San Gerardo Maiella
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Il Santo dall'armatura di ferro

Capitolo XXV

La sera del 19 luglio 1753, mons. Teodoro Basta riceveva nel suo palazzo episcopale di Melfi la coppia ormai inscindibile del padre Fiocchi e di fratel Gerardo. Li riceveva cordialmente come sempre, ma questa volta all'affetto ordinario aggiungeva un'intima soddisfazione che gli trapelava dal sorriso sottile delle labbra, strette sotto il gran naso aristocratico e dal lucido brillare degli occhi sul volto allungato e rugoso. Erano ormai sette anni che il quarantaseienne Teodoro Pasquale Basta dei marchesi di Monteparano reggeva la diocesi, lasciando dappertutto il segno della sua attività negli ampi saloni del palazzo, come nelle navate della cattedrale che da alcuni decenni veniva soffocando l'antica severità normanna sotto gli stucchi e gli orpelli settecenteschi. Restava ancora incontaminato nella sua grandezza, segno dei tempi antichi e presagio dei nuovi, il campanile. Chi avrebbe osato toccarlo proprio allora che ricorreva il sesto centenario di quel lontano 1153, quando Noslo da Nemerio lo innalzava di fronte alle vette dentate del Vulture perché vegliasse sulle culle e sulle tombe, sui campi e sugli altari ?

Ma forse con tali restauri - per noi poco felici - il vescovo intendeva richiamare i suoi sudditi sul significato spirituale della storica ricorrenza e a questo fine l'abbinava a una nuova festività di cui aveva creato i presupposti.

Infatti, da nove mesi, all'ombra di questi monumenti, sotto le arcate dell'abside e a ridosso dell'altare maggiore, dormivano le ossa del patrono, S. Teodoro. Rinvenute a Roma nel cimitero di Priscilla, erano state ricomposte, secondo l'uso coreografico dei tempi, nella veste guerriera di un soldato romano e collocate dentro una urna di vetro, listata di legno dorato. Il trasporto aveva assunto le proporzioni di un trionfo.

In quei giorni brevi di novembre l'antica capitale normanna sembrò palpitare di tutta la gloria religiosa del passato, quando nel castello era stata bandita la prima crociata, o quando all'ombra delle torri vetuste, il grande Federico II aveva tenuto i consigli di guerra per respingere i saraceni dalle pianure pugliesi e aveva concesso ai cittadini le prime costituzioni melfitane. Erano glorie ormai sepolte dall'ignavia dei tempi, ma bastava un avvenimento che uscisse dall'ordinario per ridestarle nell'anima popolare che nella fede vedeva espresse le migliori tradizioni cittadine. Perciò l'ingresso del martire, in veste di vincitore, aveva suscitato, nove mesi prima, echi profondi di pietà e di fervore. Ora, per non far spegnere l'incendio di quei giorni, il vescovo aveva pensato di istituire una nuova festività che ogni anno, dal 20 al 29 luglio, avrebbe raccolto intorno al santo patrono il popolo ormai libero dal lavoro dei campi. Ma era necessario che la prima festa riuscisse davvero splendida se si voleva colpire il sentimento e la fantasia comune anche per gli anni avvenire. E Monsignore, già da vari mesi, si era assicurata la cooperazione del p. Fiocchi, missionario zelante e famoso. Poi, quando tutto era pronto e il programma ormai rifinito in ogni parte, giunsero gli echi dei fatti di Corato a destare le sue meraviglie e a strappargli dal petto quel grido enfatico : " Ora conosco che Gerardo è veramente santo !"

Prima lo aveva considerato come un mistico, ricco di doni eccezionali, ma chiuso nella torre d'avorio delle sue contemplazioni ; ora lo vedeva nella veste fascinosa di pacifico conquistatore di popoli, strumento valido per l'attuazione dei suoi piani, degno collaboratore del p. Fiocchi, suo superiore di religione. L'uno avrebbe predicato con la parola, l'altro con la santità e insieme avrebbero prodotto frutti immensi di bene. Ne scrisse al Rettore di Deliceto il quale fu ben felice di mettersi al fianco un aiuto sì valido. E l'attesa non fu delusa.

Gerardo iniziò il suo apostolato, come al solito, in sordina: durante la predica del padre Fiocchi, raccolse i fanciulli in sagrestia, intrattenendoli con istruzioni pratiche sui loro doveri verso Dio e la famiglia. Erano conversazioni facili, animate da fatterelli e uscite spiritose, interrotte, di quando in quando, da botte e risposte. Ce n'è stata tramandata qualcuna da un vecchio quasi centenario, l'unico testimone oculare al processo ordinario di Muro, il quale, all'epoca della nostra storia, aveva sei o sette anni. Egli ricordava ancora quella lunga figura di asceta che moveva con difficoltà le braccia perché, lo sussurravano tutti, le portava incatenate da cilizi ; che regalava medagline e immaginette ai fanciulli più buoni; che si segnava molto spesso sul petto e sulla fronte. Ricordava ancora qualche sua battuta.

Una volta che li aveva esortato a dare se stessi a Gesù, interrompendosi, cominciò a interrogarli: « E voi, cosa date a Gesù ? ».

Risposero in coro: «Una preghiera...; un fioretto...; una elemosina...; una comunione...».

« No, no » riprese il santo scuotendo la testa, « non basta, dovete dar tutto, tutto, anima e corpo, e fin d'adesso che siete piccoli». Ma durante le lunghe giornate correva alla ricerca delle anime. Non trascurava i poveri, gli umili, gli abbandonati. Dava loro un sorriso, una parola buona, un'elemosina. Una volta fu visto condurre un povero fin sulle soglie del vescovado, ivi cavarsi le scarpe e consegnargliele.

L'attività maggiore era però sempre la ricerca delle miserie morali che nascono dal peccato. Le scopriva con intuito infallibile e la scoperta del male era il primo passo verso la salvezza del peccatore. Una volta convertito, lo indirizzava al canonico Rossi, o al padre Fiocchi.

Un giorno s'incontrò con un gentiluomo: se ne veniva avanti con la spada al fianco, i capelli arricciolati sulle tempie, pettoruto come un conquistatore. Era un miserabile e fingeva d'ignorarlo. Ma ci pensò Gerardo a strappargli la maschera dal volto in sussiego « Figlio mio, tu vivi in peccato e perché vuoi morir dannato ? Confessati il peccato che hai taciuto per tanto tempo al confessore». L'esordio era sempre quello : una parola affettiva in cui ricorrevano spesso gli appellativi sacri di figlio e di sorella, resi più dolci dal calore della sua anima; poi la rivelazione del peccato e l'esortazione alla penitenza. La quale appariva facile dopo la parola infuocata del santo, che spezzava tutti gli ostacoli. Perfino quello delle volontà inveterate nel male. Spesso erano i parroci, erano i confessori che gli inviavano questi peccatori induriti e caparbi ed egli glieli rimandava, a sua volta, dopo aver piegato con la grazia le loro volontà ribelli. Perfino alcuni gentiluomini, tronfi dei natali e chiusi a ogni senso di carità e giustizia, furono tocchi da quelle parole e cambiarono completamente vita.

Ma il fatto più strepitoso avvenne nella persona di una donna che passava la sua giornata da una chiesa all'altra, sempre la prima a ogni predica, a ogni esercizio devoto. Gerardo l'incontrò mentre saliva le scale di una casa ed ella fu felice d'intavolare con lui una conversazione spirituale, ma venne bruscamente interrotta: « Come fai a far la devota tu che da molti anni ti confessi e ti comunichi sacrilegamente ? Questi e questi peccati perché non glieli dici mai al confessore ? Va, va, confessati bene, se non vuoi morir dannata ».

La povera donna ebbe appena la forza di correre nella chiesa degli Agostiniani e farsi chiamare maestro Martino, suo confessore « Padre, Padre, per carità, aiutatemi, son dannata! Voglio farmi una buona confessione generale perché mi trovo imbrogliatissima di coscienza!».

« Ma sei pazza? Sono tanti anni che ti confessi regolarmente ogni settimana e adesso che ti salta in testa? Stai tranquilla, ti conosco molto bene ».

« No, non è vero, sono in peccato. Me lo ha detto fratel Gerardo ! Mi ha detto che, se non mi confesso, son dannata!».

Al nome di Gerardo, maestro Martino perse il lume degli occhi e la respinse sdegnato. Questo sì che era troppo ! Dove mai si era visto che un laico ignorante s'andasse a intromettere nelle cose di coscienza, turbando la pace delle anime timorate di Dio ? Costui era, per lo meno, un impertinente, un avventato, un pazzo da legare. L'autorità ecclesiastica non poteva, non doveva permetterlo. Assolutamente. Così diceva ai colleghi, sbuffando come un mantice, mentre la povera donna, sempre più sconvolta, sentendosi in disgrazia di Dio da almeno dieci anni, andava a gettarsi ai piedi del canonico Rossi, riacquistando la pace. La cosa non sarebbe finita così presto, se lo stesso canonico, col permesso della penitente, non avesse manifestata la verità, imponendo silenzio al religioso agostiniano.

Con le conversioni, andarono, come sempre, congiunti le profezie e i miracoli. I seguenti sono narrati dal Tannoia.

Il chierico Michele di Michele era a letto divorato dalla febbre. Dopo il medico, fu chiamato Gerardo. Egli si fermò a guardare quella bianca figura di adolescente affondata nei guanciali col volto inerte, ombrato da una leggiera peluria ; poi alzò gli occhi al cielo e pregò. Infine tastandogli il polso: « Che febbre, che febbre », disse sorridendo, « voi state bene ! ».

E il medico, tornato poco dopo, lo trovò guarito.

Ma la guarigione non doveva essere fine a se stessa: mirava a conquistare quest'anima ardente, nata per l'apostolato missionario. Gerardo glielo rivelò esplicitamente

« Voi sarete dei nostri».

« Lo sarò », rispose, « quando toccherò il cielo con la mano ! ». Sacerdote sì, pensava; ma farmi missionario, abbandonare la famiglia e la Patria, questo proprio non mi va. Perciò la sua risposta fu piena e precipitosa. Ma non aveva fatto i conti con la prepotenza della grazia. Da quel giorno, infatti, cominciò a notare in se stesso il sorgere di un nuovo desiderio sempre più esplicito, contro cui reagiva con stizza, quasi con furore. Cercò di distrarsi ma si vedeva sempre davanti i missionari redentoristi, mentre una voce interna lo invitava a seguirli. Si rivolse al vescovo, ma questi, spaventato dal pericolo di perdere un giovane di belle speranze, cercò di dissuaderlo. Si rivolse a sacerdoti e religiosi e i primi cercarono di rimuoverlo dal suo proposito, i secondi di attirarlo nel loro Istituto, ma tutto fu inutile. Quattro mesi dopo, il giorno dell'Immacolata, egli vestì la divisa dei Redentoristi che onorò fino alla morte con zelo indefesso e santità di vita.

Coi primi di agosto, Gerardo tornò a Deliceto, in tempo per ascoltare una triste notizia che gettò nello sgomento l'intero Istituto la sera del 5 agosto il padre Cafaro fu colto da un febbre epidemica talmente violenta che fin dall'inizio le sue condizioni apparvero disperate. Sant'Alfonso ordinò messe e preghiere a tutte le case; spedì corrieri a tutti i monasteri di sua conoscenza, raccomandando suppliche continuate a Dio per strappare dalla morte colui che considerava giustamente la colonna della congregazione nascente; ricorse anche a tutti i rimedi umani. Inutilmente. Il male progrediva ogni giorno tra la costernazione del fondatore che continuava a confidare contro ogni speranza. Il 9 agosto scriveva al padre Giovenale, ministro di Caposele : « Considerate come stiamo afflitti, e specialmente io che sto come stolido, ma non ho perduta ancora la speranza che Mamma mia ce lo voglia lasciare a gloria di suo Figlio» (Lettere, 1, 226).

Invece i disegni di Dio furono differenti, perché il padre Ca-faro, il 13 agosto, all'una pomeridiana « con una pace di paradiso, tenendo gli occhi rivolti al Crocifisso, tra le lacrime dei suoi Confratelli, rende a Dio l'anima benedetta» (Sant'ALFONSO : Vita del Padre Cafaro. Roma, 1894: pag. 54). Aveva quarantasette anni.

All'udire il triste annunzio, Sant'Alfonso esclamò : « Sempre sia adorata ed abbracciata la divina volontà! » (Lettera al padre Giove-nale del 14 agosto, I, 227). E per consolarsi della perdita, compose la celebre canzoncina: « Il tuo gusto e non il mio - amo solo in te, mio Dio ».

Non sappiamo le reazioni di Gerardo. Secondo una certa tradizione, egli seppe il beato transito direttamente da Dio. Si dice infatti che in quel punto medesimo, mentre si trovava a ricreazione coi confratelli, parve come assopito : lo sguardo vagava nel vuoto, seguendo qualche cosa che saliva nel cielo, terribilmente infuocato. Gli dissero: « Che hai ? Ti senti male ? ».

Ed egli: « Contemplavo l'andata in cielo del padre Cafaro al quale è riserbato un posto vicino a San Paolo, perché predicando continuamente con zelo e caldo amore, seppe guadagnare molte anime a Gesù Cristo».

E, qualche giorno più tardi, parlandosi della dipartita del grande missionario, se ne usci col seguente elogio: « Don Paolo è un gran santo e gode Iddio poco discosto da San Paolo, perché ha sofferto i tormenti che soffrì San Paolo per gli stimoli della carne » (TANNOIA, o. c., pag. 138-139).

Tale pena era nota solo a Sant'Alfonso suo direttore di spirito che, quattordici anni più tardi, scriverà di lui: « Negli ultimi anni di sua vita ebbe una prova la più penosa che possa patire un'anima che conosce ed ama Dio. Il sigillo al quale mi obbligai, non mi permette di manifestarla; ma se potessi scriverla, farei muovere a compassione, per così dire, anche le pietre» (o. c., pag. 26).

Gerardo l'aveva già vista in Dio al quale ogni segreto è manifesto.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021