Erta scabrosa
CAPITOLO XXV
Ascoltata la dura sentenza con religioso rispetto, il "reo" rimase apparentemente sereno, ma in realtà sentiva il bruciore della profonda ferita, che le parole del Fondatore gli avevano scavata sul cuore sanguinante.
Veramente il divieto di uscir nel mondo gli rincresceva soltanto perché si vedeva preclusa la via all'apostolato, ma perché abituato a considerare in tutti gli avvenimenti le disposizioni di Dio, riflettè che forse la sua missione era finita per la sua incapacità e inesperienza. Ma nel sapersi privo della Comunione, l'anima sua agonizzava perché senza Gesù, il suo divin Confidente e Amico, come sarebbe potuto vivere?
Dacchè il Santo non viveva che per Gesù, per amarlo e servirlo con la massima fedeltà e impegno, come avrebbe potuto, da solo, progredire nella santità così ardua e invisa alla natura umana decaduta? La fame del "Pane angelico", il quale costituiva il suo quotidiano "viatico" indispensabile per non venir meno lungo il faticoso cammino della vita, come si sarebbe potuta saziare altrimenti? Dopo avere assaggiato la dolcezza di quel "Pane " a lui offerto, per la prima volta dal glorioso Arcangelo, come dimenticarne la ineffabile soavità e privarsene chissà mai per quanto tempo?
Da allora in poi avrebbe dovuto limitarsi a sostare soltanto presso il tabernacolo chiuso, senza speranza ch'esso si riaprisse per lui così affamato di Gesù. Che giorni avrebbe quindi trascorsi dalla data della sua grave condanna? Più che giorni, essi si sarebbero potuti considerare notti insonni senza stelle: notti di tempesta, di tristezza, di agonia.
Convinto di essersi reso indegno della Comunione per incorrispondenza alla grazia, Gerardo diceva tra sè:
-Il Signore vuol punirmi del mio poco amore e mi fugge, ma io non Lo lascierò mai uscire dal cuor mio ...
Ecco quindi il segreto della sua eroica fermezza e pazienza, durante la immane prova: la ferrea volontà di tener chiuso nel proprio cuore Gesù, che prima vi entrava ogni giorno sotto le specie sacramentali per rinnovargli la gioia di sentirselo vicino e parlante, Visitatore graditissimo, umile e accondiscendente benchè Sovrano, Padrone assoluto ed esclusivo delle sue facoltà.
Per assicurarsi la diuturna e continua presenza del grande Amico e confidente nel suo cuore, il Majella raddoppiava le austerità per commuovere così il sensibile Cuore del divino Ospite ed esprimergli, con le pene volontarie, i sentimenti di tenerezza celestiale, che prima provava durante i quotidiani incontri con Lui. Abbreviò anche il sonno e, durante le veglie, perché non poteva avvicinare il tabernacolo, usciva all'aperto per contemplare il firmamento, che gli parlava di Dio, della sua grandezza e sapienza. Voleva convincersi che, nonostante la tremenda prova, il Signore lo amasse ancora anche se indegno, schiacciato sotto il peso di un'accusa atroce e disonorante .
Ma perché non protestare la propria innocenza, dacchè aveva sicura coscienza di non essersi macchiato di ciò, di cui lo si incolpava così ingiustamente? perché non richiedere le precise prove della sua presunta colpevolezza? Aveva sempre agito alla luce del sole; si era sempre comportato con tutti angelicamente. Nessuno quindi avrebbe potuto, in coscienza, gettargli addosso il fango obbrobrioso, di cui egli non conosceva neppure il ripugnante aspetto, tanto era alieno da sozzure innominabili.
Eppure un'abbietta sua beneficata, indegna della sua considerazione anche perché infedele alla grazia : una giovane maliziosa e spergiura aveva osato incolparlo di mancanze nefande e continuava a confermar tali accuse quantunque calunniose e assolutamente infondate. Non restava quindi che difendersi, gridare la sua innocenza dinanzi al Cielo e alla terra': giurare dinanzi al Fondatore, che urgeva confondere la vile calunniatrice ed era giusto restituirgli l'onore così compromesso e al quale egli aveva sacrosanto diritto.
Invece no! Gerardo non parlerà per scolparsi e continuerà a vivere tra i sospetti di quanti prima lo stimavano come santo; sopporterà in pace e in silenzio l'umiliazione di essere considerato come indegno di vivere in Comunità o almeno come un miserabile che soltanto per la clemenza del Fondatore non era stato ancora dimesso. Mentre gli altri confratelli laici o studenti si accostano alla sacra Mensa, egli solo, l'indegno sul quale si addensa la cupa ombra della calunnia e del sospetto, sarà escluso da quel dolce Convito, che prima costituiva il suo incanto e la sua vita.
Ma in questo modo, il Santo manifesterà la sua incrollabile fiducia in Dio che vede la realtà delle cose, che gli legge nell'anima umiliata e sul cuore esulcerato; in Lui che lo riconosce innocente e quindi rivelerà a tempo opportuno la vera grandezza del Santo, di cui metterà in evidenza l'invitta pazienza, la granitica fortezza, la profonda umiltà.
Dacché il Majella ha una illimitata fiducia nella Provvidenza, che tutto dispone per il suo maggior bene, si abbandonerà a Dio, tra le sue braccia paterne, sempre disposto a fare la sua adorabile Volontà, sicuro ch'Egli farà luce dopo il temporaneo tenebrore della prova, se ciò ridonderà alla propria gloria e a bene dell'anima da Lui provata per saggiarne l'eroica fortezza. Nonostante la sua rassegnazione, nel doversi privare però della Comunione, Gerardo provava il massimo cruccio. Eppure, dacchè anche tale privazione era disposta da Dio, era deciso, come diceva egli stesso, "di morire sotto il torchio della divina Volontà".
Invitato da un celebrante a servirgli la Messa, il Majella rispose: -Non mi tentate: altrimenti vi strapperei l'Ostia dalle mani.
-Ma come puoi restar senza Comunione? -gli domandò allora il confratello.
-Che volete... -rispose malinconicamente l'interrogato. -Me la passo nella immensità del mio caro Dio.
A misura quindi ch'egli veniva purificato dalla tribolazione, Iddio lo ammetteva alla contemplazione per pascerlo, come gli Angeli, dei suoi attributi divini.