Gerardo conosce i Missionari Redentoristi
CAPITOLO VI
Ai primi di agosto 1748 due religiosi redentoristi - abito talare ornato di una lunga corona alla cintura e collarino bianco - attraversata la Sella di Conza, salirono a Castelgrande e si diressero verso Muro Lucano. Ai loro occhi apparve una bianca cascata di case picchiettate di verde: qualcosa di fiabesco.
Dopo una pausa breve di ingenuo stupore, padre Francesco Garzilli e fratel Onofrio Ricca cominciarono a bussare alle porte questuando offerte per il santuario di Materdomini, a Caposele. Era in costruzione una nuova casa della Congregazione del Santissimo Redentore.
I Redentoristi erano stati ideati da Alfonso Maria de Liguori nel 1732 a Scala, sull’altopiano di Amalfi. Lassù, a oltre 1000 metri, questo nobile napoletano, già avvocato a sedici anni, poi sacerdote e missionario, nella solitudine di una chiesetta montana, Santa Maria dei Monti, ripensò alla sua città, teatro di sfarzi e di cultura, e sperimentò l’abbandono dei pastori in terre povere e desolate. L’impatto fra due realtà tanto stridenti fu l’ultima spinta alla sua «conversione». La Congregazione nascente avrebbe dovuto avere come scopo la cura delle anime più abbandonate, prive di qualsiasi soccorso spirituale. Furono costruiti così i collegi di Ciorani, Pagani, Deliceto. Ora si pensava a Caposele. L’arcivescovo di Conza, monsignor Giuseppe Nicolai, aveva offerto ad Alfonso il romitorio e la chiesetta di Materdomini per farne un centro di spiritualità nella diocesi.
Continuando il loro giro, i due ambasciatori di Alfonso de Liguori e della Vergine Materdomini, inconsapevoli apportatori di un messaggio divino, si imbatterono in un giovane alto e gracile, dalla testa grossa e dagli occhi profondi, che agucchiava nella sua botteguccia di sarto. Quel giovane, contro qualsiasi previsione umana, un giorno sarebbe stato redentorista.
Il 13 aprile 1749 alcuni Missionari Redentoristi intrapresero nella cittadina lucana una sacra missione. Scoccò l’ora della chiamata definitiva. L’ideale di santità vivente in quei missionari era il suo ideale: sentì che quella era la sua strada, la sua vocazione.
Però la sua richiesta ufficiale trovò l’ostacolo della sua gracile costituzione fisica. Padre Paolo Cafaro, uomo di virtù e d’intelligenza, lo fissò e fu inesorabile: «La nostra vita non è per te». Anche mamma Benedetta, per diverso motivo, era contraria alla decisione del figlio, e ne parlò al superiore della missione.
Conoscendo bene la testardaggine del figlio, lo serrò in casa il giorno della partenza dei missionari. Poteva una porta chiusa fermare la volontà di Dio?