Una bocca di paradiso
Capitolo XXX
Intanto a Lacedonia la Nerea Caggiano non trovava pace. Non la trovava da quando l'invidia e tutte le passioni che fanno capo alla gelosia l'avevano spinta a calunniare il suo benefattore. Forse da principio non si era resa conto della gravità del suo atto; forse aveva creduto che tutto si sarebbe risolto con l'allontanamento di Gerardo dalla città. Ma quando cominciò a sentire le gravi sanzioni inflitte alla vittima innocente, allora svanì la magra soddisfazione iniziale, e, rosa dal rimorso, si presentò al confessore con una lettera di ritrattazione integrale.
La notizia commosse profondamente il fondatore e quanti co-noscevano la santità del calunniato. Commosse specialmente il grande amico di Gerardo, padre Margotta, uomo di austeri costumi e santa vita, ma irrequieto di carattere, tormentato di coscienza, con una punta di insofferenza verso se stesso e gli altri. Apparteneva anche lui alla casa di Caposele, ma faceva spesso la spola tra Napoli e Pagani per il disbrigo delle sue funzioni di procuratore dell'Istituto. A Na-poli alloggiava fuori Porta S. Gennaro, al Sottoportico Lopez, angolo di Via dei Vergini, in un appartamento del palazzo Liguori che il fondatore aveva messo a disposizione dei congregati. Vi conduceva una vita di tale sacrificio che spesso si sfamava mendicando una mi-nestra alla porta del collegio dei Geromini coi pezzenti della strada.
Ora il padre Margotta, giunto a Pagani dopo la ritrattazione della Nerea, quando l'ambiente era pieno di ammirazione per Ge-rardo, volle tentare un colpo presso il fondatore. Cominciò col par-largli delle virtù eccezionali dell'umile Fratello, studiando l'effetto che le parole producevano sul suo interlocutore. Questi ascoltava a capo chino, corrugando ogni tanto l'ampia fronte sfuggente sotto i radi capelli. Poi, fissandolo coi suoi piccoli occhi socchiusi dietro le forti lenti, disse: « Ho conosciuto le virtù di questo Fratello. Se altre non ne avesse, mi basterebbe come si è comportato in questa cir-costanza ».
Era il momento giusto e il padre Margotta seppe coglierlo : « Se V. Paternità lo permettesse, vorrei condurlo con me a Napoli. Oltre tutto, potrebbe servirgli di svago ».
Ma internamente pensava: « Potrebbe sollevarmi dalle mie tri-bolazioni ». Da quelle tribolazioni divenute ormai intollerabili. Avuto il consenso, si affrettò a scrivere a Caposele e, verso la metà di luglio, Gerardo era a Pagani. Vi tornava con la stessa calma e giovialità con cui n'era partito un mese prima sotto il peso dell'accusa. Nessun segno di soddisfazione o di gioia. Solo un sorriso d'indifferenza verso chi si congratulava con lui. Qualcuno se ne me-ravigliò : « Ma come, non te ne importa ? Eppure si tratta di te, del tuo onore! ».
Ed egli allora rispose come nei mesi difficili della prova: « La mia causa è nelle mani di Dio. Ciò che Lui dispone, è sempre il meglio per me».
Sant'Alfonso questa volta lo accolse coi segni di una gioia con-tenuta, ma cordiale, trattenendolo a lungo colloquio. Prima di con-gedarlo, gli espresse la propria meraviglia perché non si fosse la-sciata sfuggire una sola parola di giustificazione.
La risposta è di quelle che scolpiscono un'anima per l'eternità « E come avrei potuto farlo, se la regola proibisce di scusarci e vuole che si soffra in silenzio qualunque mortificazione ? ».
«Però», riprese confidenzialmente Sant'Alfonso, «non potete negarmi che vi siete rattristato nel vedervi privo della comunione! ». « Io ? », rispose Gerardo, « io rattristarmi ? E perché ?... Se era Lui che non voleva venire da me ? ».
Sono le ultime battute dello scontro tra due santi, provocato da elementi estranei alla loro volontà, ma favorito da due caratteri in molti punti antitetici. La natura rimane intatta accanto alla grazia per giuocare il suo ruolo di primaria importanza. L'essenziale non è di non errare, ma di saper riparare i propri errori, anche involontari. E questo va ascritto a merito di Sant'Alfonso.
Passeranno quindici mesi e il giudice severo di ieri diventerà il primo apologista dell'umile accusato. Lo definirà un nuovo San Pa-squale Baylon per la larga scia dei miracoli che diffondeva all'in-torno ; e ne propagherà le immagini fatte stampare dall'amico don Benedetto Graziola. Molti anni più tardi, sul letto di morte, i suoi religiosi gli presenteranno ancora una volta l'effige dell'umile Fratello : « Raccomandatevi a lui : fa tanti miracoli ! ».
Ma il fondatore, ormai decrepito, tentennerà la testa incollata sul petto, come per dire: « Non è più tempo di miracoli questo. Sento la voce di Dio che mi chiama». E andrà a ricongiungersi nel cielo dei giusti col suo grande figliuolo spirituale.
Il campagnolo che s'inurba ha sempre suscitato il riso dell'os-servatore smaliziato : tanto è divertente con quegli occhi smagati e quel naso all'aria ! Ma s'inganna chi crede che il nostro Gerardo abbia mostrato la minima sorpresa nel passare dagli abituri della Lucania alla superba metropoli che allora figurava tra le città più cosmopolite d'Europa. La Napoli del Settecento era ravvivata da un soffio d'Illuminismo romantico che allineava sulle sue strade mo-numenti fastosi, ricalcati sui modelli greco-romani, venuti in luce dagli scavi di Ercolano e di Pompei. Nelle nuove vie e negli antichi angiporti si rimescolavano le ricche livree di illustri famiglie e i cenci della plebaglia spiantata. E l'animazione era sempre nuova, varia e ricca di sorprese, tanto da giustificare il proverbio del tempo : « Vedi Napoli e poi muori! ».
Ecco invece come il santo annuncia alla madre Maria di Gesù la sua nuova destinazione: « Io mi trattengo in Napoli per compagnia del Padre Margotta; ed ora più che mai me la scialo col mio caro Dio! ».
Ora più che mai! Proprio a Napoli, ha ritrovato i tempi della sua giovinezza, quando poteva trattenersi con Dio, senz'altra preoc-cupazione che di amarlo immensamente. Il da fare era ben poco con due persone che si contentavano di tutto. Il padre Margotta tornava a casa nelle ore più impensate e chiedeva solo se c'era qualche cosa da portare in bocca. Delle volte non trovava nulla e il pranzo si conchiudeva in due battute: « Cosa c'è da mangiare ? ».
E Gerardo : « Quello che avete ordinato. Niente avete ordinato e niente trovate».
Così il nostro santo ebbe tutta la libertà di correre di chiesa in chiesa dove erano di turno le Quarantore, finché non fu rivelato dalla sua carità. Allora, addio libertà, addio riposo! Egli si lasciò prendere nelle spire di occupazioni sempre nuove che non gli lasciarono un minuto di requie. Nella lettera del 28 luglio a suor Maria Celeste dello Spirito Santo, dirà : « Mi dispiace che non vi posso scrivere a lungo, per tanta pressa che ho. Perché ho da uscire e sono aspettato in Chiesa. Sia fatta sempre la Divina Volontà!» (o.c., pag. 36).
La giaculatoria, più che le parole, lascia capire quanto fosse as-sorbente il suo lavoro.
Aveva cominciato col visitare, a pochi passi da casa, l'ospedale degli Incurabili, dove si accatastavano i mali più ripugnanti che non trovavano rimedi nell'arte sanitaria. Il vasto cortile era abitato dagli infermi di mente : una folta colonia che versava nelle peggiori con-dizioni morali. Gli infelici, gettati alla rinfusa in ambienti malsani, a contatto solo con infermieri aguzzini, finivano per perdere le ul-time tracce della loro umanità, ed offrivano lo spettacolo della depra-vazione più immonda.
è merito eccezionale di Gerardo l'aver compreso la capacità di redenzione di quegli sventurati e l'aver tentato efficacemente la tattica della carità per penetrare nei loro cuori. Passava con disin-voltura dall'uno all'altro, con uno scherzo, un saluto, un incoraggia-mento. Presto si formavano intorno a lui capannelli di nasi all'aria e di bocche semiaperte : ascoltavano, ridevano, ripetevano le sue parole, le sue preghiere, i suoi segni di croce. Capivano ? Non ca-pivano ? Gerardo non se lo domandava: a lui bastava di fare qualche cosa, affidando il resto alla misericordia di Dio.
Fra una preghiera e l'altra, scivolava leggiero tra i gruppi, af-fondando la mano nei tasconi rigonfi e tirandone fuori chicche e lec-cornie. Gongolava quando quei poveri infermi schioccavano rumo-rosamente la lingua e stendevano ancora la mano. Alla fine, pren-deva il Crocifisso e con gesti e parole alla buona li esortava a pic-chiarsi il petto, ad alzare gli occhi al cielo. Dava anche immagini di santi e le baciava alla loro presenza, invitandoli a fare lo stesso. Nei momenti di lucido intervallo, quando i pazzi perdevano la fissità vitrea dei loro occhi e s'intenerivano e piangevano, faceva loro ri-petere a voce alta l'atto di dolore e li lasciava consolati.
Da allora quei miserabili lo considerarono come il loro amico e protettore. Quando lo vedevano spuntare nel cortile assolato, gli correvano incontro e gli facevano gran festa. Parlavano tutti insieme: « Padre mio, tu ci consoli! Noi vogliamo star sempre con te. Non lasciarci più ! Hai una bocca di paradiso ! ».
Una volta giunsero col loro entusiasmo fin quasi a soffocarlo. L'avventura la raccontò Gerardo stesso al padre Caione con la solita gaiezza spiritosa.
Quel giorno egli era stato più attivo del solito, distribuendo frutta e zolle di zucchero, immagini e sorrisi luminosi. Era già sul punto di congedarsi e stendeva le braccia al saluto su di un groviglio di mani convulse, quando si sentì afferrare stretto da due pazzi. Cercò di convincerli con le buone : niente. Cercò di svincolarsi ; peggio ancora: quelle braccia lo stringevano come branche di acciaio. Tornò a raccomandarsi di lasciarlo andare, promettendo che sarebbe tor-nato. Ma quelli insorsero, serrandolo sempre più nelle loro spire: « Nossignore, non ti vogliamo far partire più da noi. Devi restar sempre con noi. Non troviamo un altro che ci consoli come te. Quelle cose che tu ci dici, non ce le dicono gli altri. Hai una bocca di paradiso ».
Stava per essere soffocato, quando un pazzo nerboruto si fece addosso ai compagni, gridando loro: « Olà ! Non tanta confidenza col confessore dei pazzi ! ».
E, allargando insieme le braccia, sferrò una doppietta di pugni sul loro petto, obbligandoli a sciogliere la stretta attorno al mal-capitato. Il quale, ne siamo certi, il giorno dopo tornò come prima, tra i suoi amici.
Dall'ospedale degli Incurabili passò negli oscuri bassifondi tra i lazzaroni, gli scugnizzi, gli avventurieri e gli appaltatori d'imprese rischiose, i cosiddetti : guappi. Dappertutto lasciò i segni del suo passaggio nelle conversioni numerose.
Dalla strada penetrò nell'ambiente degli artisti. Un giorno pas-sava infatti in San Biagio dei Librai, rasente le mura accaldate dal solleone, quando i suoi occhi caddero su alcuni busti di santi, schie-rati dietro la porta. La porta si apriva in un antro buio, invaso dal fumo e dall'acre odore di colla e cartapesta.
Gerardo si fermò a contemplare alcuni busti di Gesù appassio-nato : d'uno in altro, si trovò, senza saperlo, a contatto diretto con alcuni giovanotti che, sotto la guida del maestro, modellavano le im-magini nel gesso ; poi le passavano nella cartapesta e le dipingevano al naturale. I colori sgargianti, gli atteggiamenti enfatici, le espres-sioni violente accennavano a un sentimento più visivo che reale, più eloquente che profondo: Ma al santo quelle figure sembrarono vive e parlanti, perché trovavano una certa corrispondenza coi sentimenti del suo cuore. Perciò cominciò ad interessarsi di colla, pennelli e colori, e a chiedere spiegazione d'ogni cosa. Infine prese in mano i ferri del mestiere e si mise alla scuola col più grande entusiasmo. Poteva finalmente esternare quella visione di Gesù sofferente che dall'infanzia gli parlava nel cuore, guidando la sua mano nella co-struzione di altarini e sepolcri. L'adulto ritrovava così la linea di sviluppo della sua fanciullezza. Era lo stesso bisogno del sensibile che accendeva la sua fantasia, avvalorava il suo apostolato e lo spin-geva a santificare un ambiente che è quasi sempre il più abbando-nato. L'umile Fratello ha compreso che il mezzo migliore per giun-gere agli artisti è quello di interessarsi del loro lavoro, apprezzarlo e magari esercitarlo. L'averlo compreso è la sua gloria.
Ecco, dunque, il nostro santo passare ogni giorno dalla via saet-tata dal sole di agosto nell'antro nero degli artisti. Sedeva sul suo sgabello e guardava sospirando quelle figure allineate sul bancone ; poi aggiustava alle forme i fogli di cartapesta e l'immagine sorgeva sotto i suoi occhi. Ancora alcuni tocchi di colore e sembrava ani-marsi di vita interiore. Era un lavoro-contemplazione. Una contem-plazione plastica che ricostruiva le cose vissute dalla sua fantasia, le amava e le palpava con la sua sofferenza, incurante delle lunghe ore di applicazione, della vernice che inzaccherava le sue vesti, del fumo che si depositava sulla sua faccia estenuata. Una vera mac-chietta d'artista sognatore che doveva destare l'ilarità dei monelli.
Un giorno che era alle prese con colla e colori nella bottega di San Biagio dei Librai e la sua faccia spiccava più giallastra tra le spire del fumo, all'improvviso, una mano gli roteò sugli occhi; poi due dita si calarono sulle sue palpebre; due altre gli schiacciarono il naso. Prima di rendersi conto di ciò che accadeva, udì la voce di un monello che diceva tra uno sberleffo e l'altro: « Gioia mia, quanto sei bello!».
Fu un attimo, perché i padroni si gettarono addosso allo scu-gnizzo che se la diede a gambe, ma Gerardo era rimasto tranquillo al proprio posto, perduto nel suo sogno di artista.
Dagli artisti passò ai librai e ai santari. Col pretesto delle com-pere, si metteva a contatto con commessi e padroni. Poche battute, lì, dietro un bancone, uno scaffale, una statua, e l'esito era sicuro.
Un giorno entrò col sacerdote don Francesco Colella in un negozio di articoli religiosi. Mentre il compagno esaminava medaglie, corone e crocifissi, il proprietario attaccò discorso di cose spirituali tattica non insolita tra simili commercianti, forse per convincere l'acquirente della loro onestà. Ma con Gerardo non servivano chiac-chiere. Lo chiamò in disparte e gli pose sotto gli occhi il quadro poco edificante della sua vita. Tra l'altro, gli ricordò un peccato molto grave e segreto ; poi, esortandolo a vera penitenza, uscì dal negozio.
Il padrone, costernato e sconvolto, si accostò al sacerdote e gli disse: « Questo Padre deve essere un gran servo di Dio ! ».
« Lo è davvero!» rispose.
« Me ne sono accorto. Pensi: mi ha manifestato un peccato che non lo sapeva nemmeno l'aria!».
Questi contatti quotidiani non potevano esaurirsi nelle poche parole scambiate in un negozio o sul marciapiede, tra le spinte dei passanti: richiedevano altri colloqui fatti in luoghi e tempi più op-portuni. Perciò ogni giorno l'ospizio rigurgitava di persone d'ogni condizione sociale, tra cui sacerdoti e religiosi. Egli non si rifiutava a nessuno, senza risparmio di tempo e di fatica, nonostante il caldo soffocante di agosto. Per fortuna ai primi di settembre, gli venne in aiuto il Padre Margotta, conducendolo a Caposele, in compagnia dei pellegrini che affluivano per la sagra della Natività di Maria.
Quante gioie in quel ritorno ! Lo attendeva a braccia aperte l'indimenticabile don Benedetto Graziola, ospite in collegio per un periodo di raccoglimento e di preghiera. E lo attendeva il nuovo rettore, padre Gaspare Caione.
Era questi un giovane di 32 anni, laureato in diritto all'univer-sità di Napoli e da soli tre anni nell'Istituto, ma già ammirato da tutti per il felice connubio di natura e di grazia, d'intelligenza e di carattere. Forse un po' freddo e calcolatore, ma prudente nelle im-prese, costante nelle iniziative, sempre padrone dei propri nervi, nonostante le molteplici occupazioni. Sant'Alfonso aveva fatto un vero sacrificio nel privarsi della collaborazione diretta di un Padre tanto eccellente, ma non poteva scontentare l'arcivescovo di Conza affezionatissimo all'Istituto nella cui diocesi era la casa di Caposele da lui fondata. L'evento corrispose alle aspettative, perché il padre Caione, nei quasi venti anni che diresse quella comunità, operò un bene immenso, conquistandosi larghe simpatie in ogni strato della popolazione e riscuotendo grande stima nelle alte sfere ecclesiastiche. Poi passò nel collegio di Benevento dove raccolse una ricchissima collezione di numismatica, andata a finire nelle mani rapaci del Tal-leyrand. Ma la sua gloria maggiore è quella di essere stato l'ultimo superiore del santo e d'averci lasciato le uniche notizie autentiche della di lui santità.
Ma con la gioia non venne a Gerardo il desiderato riposo. Anzi il lavoro si accrebbe durante la sagra dell'otto settembre per i pelle-grini affluiti da tutta 1'arcidiocesi e dai luoghi dove egli aveva eser-citato il suo apostolato o se ne era diffusa la fama. Dovette farsi tutto a tutti per portare tutti a Dio. Da tale ansia di bene fioriscono anche questa volta i miracoli.
Una mattina incontrò la signora Emanuela Vetromile che sem-brava sotto il peso di una grave sciagura. Era venuta da Muro nella città natale di Caposele, per partecipare alla festa, ma ormai la festa si andava trasformando in mortorio per la malattia di una nipotina. Ora si recava in chiesa per raccomandarla alla Madonna. « Sì, sì, prega pure la Madonna », le rispose Gerardo, « ma non temere. Appena torni a casa, le farai una croce sul petto in nome di Dio e sarà guarita».
Dopo le feste, come sappiamo da una lettera di S. Alfonso (Let-tere, I-268), il santo ebbe l'ufficio di economo con la sorveglianza della fabbrica e dei campi. Di sua volontà, si assunse il compito di aiuto infermiere, spinto dal naturale desiderio di sollevare le sofferenze degli altri, specialmente se mortali. Allora, per prima cosa, invocava sull'infermo l'aiuto divino. Un giorno che tratteneva in giardino un giovanetto malato del luogo, un certo Nicola Benincasa, questi, vinto dall'amabilità del santo, tra se stesso diceva: « Gerardo, fra-tello mio, tu sei così buono e fai tanti miracoli per gli altri, possibile che proprio per me non fai nulla ? Perché non preghi Dio anche per me ? ».
« Cosa stai dicendo ? » lo interruppe Gerardo, « come ? Io non prego per te ? Ah no, figlio mio, non è vero. Ma Dio non vuole gua-rirti perché tu non sei per questo mondo ! » E la sua profezia si avverò molto presto.
Ma l'inesorabilità del male, e l'uniformità al volere di Dio, ac-cendevano la sua carità e affinavano le sue premure, quasi volesse compensare l'infermo della brevità dei suoi giorni. Lo seppe il chie-rico Pietro Picone che, consunto dalla tisi, si preparava a volare al cielo da quella stessa casa di Materdomini. Era un angelo e Sant'Al-fonso, pur di salvarlo, aveva deciso d'inviarlo dai migliori professori di Napoli, quando Gerardo venne a prestargli i primi servigi. Tornò altre volte anche nelle ore notturne.
Una sera, verso mezzanotte, l'infermo chiese di lui ; ma il fra-tello assistente credette bene di non disturbarlo. Lo sapeva amma-lato e soggetto agli stessi sbocchi di sangue. Ma, mentre usciva di stanza, ecco incontrarsi con Gerardo che correva al capezzale del malato. Chi lo aveva chiamato ? Solo la sua carità.
Dopo qualche giorno, il Picone non sapeva fare più a meno del santo : tanto che scongiurò il padre Caione di essere lasciato a Caposele vicino a lui, mentre era già pronta la carrozza che doveva portarlo a Napoli.
Un fratello coadiutore, ammalato di una malattia ributtante, confidava nello stesso tempo al superiore: « Oh Dio, questo Fratello mi sana e mi consola!». E si commoveva fino al pianto.
Quale meraviglia se, dopo tante occupazioni, verso la fine di settembre, Gerardo tornò a Napoli, completamente sfinito ? Solo passando attraverso il cuore di un santo, il dolore diventa gioia per gli altri.