Un uomo inutile
Capitolo I
Le campane irruppero fragorose nel cielo quando i missionari si levarono a benedire la folla ammassata tra la cattedrale e il castello, si adagiarono ai piedi dell'Addolorata, issata sul calesse come un trofeo, spronarono i cavalli e scomparvero in un nuvolo di polvere. Allora il popolo, fino a quel momento rimasto senza fiato, scoppiò in un lungo irrefrenabile applauso, rotto qua e là da urli e singhiozzi. Muro, tutta Muro, era lì a tributare il suo ringraziamento a quello stuolo di missionari che per tanti giorni si era prodigato per il suo vantaggio spirituale.
Mancava solo un giovane ventitreenne alto e pallido ed era colui che più degli altri aveva desiderato quel giorno: Gerardo Maiella. Era a casa sottochiave e la chiave si trovava nelle tasche della mamma, uscita di buon mattino. Quando se ne accorse, era troppo tardi: la porta era sbarrata e l'alta finestra dava a picco sulla roccia. Le campane intanto continuavano a rincorrersi per l'aria serena di maggio, acuendo il suo desiderio e il suo strazio.
Che fare? Coi gomiti puntati sul davanzale, pensò: poi ebbe un'idea, l'afferrò a volo, prese un lenzuolo dal letto e si calò penzoloni nel vuoto. Aveva lasciato scritto, con la meta del viaggio, l'addio irrevocabile al mondo: "Non pensate più a me; vado a farmi santo". Tra il monte Pierno che si profila a sinistra col suo bel santuario mariano e il monte Croce, a destra, sfumato nell'azzurro, su quella rocca donde si gode il più vasto panorama della Lucania, Gerardo raggiunse la carrozza dei missionari. Ed era il luogo più adatto: i cavalli procedevano lenti in salita, mentre il santuario mariano incoraggiava il nostro fuggitivo che dall'infanzia aveva inseguita a perdifiato il solo ideale della Croce.
Appena scorse a distanza la macchia scura dei missionari, annidati ai piedi della Vergine che luccicava al sole con le sue sette spade, raccolse le ultime forze e si mise a gridare, correndo: « Padri, aspettatemi! ». Era così stanco, così trafelato che il padre Cafaro, vincendo la sorpresa, fece fermare la carrozza: « Torna a casa, figliuolo, te lo dico per il tuo bene: questa vita non è fatta per te».
E gli altri in coro: « Torna a casa, torna a casa ! ».
Ed egli: «Provatemi e, se non sono buono, mi rimanderete a casa».
Non sappiamo cosa avvenne. Forse rimase solo sulla strada deserta, raggiungendo a piedi la meta; forse, ed è più probabile, trovò posto nella carrozza, perché il padre Cafaro giudicò più facile persuaderlo appena arrivati a Rionero. Fatto sta che ricompare nella nuova missione in qualità di serviente. Lavava i piatti, spaccava la legna, rattoppava le vesti, sempre sereno, gioviale, tranquillo, pienamente soddisfatto. Dava tutto e non chiedeva nulla, nemmeno un pezzo di pane, o una coperta: mangiava gli avanzi e dormiva per terra, nei sottoscala, confidando solo in Dio e confidando contro ogni speranza. Perché il padre Cafaro non tralasciava occasione per ripetergli in tutti i toni: « Torna a casa. è meglio per te e per noi ». E lui tirava diritto per la sua strada, incrollabile come una montagna. Ma un giorno che il Padre gli aveva ricantato per la centesima volta lo stesso ritornello, gli si gettò ai piedi, aggiungendo alla solita domanda, una specie di minaccia disperata: « Se non mi accettate, mi vedrete ogni giorno accattare coi poveri alla porta del vostro collegio ».
Il padre Cafaro ne fu scosso, non convinto. Rifletté alquanto, poi decise d'inviarlo a Deliceto. Il collegio che era sinonimo di fatica, di stenti e di miseria, sarebbe stato il banco di prova della sua volontà. Avrebbe ceduto, ne era sicuro, liberando l'Istituto da un soggetto malato e quindi inutile e se stesso da un seccatore ostinato. E se avesse resistito? Ma questo non passava nemmeno per la testa all'austero padre Cafaro: tanto era convinto che quel povero giovane allampanato, che tirava l'anima coi denti, non avrebbe concluso nulla di buono nella vita.
Prese la penna e fece le commendatizie per il superiore. La tradizione vuole che abbia scritto: « Ti mando un soggetto inutile... ». Dopo sei anni, sul letto di morte, quel soggetto inutile verserà lagrime amare per le spese della sua malattia: « Ho rubato finora il pane della comunità; adesso le rubo anche il denaro ».
E supplicherà il medico di desistere da quei rimedi costosi. Non ne valeva la pena: la sua vita era stata inutile.
Ma alla sua morte, i diseredati dalla fortuna dissero: «Abbiamo perduto il nostro padre!».
I provati dal dolore dissero: « Abbiamo perduto il nostro consolatore !».
I fanciulli, le vergini, le madri, gli operai dissero: « Abbiamo perduto il nostro benefattore!».
E tutti sfilarono, piangendo, davanti alla sua bara.