San Gerardo Maiella
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Gli occhi del Santo

Capitolo XXXVI

Quando ai primi di giugno, il santo tornò a Caposele, il collegio sembrava una fortezza presa d'assalto dai numerosi operai intenti a squadrare le pietre ed innalzare le mura. Ma il piano già ultimato risonava del salmodiare cadenzato degli esercizianti che nella preghiera costruivano anch'essi il loro edificio spirituale. Vi era un gran da fare per la casa, animata come un alveare, e Gerardo attese alle mansioni più disparate, passando dalla cucina al guardaroba, dal guardaroba alla dispensa, senza mai distogliere gli occhi dalla contemplazione che continuava ad essere la sua occupazione principale.

Una mattina, lo racconta il Tannoia, dopo la comunione, si lasciò andare in ginocchio davanti al Crocifisso che dominava una parete della cappella detta dei Bracciali e rimase li, impietrito come una statua. Quando si riebbe, il sole picchiava a perpendicolo sui tetti.

Si avviò verso la cucina con la pupilla ancora colorata della visione svanita, quando s'imbattè con fratel Carmine Santaniello, rosso di stizza: « Come ? è quasi l'ora di pranzo e non hai ancora acceso il fuoco ? ».

Ed egli con calma imperturbabile: «Uomo di poca fede, e gli angioli che hanno da fare?».

Il pranzo fu servito con perfetta regolarità.

Ma il suo lavoro ordinario era sempre nel guardaroba, divenuto suo appannaggio tradizionale per la discreta competenza in materia. Vi passava lunghe ore alle prese con vesti e biancheria. Nei tempi liberi confezionava conopei e piccoli arredi liturgici, sfruttando ritagli di stoffe preziose, merletti e ricami. Quando non li aveva, se li procurava con rara industria dai suoi benefattori.

Un giorno chiese alla signora Fungaroli un pezzo di seta bianca. Ella frugò la casa senza trovarla. Già pensava di ritagliarla dall'abito di sposa, quando il santo, incontrandola, le disse : « Non occorre guastare una veste di tanto valore per due striscioline di stoffa; cerca meglio nel fondo di tale armadio e le troverai». Le trovò là con sua grande meraviglia, sebbene in precedenza lo avesse rovistato inutilmente almeno dieci volte.

Terminati gli esercizi spirituali, s'iniziarono i preparativi per ricevere l'arcivescovo di Conza, mors. Giuseppe Nicolai, « al quale», come scrisse il padre Caione, « dopo Dio, dobbiamo quanto abbiamo in Collegio ».

L'attesa era grande, specialmente per i benefici che ci si riprometteva dalla visita : urgeva accelerare i lavori in corso e sistemare definitivamente quelli già ultimati che d'inverno rivelavano gravi deficienze. Allora, infatti, le stanze lasciavano filtrare l'umidità dall'esterno, arrecando grave danno alla salute dei religiosi, i quali, in mancanza d'altro, sfogavano il loro malumore, presentando al fondatore un ricco campionario di progetti : chi consigliava il pavimento a mattoni, chi un nuovo intonaco alle pareti, chi speciali ripari alle finestre. E il povero Sant'Alfonso con angelica pazienza era costretto ad ascoltare tutti questi ingegneri improvvisati e dare soddisfazione ad ognuno : « Per i mattoni, sto inteso. Le sbascie, sissignore, si possono mettere appresso ; e va bene che si faccia la prova di quella tonaca che dice il Padre Ferrara ; ma dice l'ingegnere che sarà sempre inutile perché l'umido delle mura (venendo poi le gelate dell'inverno) sempre la ributterà » (Lettere, 1, 289).

Ma, se era facile far progetti, non era altrettanto facile attuarli. Si attendevano i mezzi dall'Arcivescovo che sarebbe venuto a rendersi conto dello stato dei lavori. Si conosceva la sua generosità, ma si temeva che potesse farla pesare con qualche ingerenza indebita. Perciò Sant'Alfonso metteva sull'avviso il padre Caione : « Parlando della fabbrica coll'Arcivescovo, e specialmente di riparare l'umido, state attento di non farlo entrare in qualche impegno di volere che si faccia così: sfuggite allora e dite che si sta consigliando il miglior modo ; che si sta spettando la esperienza, ecc...» (Lettere, 1, 289).

Con tali speranze e tali timori, il 18 o il 19 giugno, fu accolto l'Arcivescovo col suo bravo seguito di abati e gentiluomini che per quattro giorni misero a soqquadro la casa. Mai fino allora quelle austere mura avevano visto o udito tanto frusciare di sete e ondeggiare di parrucche e scintillare di fibbie e tintinnare di spadini e rosseggiare di tacchetti. Una fiera di alta moda maschile. L'arcivescovo Giuseppe Nicolai, dei baroni d'Arfeville, nel Delfinato, era alto e solenne, ligio al cerimoniale e ripieno della propria dignità, ma accanto a lui, a riscontro, spiccava un allegro cortigiano con la sua parlantina schiettamente romana, ricca di battute spiritose e di sorrisi civettuoli. La storia ci dice che portava l'abito talare, ma non si deve intendere con questo che egli fosse sacerdote, o si facesse passare per tale. Era uno dei tanti abati vagheggini del Settecento che riponevano la somma dei loro doveri nel portare con eleganza una talare di finissimo panno inglese, piuttosto corta, coperta alle spalle da una mantellina di raso crespato. Si movevano quasi danzando sui tacchetti rossi delle loro lucide scarpette dalla fibbia d'oro, facendo ondeggiare ritmicamente sul capo i mille ricci della zazzera che grondava a ogni passo stille odorose. Spesso non ricevevano gli ordini maggiori; qualche volta nemmeno i minori ed erano liberi di contrarre matrimonio.

Il nostro cortigiano apparteneva a quest'ultimo gruppo. Era, quindi, uno di quegli abatini laici, elemento indispensabile di ogni salotto aristocratico dell'epoca, ehe avevano l'ufficio di segretari o precettori, o camerieri. Come proveniente da Roma, da quella città che il papa Lambertini chiamava «II Paradiso degli Abati», egli amava mettere in mostra, tra i provinciali, una certa dovizia di gesti e di parole raffinate, congiunte ad una facile vena di umorismo. Questa volta, poi, in occasione della visita, sfoggiò fin dall'inizio i suoi numeri migliori, come avveniva quando capitava in ambienti nuovi, per calamitare sulla sua persona l'attenzione degli altri. Lo credevano un buontempone ed egli covava dentro la sua tragedia che saprà scoprire solo l'occhio esercitato di un santo.

Gerardo, infatti, lo penetrò fino all'anima ed ebbe orrore di ciò che vide, ma attese tranquillamente l'ora di sferrare l'attacco. Questa giunse all'improvviso : trovatolo solo nel corridoio, gli piombò addosso come uno sparviero, lo abbracciò stretto stretto, lo baciò e fuggì via, senza dire una parola. L'altro rimase lì, turbato; irrequieto, fremente, con la febbre nelle ossa e la smania di ritrovarsi con lui. Lo cercò per ogni dove e finalmente lo vide e gli corse incontro col cuore in sussulto, le braccia spalancate, le labbra aperte a un sorriso equivoco, il viso tutto una smorfia di corruzione e di peccato.

Gerardo lo attese a piè fermo; poi gli fece segno di seguirlo. Attraversarono un corridoio fortemente ombreggiato e, per una por-ticina seminascosta nel muro, raggiunsero un piccolo coro. Si scorgeva l'altare e il lento oscillare della lampada. I due si guardarono in silenzio per lunghissimi istanti. Finalmente Gerardo parlò: « Amico, come puoi ridere, mentre porti l'inferno nel cuore ? Tu hai abban-donato a Roma tua moglie; tu sei vissuto per molto tempo con una donna di facili costumi ed ora seppellisci nel cuore crudeli rimorsi ».

E con voce lenta, pausata, inesorabile, continuò a scavare nella sua coscienza peccati antichi e recenti, ridestando echi vicini e lontani di dolori non ancora sopiti. Poi la sua parola si fece calda, avvincente, amorosa, incalzandolo con foga sempre maggiore, finché non vide quegli occhi provocanti arrossarsi e quel corpo di bellimbusto cascare in ginocchio, battendosi il petto e implorando pietà. Allora lo prese per mano e lo condusse dal padre Fiocchi che si trovava di passaggio a Caposele.

Fatta la confessione, il cortigiano si avviava in chiesa, ma Gerardo gli sbarrò la strada: « Dove vai ? ».

« A comunicarmi».

« A comunicarti? E perché non hai confessati tutti i tuoi peccati ? ».

E gliene ricordò alcuni: « Va, va, confessati bene; poi andrai a comunicarti».

Il cortigiano uscì di chiesa serio e pensoso, come sotto il peso di un'improvvisa sciagura, lasciandosi dietro una larga scia di stupore. Era la prima volta che non si apriva al riso quella faccia pienotta di gaudente spensierato. Di bisbiglio in bisbiglio, la notizia giunse a Monsignore che gliene chiese il motivo. Ed egli: « Venite », rispose con la Samaritana del Vangelo, « venite a vedere colui che mi ha detto tutto ciò che ho fatto ».

E raccontò l'incontro con Gerardo. La sincerità, la commozione trapelava da ogni parola e il Prelato si convinse quasi subito che solo un santo aveva potuto operare tale cambiamento. Lo volle conoscere e se lo fece chiamare nella sua Manza. Che cosa si dissero, non sappiamo, ma Monsignore confesserà più tardi d'aver provato una consolazione di paradiso che lo commosse fino al pianto.

In tal modo l'umile Fratello divenne oggetto di curiosità e d'interesse da parte dei presenti. Mai come in quei giorni il soprannaturale si manifestava in lui tanto apertamente. Lo stesso dottor Santorelli, il testimone di molti avvenimenti prodigiosi, ne rimase stupefatto. Egli s'incontrò sulla porta del collegio coll'arciprete di Teora don Nicola Fiore, venuto a riverire Monsignore e gli disse : « Caro don Nicola, ora è tempo di conoscere fratel Gerardo che è tornato da una decina di giorni».

Infatti, un mese prima, l'amico gli aveva manifestato il desiderio di conoscere fratel Gerardo allora assente.

« Grazie », rispose l'Arciprete, « ma ora l'ho visto e conosciuto ». « Ma dici sul serio ? E quando ? ».

« Pochi giorni fa: mi trovavo nella mia stanza, quando mi vidi vicino un religioso redentorista, alto e magro, il volto affilato, gli occhi enormi. Non mi pareva che fosse lì col corpo. Era un'immagine impressa nella mia pupilla, ma con tanta chiarezza che me la vedo ancora davanti viva e parlante. Ebbi subito la persuasione che si trattasse di Gerardo ».

Allora il Dottore si ricordò che proprio in quei giorni aveva manifestato a Gerardo il desiderio dell'arciprete di Teora e ne aveva avuto per risposta queste precise parole: « Sì, lo voglio andare a trovare ! ». Ma, volendo meglio accertare la presenza del soprannaturale, soggiunse : « Saresti capace di riconoscerlo ? ».

« Senza dubbio!».

S'incamminarono per il lungo corridoio e imboccarono la sala dove la comunità era raccolta intorno al folto gruppo di ospiti. Ma, appena messi i piedi sulla porta, l'Arciprete allungò il dito verso il santo, esclamando : « Eccolo ; è lui ! ».

La sua gloria culminò quando l'Arcivescovo prese commiato dalla comunità. Per ognuno egli ebbe una parola di saluto e di ringraziamento, ma quando si vide davanti Gerardo inginocchiato al bacio del sacro anello, lo sollevò affettuosamente da terra, manifestandogli la sua alta stima e la sua cordiale simpatia. In ultimo, si raccomandò caldamente alle sue preghiere. Allora il santo, ci dice il padre Caione, si fece « un pizzico» e abbassò la testa, arrossendo fino alla cima dei capelli. Sollecitato a rispondere, disse di essere un povero peccatore che aveva bisogno di tutta la misericordia di Dio per salvarsi. Ma lo disse con tanta sincerità che il Prelato, pur così padrone dei propri sentimenti, non riuscì a frenare le lacrime davanti a tutti.

Il più commosso, però, fu il cortigiano che s'era posto sotto la direzione spirituale del santo e già provava le soddisfazioni della grazia. Tornato a Sant'Andrea di Conza, continuò animosamente per la via intrapresa, chiedendo nei dubbi utili consigli al suo grande benefattore, col quale iniziò una nutrita corrispondenza epistolare. Tale mutamento di vita produsse naturalmente una forte im-pressione su quanti lo conoscevano.

« Che vi è successo ? » gli chiese un giorno il rettore del seminario, don Giacomo Bozio, « non vedo più in voi la solita allegria e non so darmene ragione ».

« Ah, don Giacomo mio », rispose il cortigiano, « se sapeste che mi è successo a Caposele ! Io sono ammogliato e vivevo in peccato e fratel Gerardo, appena mi ha visto, mi ha posto sotto gli occhi la mia partita con Dio».

Le stesse parole ripeteva agli amici. In breve tempo tutti sapevano le sue vicende spirituali e coniugali, e tutti ne erano ammirati. Perciò l'Arcivescovo lo consigliò d'affrettare il ritorno a Roma, raccomandandolo a mons. Casone, suo stretto congiunto.

Ma anche col nuovo protettore, l'abate non riuscì a nascondere l'avvenimento che aveva rivoluzionata la sua vita anteriore. Monsignore, convinto della sua sincerità e commosso dei suoi buoni pro-positi, confidò il segreto a un cardinale, suo amico. Il cardinale, s'infiammò dal desiderio di conoscere il taumaturgo e ne scrisse subito a mons. Nicolai per avere a Roma Gerardo. Ma, quando giunse la lettera, il santo era passato a miglior vita.

Intanto la visita dell'Arcivescovo aveva dato i suoi frutti: centotrenta ducati in contanti e una circolare al clero, al popolo e alle amministrazioni dei luoghi pii dell'arcidiocesi per la raccolta dei fondi in favore del collegio.

Il padre Caione decise di rimandar la questua alla fine di luglio, a raccolto ultimato, e intanto col denaro ricevuto dar nuovo impulso ai lavori. A sorvegliarli vi pose Gerardo non senza gravi esitazioni.

Perché se da una parte egli capiva che solo lui poteva infervorar gli operai in un'impresa di tanta gloria di Dio, dall'altra non poteva non preoccuparsi del suo stato di salute che deperiva ogni giorno. Una volta, a tavola, lo aveva osservato mentre si sforzava di portare in bocca un pezzetto di carne senza riuscirvi per la soverchia nausea del cibo. Il che si ripeteva frequentemente, mentre aumentavano gli sbocchi di sangue. Specialmente il venerdì.

Quale fosse allora il suo stato di salute, ce lo dice un confratello che gli fu compagno di stanza: « Egli pativa dolori di petto molto forti ed aveva gravi difficoltà nell'alzarsi la mattina. Perciò mi disse di dargli l'ubbidienza mentale al primo tocco di campana. Così io facevo ed egli subito si buttava dal letto, sebbene fosse carico d'infermità. Il suo corpo, le sue vesti, tutta la stanza mandavano un odore grande, straordinario, ed io, non sapendo distinguere che odore fosse, un giorno gli dissi: « Fratello, voi portate addosso profumi e questo è contro la regola». Egli lo negò, ma io sentendo sempre più acuto l'odore, per mio scrupolo, lo riferii al Rettore. Questi, che era anche suo direttore, mi rispose che Gerardo godeva di favori straordi-nari e non aggiunse altro. Solo in appresso, osservandolo meglio, mi avvidi che ciò che odorava era il sangue che scaricava dalla bocca. I suoi dolori aumentavano il venerdì ed allora aumentava anche l'odore ».

Queste continue emottisi impensierivano i confratelli e anche l'amico Santorelli che, verso i primi di giugno, gli chiese come stesse. Egli rispose, come al solito : « Bene ! ».

Ma il Dottore non ne fu soddisfatto e il santo, ridendo, soggiunse « Non lo sai ? Quest'anno me ne muoio e me ne muoio tisico ». Si fece serio, poi, visto l'effetto delle sue parole, riprese a ridere : « Così è, caro Dottore : burlando, burlando, me ne muoio, e me ne muoio tisico ».

« E perché proprio tisico ? », gli disse fratel Gennaro al quale aveva ripetuto la profezia.

«L'ho chiesto al Signore, perché voglio morire abbandonato come Lui. Si lo so che nella Congregazione si usa tutta la carità con gli infermi. Ma pure, quando si tratta di tisici, c'è sempre qualche cautela, come la segregazione... ».

Le cose erano a questo punto, quando il padre Caione volle affidargli la sorveglianza dei lavori, pensando forse che egli si sarebbe limitato a vigilare. Ciò sarebbe bastato per creare il clima d'entusiasmo.

Ma Gerardo non lo concepiva così il suo ufficio. Chi è preposto agli altri è tenuto a lavorare come loro e più di loro per meglio comprendere e compatire. Perciò non risparmiò le sue forze. Di prima mattina scendeva in paese ad assoldare le opere per il trasporto del legname. Poi correva a stemperar la calce, a cavar le pietre, a portar la rena, incollando grosse secchie e salendo sui ponti traballanti, soffocato dalla polvere e dardeggiato dal sole. Di tanto in tanto era costretto a fermarsi e a curvare fino a terra la faccia divenuta paonazza sotto lo stimolo atroce della tosse che gli cavava sangue dai polmoni. Così imparò a sorvegliare con l'occhio del padre, dell'amico e del benefattore, mettendo a servizio degli operai l'onnipotenza di Dio.

Una sera si trovava con l'antico compagno di sartoria Vito Mennonna, venuto apposta da Muro a fargli visita. Erano al balcone e contemplavano la vallata del Sele, chiusa tra le montagne boscose, coi paeselli sul dorso, aerei e leggieri, staccati dalla luce radente del tramonto. Parlavano di Dio a voce bassa, sussurrata, e la voce era rapita dalla brezza che passava, ravvivando gli olmi e gli ulivi, rac-colti anch'essi sotto un cielo di perla, quando l'incanto fu rotto al-l'improvviso dallo scalpitio affrettato di un cavallo che scendeva da sinistra, inseguito da un nuvolo di grida, di pianti e di strepiti. Il cavallo passò come un bolide, portando in sella un giovane del cantiere, pallido come la morte. Ancora pochi metri e li avrebbe inghiottiti il precipizio.

« Vergine Santa, aiutatelo ! », esclamò Gerardo sporgendo fuori le braccia; poi, rivolto al compagno che aveva chiusi gli occhi per il raccapriccio, disse: « Cadrà, ma senza farsi male».

E così fu: il cavallo, giunto sul ciglio del precipizio, s'impennò sulle zampe posteriori, scaricando a terra il giovane perfettamente illeso.

Quando non riusciva a sbrigare il cumulo delle sue incombenze, moltiplicava la sua presenza per farsi tutto a tutti. Sembrava che il suo spirito uscisse dal corpo e prendesse forme concrete, visibili in chiesa, in cantiere, altrove. E di questi fatti, ci assicura il p. Caione, ne avvennero moltissimi.

Una volta, dopo avere atteso tutto il giorno un corriere da Muro per cose della massima importanza, disse ai presenti: « Bisogna che domani ci vada di persona ». All'indomani egli era regolarmente tra gli operai e fu veduto a Muro dal signor Domenico di Maio. Qualche volta era in adorazione estatica davanti al tabernacolo, proprio mentre attendeva con maggiore impegno alle sue faccende. Il fatto sconcertava perfino gli ammiratori più convinti che manifestavano il loro stupore con parole e scatti impulsivi: « Quel pazzo di Gerardo », esclamò un giorno sbalordito il padre Margotta, « stanotte, mentre era nella sua stanza, è stato visto in estasi nel coretto dei Francescani ».

Spesso le estasi irrompevano impetuose, quasi con fragore, destando sorpresa.

Una mattina, nel fare la genuflessione al Santissimo, egli gettò un grido e cadde sui gradini dell'altare. Quando rinvenne, vedendosi circondato dal Dottore e da alcuni confratelli, si allontanò confuso, a testa bassa. Più tardi, rincontrandosi col Santorelli e scorgendo un sorriso malizioso sulle sue labbra, gli disse : « Non te lo dicevo io che con Lui - e stese il pollice verso il tabernacolo - non si scherza ? Hai visto che tiri birboni mi giuoca ? E dire che non lo tratto con troppa delicatezza ».

Infatti, era solito passar di corsa davanti all'altare. « Perché corri ? », gli chiese il Dottore.

Ed egli: « E che ho da fare ? Quel Galantuomo - e additava il tabernacolo - mi ha scottato più d'una volta. Perciò debbo pigliar le dovute precauzioni ».

Come si vede, il suo linguaggio con Gesù era divenuto estremamente confidenziale. Ed è proprio di questo tempo ciò che riferisce il Tannoia e una certa tradizione: una mattina, passando davanti all'altare, Gerardo proruppe in una risata. Lo vide il padre Caione dal confessionale e gliene chiese il motivo. Ed egli: « Mi ha detto che sono pazzo. Ed io gli ho risposto : più pazzo sei Tu che Te ne stai qui rinchiuso per amor mio!».

Dall'amore di Gesù si alimentava ogni altro amore, assumendo lo stesso ardore del primo e lo stesso estro di movimenti. Bastava nominar la Madonna per vederlo sfavillare negli occhi e vibrar da capo a piedi come una corda. Un giorno, il Dottore, per provocarlo, gli disse: « Sì, ammettiamo pure che tu voglia bene al Signore: ma vuoi bene anche alla Madonna ? ».

Gerardo si fece di fiamma: « O medico mio», rispose, « mi volete proprio tormentare ? Ma guardate che mi va domandando... ». E si guardava intorno, quasi in cerca di consensi. Poi, non potendone più, si mise a fuggire all'impazzata : segno che il calore interno aveva raggiunto il grado di ebollizione.

Un giorno, volendo scherzar col padre Strina che sapeva inna-morato di Gesù Bambino, gli disse con una punta di dispetto fanciullesco : « Tu non ami Gesù Bambino!».

E l'altro pronto: « E tu non ami la Madonna!».

Non l'avesse mai detto! Al nome della Madonna, Gerardo si sentì rimescolare il sangue: lo afferrò per le mani e si mise a saltellare qua e là, trascinandoselo appresso, come una piuma.

Insomma, come il sole al tramonto sfolgora di tutta la pompa dei suoi colori, Gerardo, a tre mesi dalla morte, appariva trasfigurato da tutta una gamma esuberante di virtù, che si esaltavano in un'accesa pienezza di vibrazioni e di contrasti, ma i contrasti si accordavano in un'armonia superiore dominata dalla carità. La carità investiva anche i toni più dimessi dell'umiltà e dell'ubbidienza e li scioglieva nei guizzi tumultuosi del movimento.

Un pomeriggio, il canonico Bozio partecipava, in giardino, alla ricreazione della comunità. Si rideva e si scherzava con santa schiettezza, come se il mondo si fosse rifatto bambino. Gerardo, teneva desta la gioia comune, anzi era divenuto un po' il pallino della conversazione. Tanto che a un certo punto, il padre Caione, celiando, gli disse di baciare i piedi del Canonico. Questi, sorpreso e confuso, si scostò; poi si mise a correre, trascinandosi appresso Gerardo che lo scongiurava di permettergli di fare l'ubbidienza. Correva sebbene sopraffatto dalla tosse. Allora don Camillo ne ebbe compassione e si fermò. L'altro si stese a terra per eseguire il comando del superiore.

Tale ubbidienza, tale umiltà, risaltavano maggiormente, se messe a riscontro col suo stato interiore che aveva raggiunto ormai il grado supremo della contemplazione. Era il grado che i mistici chiamano della contemplazione negativa, perché procede di distacco in distacco, di negazione in negazione, fino al punto in cui l'anima, sollevata con un colpo d'ala al di là delle creature più eccellenti in grandezza e bontà, viene ripiena della luce ineffabile di Dio « tenebra divina », senza mescolanza di elementi sensibili e creati.

Quando da queste altezze tornava sulla terra, portava con sé tanta luce della visione sofferta da rapire di ammirazione i teologi più consumati.

« Anime grandi, Religiosi, preti, Confessori, Direttori e persone di riguardo... vedevansi far capo da Gerardo, per essere rischiarati nei loro dubbi, e sollevati nelle loro angustie. I nostri stessi della Congregazione, ancorché dotti e illuminati, non trovavano pace che ricorrendo a lui ». Così scrive il Tannoia (o.c., pag. 146-47) e porta l'esempio del padre Francesco Garzilli, già canonico della cattedrale di Foggia, teologo e direttore di anime, il quale, sebbene settuagenario, ricorse a Gerardo per alcune ansietà di spirito e ne ebbe la seguente risposta : « Padre mio caro, molto godo e mi consolo del gioco che Sua Divina Maestà fa con V. R... Non temete, ma statevi allegramente che Iddio è con V. R... V. R. dubita delle sue confessioni. Questa è una piccola mortificazione che Dio vi vuol dare, tenendovi angustiato. Mi dite che siete in causa propria. Sissignore, questo conoscimento dovete averlo per forza ; se non fosse così, non vi sarebbe angustia... Se l'anima di V. R. avesse conoscimento che tutto ciò viene da Dio, certamente non vi sarebbero più pene, anzi tutto ciò vi sarebbe un Paradiso in terra... Se poi abbiamo qualche piccolo difetto e vi caschiamo, pensiamo che i santi non furono puri spiriti in terra... ».

Un chierico, studente di teologia, dopo aver conferito con lui, ebbe a dire stupefatto che neanche un Sant'Agostino o un San Tommaso avrebbero potuto esporgli con più chiarezza e profondità il mistero dell'Incarnazione e della Santissima Trinità. E il suo giudizio coincide con quello del Santorelli e di altri.

Ma questa luce non esauriva il suo compito nell'illuminare gli erranti: era la luce di Dio che è carità, cioè, calore. Gerardo, immerso in Dio, per un prodigio proprio del santo, era presente al mondo e agli avvenimenti del mondo, perché li vedeva nell'occhio stesso di Dio, quindi trasfigurati dalla luce di Dio, Padre e Creatore di tutto. Perciò Gerardo guardava l'umanità come una famiglia da amare con l'amore stesso del Padre: un amore che si portava giulivo verso il bene, benigno verso il dolore, comprensivo verso il male, sempre ilare e giocoso, sempre leggiero come una brezza, sempre refrigerante come un balsamo. Spalancava a tutti la porta del collegio con la stessa generosità con cui spalancava la porta del proprio cuore per porlo al servizio dei piccoli e dei grandi, degli innocenti e dei malvagi. Ogni ospite era un inviato dal Padre, qualunque fosse il suo nome e il suo paese di origine. Dormiva sotto lo stesso tetto, entrava direttamente nel circuito della sua carità.

Una notte udì un gemito dalla stanza vicina : un forestiero sconosciuto si lamentava. Gerardo si alzò di letto, corse al suo fianco, gli tracciò una croce sulla fronte esclamando: «Confida nella Ma-donna! ». E la sciatica scomparve.

Tutta Caposele era la sua casa: conosceva vita e miracoli di ognuno e questo lo impegnava verso tutti. Alcune giovani erano in chiesa, ma la funzione non voleva più finire: il predicatore la sapeva molto lunga. «Su, bello mio », esclamò Anna Rosa Ruglio, « sbrigati, ché non ci vedo più per la fame! ». Le compagne risero e, a funzione finita, sciamarono di corsa in portineria : « Fratel Gerardo, aiuto: moriamo di fame! ».

E Gerardo con lo stesso tono: « Ah no, so io chi veramente ha fame. Anna Rosa, vieni qua». E la ragazza ebbe la precedenza sulle altre.

Anche i paesi vicini, quelli che aveva visitati durante i suoi giri apostolici, divenivano la sua famiglia. Specialmente il paese natale Muro, di cui seguiva le vicende con viva partecipazione di affetto. Esiste al riguardo una vasta rosa di esempi. Ne scegliamo uno tra i più significativi. è il racconto di un contadino, guarito all'età di dieci anni dall'intervento provvidenziale del santo. Lasciamo intatto il suo racconto, anche se mescolato con elementi fantastici.

Si chiamava Felice Antonio Iasillo e sarebbe stato un bel ragazzo senza quel gozzo che gli pendeva dal collo. Suo padre Alessandro, dopo aver ricorso a tutti i medici, un bel giorno sellò il cavallo e lo condusse a Materdomini per ottener la guarigione dalla Madonna. Appena arrivato, volle salutar Gerardo, amico di famiglia. Questi chiese subito notizie della moglie e dei figli.

« Tutti bene, grazie a Dio », rispose:

« è vero», soggiunse il santo, «però tua moglie si è molto di-spiaciuta perché non le hai lasciato la chiave della cantina »: Alessandro si frugò in tasca : la chiave era lì.

Intanto Gerardo, scorto il fanciullo con quella strana pappagorgia, gli domandò cosa avesse. « Ha le scrofole », rispose: il padre, « e siamo venuti apposta per implorar la guarigione dalla Madonna». « Sì, sì», egli riprese, « la Madonna vi farà la grazia».

Così dicendo, gli toccò la gola: il gonfiore cominciò a: scemare ; dopo una preghiera alla Madonna, scomparve del tutto.

Prima di accommiatarsi, Gerardo consegnò al fanciullo quattro fichi piccoli e duri come sassolini, perché li portasse alle sorelle.

« A che potranno servire ? », egli pensò accoccolandosi dietro il sellino del padre, mentre il cavallo scendeva verso la valle del Sele.. Era per buttarli via, quando si accorse che ingrossavano a vista d'occhio. « Questa è curiosa! », esclamò, riponendoli nel sacchetto da viaggio ed osservandoli di tanto in tanto con crescente stupore.

Già voltava verso Laviano in compagnia delle acque del Temete, quando si avvide che i fichi erano divenuti morbidi e polposi, con la camicia screpolata e la lacrima sulla corona. Vinto dalla gola, ne portò uno alla bocca : « Squisito davvero ! ». Si succhiava le dita soddisfatto, quando cadde da cavallo, per fortuna, senza farsi male. « Ben ti sta» gli gridò il padre; « così impari a non mangiare i fichi che devi portare alle sorelline ».

Per timore di nuovi castighi, si astenne dal mangiare anche gli altri e li consegnò alle sorelle le quali non dimenticarono più il dono di Gerardo. « Erano così buoni quei fichi ! » diranno fino alla morte, « e poi ce li aveva mandati un santo, che, anche da lontano, pensava a noi!». E si commovevano ancora.

Col prossimo Gerardo abbracciava l'universo, come creatura di Dio : trasaliva al pensiero che Egli l'avesse fatto per la gioia dei suoi occhi e l'estasi della sua anima.

Una mattina era sceso a Caposele, presso la famiglia Ilaria, che abita tutt'ora ai margini meridionali del paese, in una palazzina dall'ampio ballatoio, aperto al più bel sole di mezzogiorno. A pochi passi le acque limpide del Sele lambivano mormorando i fianchi dell'orto, perdendosi nella valle sottostante, verso cui scendevano dai colli opposti, gradinate di ulivi, di querce e di lecci, inzuppati di luce. La luce invadeva un cielo senza nubi, ruscellando, di poggio in poggio, ondate di rosso, di verde, di giallo, fin sulle ultime vette dei monti, sfumati nell'azzurro.

Dal ballatoio esterno, Gerardo abbracciava la superba visione e saliva, adorando, fino a Dio; a Dio che gli parlava con l'ombra del leccio e il sospiro del fiore, col canto spiegato del fiume e l'umile singhiozzo di quel tacchino che passava gurgugliando tra le vicine casupole, macchia scura nella luce. Era anche lui una scintilla della bellezza divina, una nota del poema eterno. Il santo stese le mani e chiamò : « Creatura di Dio, vieni qui!».

L'animale si levò a volo sui tetti e si accovacciò ai suoi piedi..

Il Padre capì l'allusione e, per celare la sorpresa, lo interruppe bruscamente: « Vattene, ché sei uno stordito ! ».

E Gerardo a voce alta: «Voglio far l'ubbidienza; voglio star bene, voglio star bene! ».

All'indomani già si preparava per il viaggio, quando sopraggiunse di corsa il Dottore: « Gerardo mio, fai presto! Sta morendo un gran peccatore e non ha avuto il tempo di confessarsi ».

Gerardo si precipitò per la discesa ed entrò nella casa dove Gennaro Cinna tirava i rantoli dell'agonia, tra una fila di parenti taciturni e sconvolti. Senza dir parola, si avvicinò al letto, si appoggiò ai guanciali e, accostando il volto a quello del moribondo, alitò sulla sua bocca semiaperta. Parve alitargli un soffio di vita, perché l'infermo riaprì subito gli occhi e riacquistò i sensi e la parola. La morte si arrestò per otto o nove giorni per dargli il tempo di rimettersi in pace con Dio e col prossimo. Poi lo prese nelle sue braccia, come un fanciullo addormentato.

Ma Gerardo era allora sul campo dell'azione.

Gli fu assegnata la media valle del Sele, dal punto dove il fiume, vinte le strettoie dei monti, sbocca nella conca collinosa di Contursi, avanzando lentamente in un vasto anfiteatro, chiuso dalle vette solenni dell'Alburno e dalle ultime propaggini dell'Appennino Lucano. La zona, oggi florida, salubre e ricca di acque termali, era all'epoca della nostra storia, la triste valle della morte. Dagli acquitrini verdastri che insozzavano le pianure si levavano densi sciami di zanzare, raggiungendo i paeselli seminascosti sui monti, coi germi di perniciose malattie spesso mortali. Raggiungevano perfino cittadine di alta collina come Buccino e San Gregorio, nonostante i seicento e i cinquecento metri di altezza. Ne abbiamo la testimonianza sicura in una lettera di Sant'Alfonso che, nell'estate del 1756, un anno dopo il viaggio di Gerardo, rimproverava aspramente il padre Caione per avervi mandato a predicare il p. Apice: « Io non so fingere. Dico la verità : questa cosa che avete fatta di mandare il Padre Apice (e Dio non voglia che ci abbiate mandato alcun altro) a San Gregorio, mi ha ferito l'anima... Dio mio ! Mandare un soggetto (che ogni soggetto ci costa sangue) a morire in un luogo di mal'aria, nel solleone... » (Lettere, 1, 348). Solo tenendo conto di questi dati di fatto, arriveremo a com-prendere lo spirito di sacrificio che animava il nostro santo, quando si inoltrava in quella campagna desolata, sotto il cielo immobile di agosto, gli occhi calcati dall'afa e acciecati dal sole, avanzando lungo le vie polverose, rasente gli stagni mefitici e le stoppie riarse, sospinto sempre dal suo immenso ideale di amore che sorpassava di mille doppi i motivi contingenti della questua.

Era coadiuvato dal confratello Francesco Fiore che batteva l'alta, valle del Sele con i paesi più conosciuti dai missionari. Gerardo si riservò le zone più impervie e lontane. Cominciò da Senerchia, un paesello addossato alle falde orientali del Boschetiello.

Lo accolse freddamente il parroco don Giuseppe Frunzi, bron-tolando contro i frati cercatori che gli rapivano perfino la carità dei fedeli. E a lui nessuno pensava, lui che aveva visto crollare la sua chiesa sotto la furia dei terremoti e delle inondazioni, e solo come un cane aveva tirata su un'altra chiesa più grande della prima, ma, sul più bello, si erano arenati i suoi sogni. Eccola lì la sua chiesa, con le occhiaie vuote e senza tetto, abbandonata come un rudere in balìa del vento e della pioggia che avrebbero sgretolata la sua ventennale fatica. La, potesse almeno riparare dalle intemperie ! Nossignore, neanche questo. Aveva fatto segare sul monte Acerno gli abeti più belli ed ora marcivano sul posto senza trovare, a pagarlo un occhio della testa, chi li trasportasse. Impossibile andarci coi buoi : i luoghi erano impervi. Gli operai aumentavano giorno per giorno le loro pretese. E la chiesa era sempre lì, come un rudere, in balìa del vento e della pioggia.

Gerardo non rispose, uscì sulla piazza dove, a cavalcioni delle muricce, bighellonavano gli sfaccendati del paese e : « Andiamo», disse loro, « andiamo tutti, tutti ! Si tratta della gloria di Dio : nessuno deve mancare! ».

Tutti si mossero senza chiedergli dove. Quando se li vide vicino « Su, su », soggiunse : « svelti, ragazzi! Andiamo alla montagna a prendere le travi ! Coraggio tutti insieme !».

Aveva il fuoco negli occhi e la convinzione nel cuore e tutti, con un urlo di gioia, si misero in marcia. Egli, in mezzo a loro, spiccava come uno stendardo. Quando vedeva sbucare dai vicoli o dalle porte qualche crocchio di curiosi, allungava loro le braccia e alzava la voce: « Su, anche voi, da bravi: tutti alla montagna». Scomparvero vociando pei campi polverosi, riapparvero in salita come un drappello lanciato a una conquista; si snodarono come uno strano serpente tra i massi e i dirupi. Avanti, a grosse falcate, marciava Gerardo. Raggiunse una radura scoscesa, circondata di faggi e di abeti. Sul prato arsiccio erano affondati alcuni tronchi enormi, già fioriti di muschio. Al più lungo attaccò una fune: « Dio è con noi », gridò, « ma tocca a noi cooperare con la sua grazia! ». Si passò la corda sulla spalla e diede il primo strattone ; gli altri lo assecondarono, incitandosi a vicenda con boati lunghi e prolungati. Fu tanto l'ardore che in breve si affacciarono sul piazzale antistante la chiesa, tra gli evviva del popolo accorso allo spettacolo.

« Ed ora, sotto con le altre travi!», gridò Gerardo.

Tutti ubbidirono. Il santo era sempre alla testa, animando e spronando gli operai, fattosi operaio anche lui, nonostante i disturbi di petto che, placati dall'entusiasmo, ripresero più violenti la sera. Ma col suo sacrificio, la chiesa fu ultimata.

Da Senerchia annunziò la sua venuta all'arciprete don Arcangelo Salvadore di Oliveto Citra, un altro paesello sulla riva destra del Sele, tra foreste di ulivi. La lettera terminava così : « Vostra Signoria desiderava conoscere uno dei nostri : ecco che il Signore vi ha consolato ». Nel leggere il foglio, don Arcangelo rimase di stucco : da mesi desiderava conoscere il santo, ma non l'aveva detto a nessuno. Era dunque una coincidenza fortuita, o erano stati letti i segreti della sua anima? La risposta venne qualche giorno dopo. Gerardo, appena giunto ad Oliveto, lo abbracciò come un vecchio amico, dicendogli con ingenuità fanciullesca : « Arciprete, hai letto quelle parole in fondo alla lettera ? ».

L'Arciprete finse di non capire: « Sì, ho letto quella parola indegnissimo, prima della firma ed ho ammirato la tua umiltà ». « No, non dicevo questo!».

« Sì, ho letto pure quelle altre parole: fratello in Gesù Cristo. Già lo so : siamo tutti fratelli in Gesù Cristo».

« Nemmeno questo volevo dire!». « E allora che volevi dire ? ».

« Ecco: da molto tempo tu avevi un gran desiderio di conoscermi. Ora il Signore mi ha mandato».

L'Arciprete stentò a mantener la calma e, troncando ogni discorso, lo condusse nella stanza a lui destinata.

Lo andò a chiamare all'ora di cena. Bussa e ribussa : nessuno rispose. Spinse leggermente l'uscio : il santo era sospeso, tre palmi da terra. Uscì in gran fretta, quasi avesse violato un segreto di Dio e tornò nella sala dove attendevano i familiari, ma non riuscì a mantener la calma. Pianse, raccontando la scena di cui era stato testi-mone, e gli altri piansero con lui.

Dopo una mezz'ora, Gerardo, acceso in volto, si affacciò per dire: « Fate pure liberamente, perché non intendo incomodarvi ». Ma la commozione dell'Arciprete non si cancellò più : alcuni mesi dopo, egli farà porre una targa sul muro per ricordare l'altezza raggiunta dal santo in preghiera.

All'indomani, di buon'ora, Gerardo si mise all'opera accompagnato visibilmente dalla grazia che suggellava il suo apostolato. Guarigioni, profezie, liberazione di ossessi, si susseguirono senza interruzioni. «Ogni passo, un miracolo», dice enfaticamente il padre Caione.

Un giorno, passando davanti alla casa di un gentiluomo, vide un ragazzo che giuocava coi coetanei: « Oh che gran mostro », disse mestamente a chi l'accompagnava, « sta crescendo in questa casa! ».

La parola fu ricordata diversi anni dopo, quando il ragazzo divenne un giovinastro scapestrato che giunse fino a violentare la propria sorella. Ripreso aspramente dal padre, Filippo, concepì contro di lui fieri propositi che non si vergognava di manifestare agli altri. E un giorno - era il 4 dicembre 1772 - dopo un ennesimo alterco, gli si precipitò addosso con la spada sguainata, calandogli sulla testa due fendenti, per fortuna andati a vuoto. Il povero padre, balzato all'indietro, spiccato l'archibugio dalla parete, cercò d'atterrirlo, puntandoglielo sul viso, ma l'altro continuò ad incalzarlo. Allora, fuor di sé dallo spavento, lasciò partire il colpo che lo liberò dall'ingiusto aggressore e dal figlio. Costui si chiamava Michelangelo Indelli ; aveva ventinove anni ed era laureato in medicina.

Un altro giorno, secondo il Tannoia, Gerardo fu attratto da un assembramento di gente che urlava e strepitava e faceva una gazzarra del diavolo.

Si fece avanti. Un giovanotto, gli occhi stravolti e la spuma in bocca, bestemmiava e scalciava per terra con le braccia tenacemente aggrappate ad un ostacolo: « Volevamo condurlo da voi» dissero, « ma non c'è verso: non vuol venire». Gerardo comandò: « Manifesta qui, avanti a tutti: chi sei ? ».

S'udì un ruggito strozzato, poi una voce cavernosa: «Sono il demonio, sono il demonio!».

Allora il santo reiterò più forte il comando : « In nome della Santissima Trinità, io ti comando di uscire da questa creatura ». Gli rispose la stessa voce in tono più rabbioso : « Me ne vado, ma me la pagherai». Finita la questua nel paese, Gerardo voltò le spalle alle vette boscose del Polveracchio, scendendo a valle in compagnia delle acque del Sele che apparivano e sparivano, immobili sotto il cielo di fuoco. Penetrò nella pianura accidentata e pantanosa di Contursi, oltrepassò Sicignano e, sfiorando i pendii orientali degli Alburni solitari, raggiunse Auletta, una bracciatella di case sullo sfondo di aspre giogaie. Vi lasciò tracce memorabili del suo passaggio.

Un giorno, entrando in casa di un certo don Giuseppe Mari, gli fu presentata una fanciulla pallidissima con gli occhi stralunati e la faccia angolosa. Era uscita proprio allora da una convulsione epilettica e stentava a riacquistare la morbidezza dei lineamenti. « Povera creatura!», mormorò il santo, sfiorandola con un segno di croce: la faccina si spianò in un sorriso e due occhi nerissimi scintillarono come due stelle. Era guarita. Per sempre.

Un altro giorno attraversava la piazza saettata dal sole, quando vide passare in gran fretta un uomo accaldato: era solo con la sua ombra che gli rotolava tra i piedi. Il santo gli corse incontro: « Figlio mio », gli disse, « come puoi aver pace con tali peccati nell'anima ? Via su, confessati, mettiti in grazia di Dio!». L'uomo, fulminato, interdetto, ubbidì.

Quest'altro fatto lo raccontò il parroco don Raffaele Abbondati al padre Caione. Gerardo passava per una via solitaria, quando gli fu indicata una casupola: « Là dentro», gli dissero, « abita una ragazza storpia e rattrappita. Da anni vive così : sempre a letto, o sulla sedia ».

Dalla porta semiaperta entrava un fascio di sole che staccava le ombre di fondo. Tra luce e ombra biancheggiava un visetto pallido. « Eccola », gli dissero, « ieri come oggi; oggi come domani».

Gerardo entrò accomodandosi su uno sgabello ; guardò un istante quella faccina languida e dolce, dicendo ai presenti : « Questa figliuola non ha proprio niente; questa figliuola sta proprio bene ». Poi, rivolto alla ragazza che continuava a guardarlo con gli occhietti incantati, soggiunse : « Su, su, piccina, vieni qua; presto, vieni qua ! ». E le stese le braccia.

La poverina esitò, sorrise; pose i piedi in terra, prima titubante, poi sicura, e corse a baciargli la mano. La guarigione era completa. Dopo alcuni anni, passando per il paese fratel Francesco Fiore, gli fu mostrata una giovanottona abbronzata che tornava dalla fontana, pettoruta, le mani ai fianchi, una grossa conca sul capo. « Quella là », gli dissero, « è la ragazza guarita da fratel Gerardo ».

Da Auletta, piegando verso oriente, raggiunse Vietri di Potenza, sullo sfondo di un paesaggio sempre più alpestre e roccioso. Fu ricevuto dal parroco don Onofrio Coppola che stese personalmente la relazione dell'avvenimento più strepitoso.

Il santo si aggirava tra le vie per la questua, quando gli si presentò una giovane donna con un inchino alquanto caricato e una leggiera smorfia sulle labbra dipinte: « Padre », disse ridendo, « vorrei un'immaginetta della Madonna ». E intanto si dondolava sui fianchi, mettendo bene in mostra le ricche sete e i gioielli.

« Ecco l'immagine », rispose il santo, « ma preparatevi alla morte, perché vi restano pochi giorni di vita ».

La donna tornò a casa con gli occhi arrossati di pianto, con meraviglia di quanti conoscevano la sua leggerezza. Verso sera fu assalita dalla febbre. Non sembrava cosa grave, ma lei volle subito il sacerdote per mettersi in pace con Dio. Fu una vera grazia, perché in tre giorni si ridusse in fin di vita e al quarto passò all'eternità. Auletta e Vietri segnarono le punte estreme toccate dal santo da allora cominciò a ripiegare verso la base di partenza con l'intenzione di percorrere i lembi orientali della media valle del Sele. Ma l'itinerario preciso ci è ignoto, perché nessuno ebbe cura di raccogliere le sue gesta e tramandarle ai posteri. Ci restano solo poche notizie, necessariamente frammentarie, riferite dai parroci che capitavano per affari nel collegio di Caposele.

Sappiamo però che le folle plaudenti si movevano da ogni parte in cerca di lui ; che attendevano ore e ore sotto le vampe della canicola per vederlo, riceverne una benedizione, ascoltarne una parola, e sfiorargli la veste con la punta delle dita. Ognuno era spinto dalla fama dei miracoli e dallo strepito delle opere che mettevano in subbuglio paesi e villaggi. Dove passava si placavano gli odi, tornava la concordia, nei cuori sbocciava la grazia. In un paese, ci narra il Tannoia, le discordie erano salite perfino nel campo ecclesiastico. A nulla era valsa l'opera diuturna dell'Arcivescovo e dei notabili, ma una parola di Gerardo riportò la pace.

Nessuna meraviglia, quindi, se quando lo vedevano apparire, pacifico sul suo giumento, i popoli prorompessero in acclamazioni frenetiche come apparisse il Messia. Ma il santo si guardava intorno spaventato, chiedendosi se tutta quella gente fosse stata presa da un impeto di follia collettiva. E scoppiava a piangere e se ne lamentava col Signore.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021