'autosufficienza propria degli anni, credette di metterlo a posto con la violenza e lo strapazzo, senza accorgersi che faceva il gioco dell'altro. Perciò, quale non fu la sua meraviglia quando, dopo una delle sfuriate, lo vide nell'atteggiamento di chi dice: « Ancora, ancora ! ». Allora sì che perse la pazienza e gli scaricò addosso una furia di schiaffi. Tanto bastò. Gerardo, svegliato dalle sue contemplazioni, riprese tranquillamente il lavoro. « L'ha capita finalmente ! » mormorò il giovane, e tra le bianche pareti ricadde il silenzio. Ma fu per poco.

Dal campanile scese giù lentamente un'altra ora. Un'altra ora significava un nuovo quadro della passione, una nuova visione del Cristo sofferente. Gerardo per un impulso spontaneo si ritrovò sotto al bancone, immobile come prima, avendo davanti agli occhi il suo Gesù spogliato e flagellato, con le carni arrossate, gonfiate, squarciate. Già s'immedesimava nella dolorosa vicenda, genuflesso tra gli sgherri del Pretorio, lontano le mille miglia dall'ago e dal filo, quando un calcio lo stramazzò a terra. Sorrise... non aveva la fortuna di soffrire con Gesù ? Che poteva desiderare di meglio ? E si rialzava con la gioia sul volto, quando si vide ficcati addosso gli occhi dannati del giovane: « Ah ci ridi pure! », urlò costui correndo ad abbrancare una mezzacanna di ferro.

Con un poco di astuzia Gerardo poteva chiarire l'equivoco, ma dove trovare l'astuzia in un semplicione di quella fatta ? E poi perché ricorrere all'astuzia se le cose erano di suo gusto ? Da parte sua il giovane doveva pur chiedersi quale fosse il motivo di quel riso, anche se gli paresse da scemo. Possibile che non sentisse le botte che gli solcavano le spalle ? E una volta sbollita la collera, si fermò a guardare la vittima, sempre serena, sempre atteggiata al sorriso. Ebbe ancora uno scatto d'impazienza: « Ma si può sapere perché, ridi ? ».

E Gerardo : « Perché è Dio che mi batte».

Era una risposta dettata da un intuito felice che superava, di colpo, ogni logica umana. Può sembrare assurda alla nostra piccola ragione perché appartiene alla ferrea logica del Vangelo. Bisogna esser santi per comprenderla.

Qualche cosa della realtà doveva pur trapelare al Pannuto, ma egli era indeciso sul da farsi. In fin dei conti, Gerardo non si comportava a dovere: possibile che non poteva usar più diligenza nel lavoro? Possibile che doveva perder la testa ogni momento? Possibile che doveva apparire così sventato, così goffo, così ridicolo, così scemo, da farsi ridere dietro i compagni apprendisti? Possibile che doveva arrivar sempre in ritardo e uscire a ogni suon di campana? Sarà per andar in chiesa, come sussurravano in giro, oppure c'era sotto qualche cosa di meno serio?

E un giorno, secondo una tradizione, quando Gerardo lasciò il negozio, gli si mise alle costole, arrancandogli dietro fin nella chiesa di S. Marco. Lo trovò in ginocchio sul pavimento, a mani giunte. Poi lo vide curvare la fronte fino a terra e, baciando la polvere, tra-scinarsi fin sui gradini dell'altare maggiore dove si ricompose in preghiera : torso eretto, mento all'aria, guance trasfigurate dal chiarore assopito dei finestroni dell'abside.

« Altro che scemo! » esclamava tra sé Martino, riprendendo il suo posto dietro al bancone, « è un vero cristiano... Ma anche un po' curioso... Perché non dirmi nulla ? Sono o non sono suo superiore ? ». E quando se lo rivide mogio mogio davanti, con voce burbera, ma rotta dalla commozione, gli disse: « Potevi dirmelo che andavi in chiesa ed io non ti avrei negato il permesso!».

Potevi dirmelo! Sono di quelle considerazioni così facili, così ovvie, così elementari, che appunto per questo s'imprimono facilmente nell'anima e vi restano. Perché le cose più facili più facilmente ci sfuggono e abbiamo bisogno che qualcuno ce le ricordi. E Gerardo - anche i santi hanno i loro difetti e sono perfettibili - non aveva pensato al suo dovere di dipendenza dal padrone: forse perché pensava che l'andare in chiesa era una cosa tanto naturale che ognuno l'avrebbe capita da sé, senza spiegazioni; forse perché, avvezzo fin da piccolo a considerare Dio come unico padrone e a lasciarsi manipolare dalla sua azione irruente, non si era ancora proposto il problema della propria dipendenza da altre creature. E l'illusione sarà stata agevolata dalla condiscendenza dei genitori.

Ma la riflessione di Martino gli fece capire che la voce di Dio andava accordata con la voce di chi parla in nome di Dio. E da allora le due voci si fusero armonicamente nella sua anima, la quale tra quelle pareti si addestrò non solo alla virtù del lento martirio, ma anche dell'ubbidienza cieca e volenterosa. Ascoltò ogni parola del padrone e ne scrutò le intenzioni più riposte con tanta fedeltà da renderlo pienamente soddisfatto. Martino era un uomo austero ed irascibile, ma dava volentieri onore al merito. Non tardò quindi a riconoscere nel discepolo, se non i progressi nel mestiere sempre piuttosto lenti, quell'insieme di doti morali che non si trovano facilmente nei giovani: dirittura di coscienza, senso spiccato del dovere, fervore religioso e generosità a tutta prova. Da quest'ammirazione nacque il desiderio d'averlo spesso in casa e proporlo tacita-mente come modello dei suoi. Il desiderio non dovette dispiacere alla signora Galella che, perduto il marito, s'era dovuta adattare a tutti i mestieri, perfino a quello di serva per tirare avanti la famiglia; meno che meno dovette dispiacere a Gerardo che voleva solo rendersi utile ai padroni e in quella casa, con cinque figliuoli quasi tutti in tenera età e un sesto in arrivo, c'era sempre un gran da fare perciò aiutava in cucina, rassettava le stoviglie, soprattutto badava ai bambini, i quali bevevano avidamente le sue parole, sottolineandole con la serietà più compunta e le risa più convulse. Gli si affezionarono tutti, specialmente il piccolo Giuseppe, un frugolo di sette otto anni, che voleva stargli sempre vicino, perfino durante il giorno, costringendolo qualche volta con urla e strepito a sospendere il lavoro e condurlo a passeggio. Visitavano una chiesa dopo l'altra; passavano in rassegna tutti i santi delle pareti e degli altari; ne commentavano i gesti, le ferite, i segni di martirio. Poi, quando la luce s'attenuava, dopo la benedizione eucaristica, tornavano a casa, per ricongiungersi a tutta la nidiata che accerchiava il santo con una rosa di occhietti scintillanti. Lo stesso Martino si mescolava volentieri nel crocchio, partecipando ai giuochi e alla preghiera serale. Poi Gerardo dava la buona notte e tornava da mamma Benedetta. Ma quando si faceva tardi - e avveniva molto spesso - se ne scendeva nel negozio dove la signora Maddalena gli aveva preparato, tra quattro assi, un lettuccio. Là terminava le sue orazioni. In ginocchio, immobile tra le tenebre, sembrava uno di quei manichini che vegliavano sui tavoli di lavoro. Alla fine si lasciava andare sul nudo pavimento per poche ore di riposo. Una notte Martino, entrato improvvisamente a ritirare non so quali stoffe, ebbe a urtarlo col piede « Che fai qui in terra come un cane ? ». « Qui riposo meglio».

All'indomani, con le prime luci dell'alba, correva in chiesa a pregare fino a quando, col riaprirsi della sartoria, poteva tornare al suo posto. Non sempre però, perché qualche volta il Maestro Divino lo chiamava tanto forte da fargli dimenticare ogni altra cosa. Allora arrivava in ritardo, meritandosi qualche rabbuffo, magari qualche scappellotto o bastonata, ma tutto finiva lì. Ed egli si ricomponeva nel lavoro, scorrendo con mano veloce sulle stoffe, mentre le labbra e il cuore si perdevano in Dio. Così ogni giorno.

Ma nelle stagioni morte, quando i contadini, assorbiti dai lavori agricoli, non pensavano a rinnovare i vestiti, anche Martino chiudeva il negozio e si affrettava nei campi. Aveva un castagneto in montagna e una vigna nella pianura, in un avvallamento di terreno chiamato «Alla Cupa, o Boccaporta ». Gerardo lo seguiva ed era felice. All'aperto, la preghiera gli usciva più limpida dal cuore, tra le nuvole d'incenso che vaporavano verso il cielo e i primi raggi che scendevano sulla terra. Erano i giorni umidi di settembre quando il sole ancora caldo ingrossa le uve e le prime piogge preparano le maggesi per le semine autunnali. Allora si riparano i tini e si apprestano i corbelli e le scale, mentre l'aria rintrona dei colpi pesanti dei maz-zuoli che stringono le doghe. Quando poi il mese declina e le nuvole si abbassano sui monti, allora si esce in fila indiana, scala in ispalla, corbelli alla mano e si va lungo i filari a recidere i grappoli maturi.

Gerardo in quei giorni era tutto in faccende dietro al padrone ; ne era l'ombra fedele. Usciva con lui di buon mattino, percorrevano insieme due miglia, aspirando le fresche esalazioni dei boschi e il sole li sorprendeva tra le viti. Tornavano a notte avanzata o non tornavano affatto per giorni e giorni, coricandosi alla meglio su un mucchio di fieno del pagliaio. Nell'aria c'era odore di mosto ; le uve venivano via via calate nei tini, poi pigiate e lasciate a fermentare all'aperto, finché le donne, con le conche equilibrate sulla testa, non riuscissero a trasportarle in paese. Tanta ricchezza, messa lì a portata di mano, costituiva un'attrattiva molto ghiotta per i profittatori notturni, che, spinti dal vizio o dal bisogno, si aggiravano tra le viti. Ma era gente pacifica che fuggiva al primo rumore: una parola, uno strepito, un lumino acceso, un segno qualunque di vita ed essi giravano al largo. Gerardo, di notte, teneva compagnia a Martino : era un buon pretesto per pregare di più. Di giorno invece faceva la spola tra la vigna e il paese per provvedere il necessario. Aveva l'occhio vigile ed il piede veloce: l'ubbidienza gli porgeva le ali.

Si raccontano in proposito vari episodi. Un giorno la signora aveva spedito la figlia col pranzo del marito, quando si accorse di aver dimenticato la forchetta e non sapeva darsene pace. Chi lo avrebbe voluto sentire quel brontolone! Per fortuna era lì Gerardo prese la posata, si precipitò per i campi, raggiungendo la ragazza all'imbocco della vigna. E dire che lei era partita mezz'ora prima, svelta come un fringuello!

Si racconta pure che una sera Martino, mentre rigovernava la lucerna, si accorse che non c'era più una goccia d'olio. Che fare ? Rimanere al buio tutta la notte ? Nemmeno a pensarlo; spedire il ragazzo in città ? A quell'ora ? Sarebbe stato prudente ? Mentre rifletteva, Gerardo uscì dal pagliaio tornando poco dopo con la provvista bell'e pronta. « L'ho presa in città», disse al padrone che sgranava tanto d'occhi per la meraviglia. E la meraviglia prende anche noi, non tanto per questi episodi già narrati, quanto per un altro, che ci accingiamo a narrare.

Una sera toccò a Gerardo montar di guardia alle uve. Uscì verso il tramonto, portando a cavalcioni il piccolo Giuseppe. Il bambino caracollava come se avesse imbrigliato un puledro indomito, emettendo grida di gioia. Ma, giunto sul posto, punto dal freddo umido della valle, si ritirò nel pagliaio, si fece una cuccetta in mezzo al fieno e si addormentò. Gerardo, rimasto solo, girò due o tre volte, cantando, per la vigna, poi entrò anche lui e si pose in ginocchio in un canto. Era pur bella la preghiera tra il gracidare delle rane e lo stridore dei grilli! Di tanto in tanto s'interrompeva, accendeva uno stoppino alla lucerna appesa a un travicello, lo innestava nella spaccatura della canna e via di corsa, intonando una preghiera, per spaventare eventuali aggressori. Fu verso mezzanotte: mentre usciva cantando il Miserere, nell'agitare la canna, per sbadataggine, appiccò il fuoco allo spiovente del pagliaio e le stoppie s'incendiarono, crepitando in un nugolo di fumo e di puzzo. Il bambino si destò di soprassalto, si vide investito dalle fiamme e si pose a gridare: « Gerardo, che hai fatta ? ».

E lui: « Non è niente, non è niente! ». Tracciò un segno di croce e tutto ripiombò nella notte. Come in una bella fiaba. E infatti ci troviamo di fronte a qualche cosa d'immaginoso, dovuto alla fantasia eccitata dell'unico testimone oculare che servì di base alla tradizione: un bambino. Il quale ha raccontato che fatti simili si sono ripetuti diverse volte, e anche per gioco.

Ma, se possiamo dubitare di questi fatti, non possiamo dubitare di un miracolo di pazienza di cui fu testimone lo stesso Giuseppe e un cacciatore bestiale.

Una sera Gerardo tornava dalla vigna col suo passo misurato e sonnolento, ma era il sonno della contemplazione e della preghiera. L'umidore saliva dalla valle e il cielo si tingeva di un morbido sole morente; c'era nell'aria la malinconia del trapasso. Ma egli non la sentiva, chiuso nella preghiera. Non intese neanche lo strepito delle acque che fuggivano dalla strozzatura delle rocce presso il grot-tone delle Ripe. Intese solo un urlo strozzato e stolzò il capo da quella parte: un uomo, seminascosto dalla siepe, drizzandosi sulle gambe, col fucile ancora puntato verso l'alto, gli gridava: « Vedi che hai fatto ? ». E gli mostrava un uccello spaurito che passava frullando per l'aria. Poi, senza dargli tempo di rispondere, gli sal-tava addosso, appioppandogli uno schiaffo. Gerardo sorrise e presentò l'altra guancia: non gli diceva di far così il Vangelo ? Ma il cac-ciatore perdette il lume degli occhi: « Ah, non te ne importa niente ? E allora prendi questo, prendi quest'altro... ». E continuò la sua sca-rica. La cosa non sarebbe finita così presto, se da lontano non fosse giunta l'eco di due passettini affrettati, poi lo strillo d'un bambino « Cosa fai ? Lo dirò a papà ». Era il piccolo Giuseppe. Allora il cac-ciatore si fermò a guardare la vittima: il volto era livido, un occhio ammaccato, ma sorrideva con l'occhio ancora sano. A quella vista, l'ira gli sbollì e si allontanò a testa bassa, dicendo tra sé: « Cosa ho fatto ! Cosa ho fatto ! », mentre Gerardo proseguiva il cammino con la gioia d'aver trovato un amico.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021