Sotto la verga di ferro
Capitolo VIII
A mezzogiorno di Deliceto, su una piccola spianata che scende a precipizio verso il Carapelle, un torrentaccio silenzioso la maggior parte dell'anno, sorge il collegio di Santa Maria della Consolazione un rude maniero di pietra squadrata, tra le montagne che incombono dall'alto, la pianura che s'apre dal basso e la boscaglia che lo lambisce da più lati. Di fronte, a un paio di chilometri in linea d'aria, quattro cinque per l'antico tratturo che va cresta cresta da una collina all'altra, si drizza il nero castello medievale che domina le casupole del paese, affastellate sui rigonfi del terreno. Sono case basse e sudicie, abitate in gran parte da contadini. « Vi sono poche case civili», scriveva S. Alfonso il 19 dicembre 1744, (Lettere, I, 100) « quasi tutti sono campesi ».
Dal paese a Santa Maria della Consolazione si stende una terra arida e desolata con qualche spruzzo di verde e qualche cappella legata alla leggenda di monaci solitari e di briganti. Ma intorno al collegio, da levante a ponente, come una macchia cupa sul giallo delle argille spaccate dal sole, le querce svettano taciturne, allungando la loro ombra sui greppi solitari. Tra la luce sfacciata dei meriggi e le ombre incerte del mattino, fasciato da una larga barriera di silenzio, rotto solo dallo stormire delle piante e dai campani delle greggi, sorge il collegio, un tempo dei Padri Redentoristi. Era un eremitaggio per anime contemplative e un posto di ristoro ad uso dei missionari spossati dalle campagne apostoliche. Perciò Sant'Alfonso lo aveva accettato verso la fine del 1744 e vi aveva passato due anni tra i più fecondi della sua vita, alternando una pagina di teologia morale con una elevazione mistica; un canto spiegato di gioia coi suoi sospiri di penitente. E i primi compagni avevano gareggiato con lui, flagellandosi aspramente dentro gli anfratti delle rocce e i covili delle fiere, nascosti tra i falaschi e le spine. Tra gli altri si era distinto il padre Cafaro, succeduto a S. Alfonso nel governo della casa. L'osservanza vi fioriva in tutto il suo splendore e guai a chi avesse sgarrato anche di un apice. Si sarebbe attirate le ire del padre Muscarelli, il censore inesorabile d'ogni mancanza da qualunque parte venisse, dai superiori o dai confratelli, tanto che il padre Mazzini avrebbe voluto dargli per stemma una grossa forbice, di quelle con cui si tosano le pecore.
In questa cornice di silenzio, i missionari redentoristi, fedeli al programma del loro fondatore che li voleva apostoli fuori e certosini in casa, si davano ad una vita intensa di raccoglimento e di studio, mentre i fratelli coadiutori accudivano alle faccende domestiche e al lavoro dei campi: specialmente a quest'ultimo. Tale lavoro che, secondo il padre Cafaro, avrebbe richiesto le braccia di cento operai, veniva assolto da pochi coadiutori con l'aiuto di alcuni garzoni. Essi pensavano a dissodare la parte dei campi adiacenti al collegio, mentre la rimanente - ed era la maggior parte - veniva affittata, anno per anno, ai massari, dietro compenso in natura. Forse il compenso non era adeguato, forse i campi non rendevano secondo i loro desideri, fatto sta che i massari non la duravano a lungo e ogni anno risorgeva lo stesso problema delle braccia da lavoro. Il problema naturalmente presentava soluzioni diverse, ognuna delle quali trovava favoreggiatori nella comunità. Il padre ministro Lorenzo D'Antonio avrebbe voluto eliminare i massari, generalmente indolenti e profittatori, prendendo direttamente nelle proprie mani la gestione di tutti i campi. Con tale sistema nel 1747 aveva ottenuto ottocento moggia di grano e quattrocento di avena. Ma il padre Cafaro giudicava tali lavori troppo distrattivi. Egli avrebbe preferito che i fratelli si fossero limitati ai lavori domestici e agli allevamenti di bestiame, lasciando i campi agli affittuari,. anche a scapito del loro rendimento. Perciò più di una volta si era lamentato con S. Alfonso del proprio ministro che aveva « messo la casa sottosopra, sempre con buona intenzione» e che « era troppo sopra i Fratelli». Ma S. Alfonso non dovette dare soverchia importanza a tali rilievi, se nel 1748 sceglieva proprio, padre D'Antonio a sostituire il padre Cafaro, mandato a presiedere la fondazione di Caposele. Il santo voleva dare un nuovo impulso alla fabbrica del collegio che procedeva a rilento e trovò nel padre D'Antonio l'esecutore fedele dei suoi desideri. La costruzione crebbe a vista d'occhio, tanto che il 24 luglio 1749 il padre Muscarelli poteva scrivere al chierico studente Bernardo Apice in Ciorani : « Qui si sta in fabbrica e la casa verrà assai bella, anzi, senza mentire, forse la più bella di quante ne abbiamo ».
Questo era il collegio dove Gerardo venne a trovarsi in quel lontano maggio del 1749, dopo due giorni di viaggio. Le coste all'intorno palpitavano di erbe e di grano; il Carapelle rumoreggiava per le nevi disciolte, cercando di masso in masso la pianura pugliese, tutta un mare di verde e le vette del Gargano brillavano d'una tinta viola. Ma il viaggiatore non partecipava allo spettacolo : stanco e lacero, anelava di rinchiudersi tra quelle mura benedette. Quando varcò la soglia e gli si aprirono davanti quei lunghi corridoi fiancheggiati di celle, li credette il vestibolo del paradiso. Perciò non si lasciò impressionare da qualche saluto poco cordiale, da qualche occhiata significativa, da qualche scrollatina di testa che voleva dire: « E di costui che ne facciamo ? », ma corse in chiesa a gettarsi ai piedi della buona Madonna della Consolazione che aveva esauditi i suoi desideri ; poi baciò e ribaciò le pareti della sua stanzetta e si mise a disposizione dei nuovi confratelli. Un Padre si prese cura della sua formazione religiosa, un fratello coadiutore dell'addestramento al lavoro.
Si cominciò col lavoro dei campi di cui era l'impresario e il factotum fratel Leonardo, un omone tarchiato e nerboruto. Questi guardò con un certo dispetto quella figura mingherlina e mezzo addormentata che gli veniva affidata, borbottando tra i denti: « A che può servire ? Bell'aiuto mi si dà proprio adesso che si avvicina il raccolto ! ». Ma poi si consolò pensando d'aver qualcuno su cui esercitar le funzioni del comando : ci penserebbe lui a svegliarlo e farlo filare. E lo condusse nei campi : gli mostrò con un certo orgoglio quello che considerava il suo regno : le erbe attendevano la falce, l'orzo si avvicinava alla maturazione, e il grano, un grano basso e rado di montagna, cominciava a spigare. Poi lo condusse nell'orto, davanti alla casa, ai margini del bosco. C'era acqua in abbondanza «Acqua di paradiso », scriveva S. Alfonso, «con fontana propria della Madonna e con peschiera, per cui si può adacquare in ogni tempo il giardino e si possono fare delle verdure » (Lettere, 1, 100).
Qui c'era da preparare il terreno per il trapianto degli ortaggi e afferrarono le zappe. Divisero il lavoro a metà ; Gerardo lasciò la scelta al compagno, si fece un largo segno di croce e si curvò fino a terra. Per un po' di tempo non si videro che le schiene ricurve e il lampeggiare delle zappe che incidevano. le zolle cretose, mentre davanti a loro sfilavano i solchi, neri sulla terra bianca. Poi Leonardo si raddrizzò sulle reni spezzate per passarsi una manaccia sporca sulla fronte infuocata, mentre l'altro continuava implacabile a mordere la zolla, sempre curvo sulle esili gambe inarcate. A un certo punto, si raddrizzò anche lui e si guardarono : la faccia diafana del giovane spiccava di fronte alla faccia annerita dell'altro. Gerardo gli sorrise, gli si fece vicino, dicendogli: « Lascia fare a me che sono più giovane ». E di nuovo si curvò sulla zappa. Un altro giorno, impugnò la falce e recise le erbe del prato ; un altro giorno, armato di un lungo falcetto, prese posto tra i mietitori, strinse i mannelli, legò i covoni e li abbicò, sempre ilare, sempre sereno e disinvolto, come se avesse fatto sempre quel mestiere. Con la stessa disinvoltura passò dai campi alla cucina, dal bosco al forno, al refettorio, dovunque lo chiamasse il minimo cenno non solo del ministro, ma del fratello economo.
La sua festa preferita era quando si faceva il pane. Il giorno precedente si recava a far legna nel bosco. Segava i grossi rocchi di quercia, li spaccava a colpi di cuneo, se li caricava sulle spalle e si avviava traballando, per il viottolo scosceso, col viso frustato dai rami e lacerato dalle spine. Quando il fornaio accendeva il forno, egli preparava la farina. Era il lavoro più faticoso e lo voleva per sé. In quei momenti sembrava invasato dalla febbre dell'azione : dimenava le mani in giro come scacciamosche, gridando ai presenti: « Indietro, voialtri, indietro; lasciate fare a me!». Allora si rimboccava le maniche, gramolava rapidamente la farina, la gettava nella madia, la spegneva nell'acqua e l'agitava di sotto e di sopra finché il fornaio non gli gridasse : «Basta! ». Allora imbracciava la pala e calava le pagnotte nel forno arroventato. Insomma: « lavorava per cento ! », scrive con enfasi il Caione.
Nei tempi liberi demoliva il vecchio edificio degli eremiti agostiniani : scardinava le pietre col piccone, le ripuliva dal calcinaccio, allineandole una accanto all'altra. Poi se le caricava sulle spalle e, correndo sulle impalcature sotto un sole assassino, le depositava sui ponti, ai piedi dei muratori. Se il caldo si faceva insopportabile, trovava lavoro per la casa : spazzava i corridoi, aiutava in cucina, correva a rigovernar le bestie, e ilare, cantarellando, afferrava le stanghe della carriuola carica di letame fumante e, dondolando la testa, andava a depositarlo nella fossa comune. Non mancavano lavori più umili in una casa in costruzione, priva dei servizi igienici più elementari, ed egli li voleva per sé, come suo appannaggio regale. Insomma il signor « Fate voi», passando in Religione, era divenuto il signor « Lasciate , fare a me». In questo cambiamento c'è tale miracolo di volontà che sorpassa tutti gli altri miracoli messi insieme.
I confratelli, non sempre giudici disinteressati dei meriti altrui, questa volta si mossero unanimi in suo favore. Lo stesso padre D'Antonio, il martello dei coadiutori, se ne dichiarò soddisfatto. Avrebbe voluto dimostrarglielo in maniera tangibile, ma non ne ebbe il tempo. Infatti, ai primi di ottobre del 1749, dopo il capitolo generale di Ciorani, seguito all'approvazione pontificia della regola, dovette rassegnare la carica nelle mani più esperte del padre Cafaro. Così la Provvidenza riportava l'austero missionario sulle vie del nostro santo, perché, completando l'opera iniziata a Rionero, gli aprisse definitivamente la porta dell'Istituto. E il padre Cafaro fu felice d'interporre i suoi buoni uffici presso il Rettore Maggiore e d'accoglierlo prima tra i postulanti - finora solo impropriamente si poteva chiamare postulante, non essendoci il consenso del Rettore Maggiore -- e poi, dopo breve tempo, tra i novizi.
Da parte sua, Gerardo che, fin dai giorni di Rionero aveva amato il padre Cafaro come il più grande benefattore, ora cominciò a venerarlo come uno splendido modello di perfezione. Da questi sentimenti di giorno in giorno più profondi, maturò in lui una decisione che avrà una portata incalcolabile per la sua formazione religiosa. Giacché la regola gli prescriveva un direttore di spirito; a chi se non a lui avrebbe potuto affidare la propria anima ? Le stesse austerità, lo stesso polso di ferro che avevano un potere repellente per molti, esercitavano sull'umile postulante una speciale attrattiva. Lo seguirà, quindi, con fedeltà assoluta come la voce parlante di Dio e ne subirà l'influsso, ma solo nella maniera consentita dal suo unico Maestro, Gesù : cioè, ricreando liberamente in se stesso quanto apprendeva dalla rude lezione del direttore. Tra i due non ci fu mani affinità o somiglianza: Gerardo sarà sempre il discepolo dalle folate carismatiche, mentre l'altro spicca appunto per una sua monumentalità, temprata da una volontà incoercibile.
Il p. Cafaro, infatti, era uno di quegli uomini eccezionali che sanno unire il fervore dell'ascesi allo zelo dell'apostolo e si fanno ammirare per la ferrea coerenza con cui trattano se stessi e gli altri. Hanno la stoffa dell'eroe e vogliono al loro fianco gli eroi, cioè coloro che sanno imporsi una disciplina di ferro. Confessava egli stesso che sotto la sua direzione pochi la duravano... perché voleva per penitenti solo quelli che avevano intenzione di crepare per l'acquisto delle virtù. Crepare, ecco un verbo che ricorre spesso sotto là sua penna : « Bisogna crepare e schiattare per farci santi », così scriveva al padre De Robertis a Pagani il 17 ottobre 1752. (Epistolae, pag. 61).
Odiava l'educazione molle e sentimentale, le vie nuove della santità; aveva in sospetto certe manifestazioni superiori di fenomeni mistici. Preferiva i sentieri battuti, la classica via purgativa che scarnifica l'amor proprio e le passioni ; la voleva a fondamento di ogni santità, fosse pure la più consumata. L'inculcava ogni momento col suo stile asciutto e scabro, con le sue frasi taglienti e incisive.
Il 20 gennaio 1750 scriveva al De Robertis : « Bisogna crepare per dar gusto a Dio... Abbia uno spirito forte, forte, e non lo spirito tenero. Fortezza e non tenerezza vuole da noi Gesù Cristo ». (Ibid., pag. 36).
Ma la mortificazione esterna non doveva aver per fine se stessa, ma preparare il terreno alla mortificazione interna. L'8 agosto dello stesso anno scriveva al chierico Pasquale Amendolara : «Vorrei che tutto il desiderio della mortificazione esterna andasse a finire alle mortificazioni interne le quali veramente fanno santo ». (Ibid., pag. 39). La mortificazione interna, a sua volta, doveva basarsi sull'umiltà, una umiltà senza attenuanti, senza abbellimenti, senza infingimenti, una umiltà sincera che è consapevolezza della propria miseria fisica e morale. « Mi piacerebbe », scriveva sempre lo stesso anno al chierico Bernardo Apice, « che si formasse una cella immaginaria dentro l'inferno, (se mai si ricorda di averlo meritato), anzi dentro l'abbisso delle miserie dei suoi peccati (se mai ne ha commessi) » (Ibid. pag. 33). L'umiltà doveva preparare il terreno alla fiducia in Dio e la fiducia in Dio doveva avere per linguaggio la preghiera. Perciò nella stessa lettera aggiungeva : « Senza orazione e senza umiltà l'uomo non può mantenersi in piedi nello stato di grazia e di fervore. Umiltà, umiltà : preghiera, preghiera incessante. Chi prega, ottiene. Bisogna pregar sempre. Prego V.R. a pregar sempre e a far sempre il pezzente alla porta della Divina Misericordia ».
E in un'altra lettera dello stesso anno, allo stesso destinatario « Ci vuole orazione... La prego a non cessar di pregare. Questo è il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il centesimo, l'ultimo mezzo per vincere» (Ibid., pag. 35).
Ecco l'uomo chiamato dalla Provvidenza a dare gli ultimi ritocchi alla santità di Gerardo. E dobbiamo riconoscere che assolse il suo compito con mezzi elementari, ma efficaci. Il Caione li riassume in una frase biblica : « lo tenne sotto la verga di ferro, sub virga ferrea ». Non già perché continuasse a giudicarlo inutile e sognatore, come a Muro e Rionero, ma per un motivo opposto, perché si accorse di avere a che fare con un'anima grande che galoppava verso le vette supreme della santità. E se ne accorse molto presto : perciò lo ricevette, facilmente in quello scorcio di autunno del 1749, tra i novizi dell'Istituto.
Il noviziato durava sei mesi, durante i quali, il coadiutore continuava a vestire il giustacuore di postulante - cioè una specie di talare, lunga fino al ginocchio, stretta ai fianchi dalla fascia e chiusa al petto da una fila di bottoni che scendevano verticalmente dal collarino bianco - ed era affidato alle cure speciali di un maestro che aveva l'incarico di addestrarlo alla vita religiosa e sperimentarne il carattere. Trascorso questo tempo, il novizio entrava a far parte della comunità, in una fase transitoria che poteva durare più anni, cioè fino a quando il rettore maggiore decideva di ammetterlo alla professione religiosa. Allora veniva rivestito della divisa dell'Istituto ed iniziava, dopo sei mesi, un secondo noviziato della stessa durata del primo. Tale noviziato si concludeva con l'emissione dei voti. Almeno così si legge nelle costituzioni del 1764 che hanno codificato una prassi anteriore. Possiamo quindi supporre che tale prassi sia stata seguita anche per il nostro santo.
Questo periodo, che è un periodo di prova, sotto la ferrea disciplina del p. Cafaro, divenne un autentico crogiuolo che trasformò l'anima del fervoroso novizio nell'oro fino di Dio. è difficile immaginare a quanti e quali stratagemmi ricorresse il saggio e rude Direttore per abbassarlo e annichilirlo, perché non si accorgesse delle preferenze di cui era oggetto da parte di Dio e continuasse a stimarsi l'ultimo degli uomini e un peccatore inveterato. Alle volte ci sembra perfino spietato. Gerardo che ha dovuto passare per prove spirituali dolorosissime, alternando visioni abbacinanti di cielo e oscurità desolate, nei momenti di maggiore sconforto, si accostava a lui, mendicando un consiglio, un incoraggiamento, una parola qualunque, come una zolla arida e screpolata che reclama la pioggia. Ma questi, appena lo vedeva, prendeva in prestito la maschera della stanchezza e della noia; il contegno di chi non ha tempo da perdere con visionari e con matti, o lo liquidava con poche parole asciutte e sprezzanti. Qualche volta lo scacciava addirittura. Una volta gli disse bruscamente che andasse a raccontar quelle storie a fratel tale, un laico che sapeva maneggiar molto bene scopa e badile e Gerardo, semplice e sorridente, s'introdusse nella stanza del confratello e gli espose per filo e per segno lo stato della propria coscienza, chiedendo consigli e aiuti, mentre l'altro lo guardava trasecolato.
Questa noncuranza, questo disprezzo apparente aumentava lo strazio del povero novizio che si persuadeva sempre più di essere scacciato, perché peccatore e incorreggibile. E allora piangeva e non sapeva darsi pace. Testimone di questi dubbi, di queste angosce, ci rimane una lettera che è stata ritoccata certamente con mano troppo pesante, ma non crediamo alterata nei concetti. Il santo, rivolgendosi al padre spirituale, gli confessa di non aver coraggio di presentarglisi avanti « perché ho capito che vi dispiace di vedere la mia presenza ; ed io, per non disturbarvi, mi privo delle vostre sante benedizioni, mentre io ho bisogno di voi per la guida dell'anima mia. Padre mio, voi siete così caritatevole, pieno di bontà, benigno e amabile con tutti: solo di me vi siete annoiato. Non so perché: che cosa vi ho fatto che mi siete così contrario ? Forse sono i miei peccati ».
Sotto una tale direzione, Gerardo s'inserì nella vita dell'Istituto, senza perdere, anzi approfondendo la propria fisionomia interiore e disciplinò le sue energie spirituali esuberanti, secondo le norme volute dalla regola. Ma l'uniformità esteriore non lo adeguò alla massa; lo aiutò solo a concentrare la propria individualità nel fondo dell'anima dove è il regno di Dio. In questo senso, la coartazione esterna lo potenziò all'infinito. Ecco perché Gerardo fece il proposito eroico di non tralasciare nessun atto comune. Quando ne fu impedito dal lavoro o dall'apostolato, supplì nelle ore notturne o nel tempo della siesta pomeridiana.
Eppure nessuna formalizzazione in lui che rimase sempre il santo dalle intuizioni rapide e scattanti, dalle folgorazioni impetuose e dalle esecuzioni immediate. Si è detto che sapesse a memoria le proprie regole e potrebbe esser vero, ma nessuno più di lui ha saputo superar la lettera con l'ardore dello spirito, bruciar l'involucro esterno per attingere il midollo che è fermento di vita. Così ha conciliato il massimo della libertà interiore con la cieca osservanza della lettera. Perché la lettera in lui era divenuta spirito: la lettera scritta della regola e la lettera orale del superiore. L'una e l'altra, specialmente la seconda, lo metteva in contatto diretto con Dio : così volava all'azione prima ancora che la riflessione avesse sottoposto all'analisi i termini del comando. E non di rado l'azione veniva autenticata dall'intervento diretto del cielo.
Con questo spirito, leggiamo quanto segue.
Un pomeriggio d'inverno, durante la ricreazione, il superiore disse a Gerardo di portare della neve in sagrestia: avrebbe voluto osservarla da vicino. Egli corse subito in giardino, ne fece una brancata e la depositò sul bancone dei paramenti; poi si mise ad attendere la visita del superiore. Visto che non veniva, corse a chiamarlo «Fate presto, se volete vederla. Altrimenti si scioglie tutta ».
« Dove l'hai messa ? ».
« In sagrestia, sul bancone ».
Il superiore si diede una manata sulla fronte: «I miei poveri paramenti... come li avrai conciati!».
E si precipitò sul posto. La neve si scioglieva lentamente, sgocciolava per terra in brevi rigagnoli. Spaventato, aprì il vecchio bancone tarlato, tirò fuori camici e pianete : asciutti più di prima.