Su questa amara croce
Capitolo XXXI
Un giorno il padre Margotta invitò Gerardo ad accompagnarlo alla chiesa di San Giorgio Maggiore dove fratel Cosimo, un religioso dei Pii Operai, otteneva favori dal cielo, benedicendo i fedeli con l'immagine di Nostra Signora della Potenza. Voleva un sollievo dalle agitazioni spirituali che soffriva da mesi, senza trovar refrigerio nella preghiera e nella penitenza.
« Andiamo pure », rispose il santo, « ma per ora la grazia non l'avrete ».
Verso sera uscivano dal vasto tempio incrostato di barocco. La brezza saliva dal mare a rimescolare l'aria dolciastra dell'autunno incipiente e il povero Padre si fermava ogni tanto a respirare, come sorpreso dall'affanno. L'umile Fratello, mosso a compassione, gli disse: « La guarigione l'avrete; l'avrete certamente, ma più tardi». Passarono alcuni mesi. Gerardo era a Caposele in una grigia giornata di dicembre e scriveva in guardaroba, quando entrò il dottor Santorelli : « Che facciamo, caro Gerardo? » gli chiese.
Il santo, alzando gli occhi dalla carta, rispose: « Scrivo a Pagani per avvertire il padre Margotta che finalmente è giunta l'ora della sua liberazione».
All'indomani il padre Margotta si trovava coi confratelli nel coro di Pagani, quando a un tratto, sentì come una mano passargli sulla fronte e sul petto e un velo cadergli dagli occhi. Si riscosse il petto si dilatava, come premuto internamente da una gioia non provata da anni; tutto il corpo sprizzava agilità e freschezza. Si alzò, scoppiando in lacrime, e corse ad abbracciare i confratelli i quali ridevano e piangevano con lui. Nello stesso momento a Caposele Gerardo si sentì schiantato da un peso e offuscato da una nuvola. Tutti lo videro cadaverico e paurosamente triste.
« Che hai? », gli chiese il superiore.
Ed egli confessò: « Non mi reggeva il cuore di sapere le sofferenze del padre Margotta e le ho chieste a Dio per me».
Questo avveniva a Caposele, alla vigilia dell'Immacolata. Fu una prova piuttosto breve con ripercussioni esterne.
Ma un'altra prova egli celava nelle profondità dell'anima fin dall'estate del 1754, mentre si aggirava per i marciapiedi infuocati di Napoli, tra i pazzi degli Incurabili e gli scugnizzi del porto: una prova completamente nascosta, della quale sappiamo quel tanto che egli stesso ci ha manifestato attraverso le poche lettere dirette alle sue confidenti di Ripacandida.
Non era il solito strazio della visione ingigantita delle proprie colpe, ma la partecipazione attiva alla passione e morte di Gesù. Tali fenomeni si erano riprodotti nella sua carne nei primi anni di Deliceto, poi erano cessati, dopo il comando espresso del padre Cafaro : ora tornavano a manifestarsi, non nel corpo, ma nell'anima, per una specie di comunione mistica con le pene del Maestro. Solo il santo, sapeva, sebbene confusamente, che cosa avvenisse nel proprio interno e lo narrava trepidante a quelle anime da cui sperava conforto. A una suora di Ripacandida, scriveva verso la fine di luglio: « Vi scrivo da su la croce... Compatite la mia agonia... Se non fosse la forza che mi fo, questa mia vi sarebbe scritta a lagrime di sangue. Tanto sono acerbi i miei dolori che mi danno spasimi di morte, e, quando mi credo di morire, mi ritrovo vivo, per essere più afflitto e addolorato. Non so dirvi altro ; non son capace di darvi il mio fiele e il mio veleno per amareggiarvi ».
Erano dolori arcani, frutti di una croce misteriosa conficcata in mezzo all'anima. Con la croce si accompagnavano le trafitture dei chiodi e gli squarci della lancia che, come dice il santo, uccide e non dà morte: « Mi ritrovo in croce in mezzo a patimenti inspiegabili. Per me si perse la lancia per darmi morte e il mio patibolo obbedisce a ritrovarla, ma solo per prolungare la mia vita nel patire» . Ma più che per questi dolori, l'anima soffre di trovarsi sola, paurosamente sola di fronte alla giustizia di Dio: « Tutti par che mi hanno abbandonato... Questa è la volontà del mio celeste Redentore: di stare inchiodato su questa amara croce. Chino il capo e dico : questa è la volontà del mio caro Dio. Io l'accetto e ne godo di far quanto comanda ».
E' un'agonia senza conforto, perché consumata nella solitudine; un'agonia senza misura di tempo e di spazio, cioè eterna, come eterna è la giustizia di Dio: « Io mi credo che le mie pene hanno da essere eterne. Non me ne curerei che fossero eterne : basta che io amassi Dio. Ma questa è la mia pena che mi credo che io patisca senza Dio. Madre mia, se non mi aiutate, son gran guai per me, perché mi vedo tutto abbattuto e in un mare di confusione, quasi vicino alla disperazione. Mi credo che per me non vi è più Dio e la sua divina misericordia è finita per me, ma sola mi è rimasta la giustizia ... ».
E nell'ottobre alla stessa Madre : « Io sto tanto afflitto e sconsolato per essere tanto cruciato dalla divina giustizia che nulla più. Benedetta sia sempre la divina volontà ! E quello che mi fa tremare e mi dà maggiore orrore è che temo di non perseverare : Dio non voglia ! ».
A questi tormenti interni si aggiungeva la stato di prostrazione fisica che si accentuava di giorno in giorno. Alla fine di settembre si era ritrovato a trascinare per i marciapiedi della città un corpo logoro e uno spirito tiranneggiato dalla prova, tra il lavoro estenuante e la confusione di ogni giorno. Ai primi di ottobre aveva perduto il sonno, l'appetito, la salute; larva ambulante, ravvivata dalla volontà. Scriveva in quei giorni alla Priora di Ripacandida : « Io sto malissimamente ! ».
Il superlativo in bocca di chi non aveva mai detto basta a nessuna sofferenza, è quanto mai significativo.
Eppure, cosa meravigliosa, la prova si disposa continuamente con una sovrana consolazione che non ha nulla di umano; una consolazione che non toglie il dolore; anzi lo rende più acuto e insieme stimola la sua anima a « scialarsela col suo caro Dio » e « a godere di far quanto egli comanda». C'è sempre una vetta del suo essere che emerge dal dolore nella luce e scioglie l'inno alla fede in un rapimento turbinante di amore. Proprio in questi giorni gli escono dal labbro grida come queste: «Fede ci vuole ad amare Dio. Io sono risoluto di vivere e morire impastato di santa fede. Oh Dio e chi vuol vivere senza la santa fede ? Io vorrei sempre esclamare e dire sempre così e che fossi inteso per tutto l'universo : Evviva la nostra santa Fede del nostro caro Dio ! Ahi ! Bisogna che dia freno alla penna e viva sepolto in silenzio e colà riposarmi in dolce riposo di eterna liquefazione. O inesplicabile divinità, parla tu per me, ché io non posso. A Te mi rendo, mio Bene, ho in Te riposo ».
La sua persona traspira gioia dagli occhi e dal viso, come la superficie del mare che cela nelle profondità le tempeste e si adagia blanda nel sole. Sembra che i suoi dolori si modulino all'esterno in una musica soave che placa le angustie. degli altri.
Sappiamo infatti che il padre Margotta i pochi momenti di tregua alle sue lotte interiori li provava proprio vicino a Gerardo. E le stesse suore di Ripacandida dovevano sorridere leggendo le trovate geniali del santo, il quale, allora più che mai, nutriva pensieri gentili per tutte e aveva un'aria scherzosa che conquistava alla gioia. Verso la fine di agosto, si ricordò d'aver promesso a suor Maria Celeste dello Spirito Santo, la giovane novizia della famiglia Graziola di cui aveva salvata la vocazione, un libretto di canzoncine spirituali. Felice di poterglielo finalmente mandare, le scrisse una lettera che trapela affetto paterno da ogni parola: dall'invocazione allo Spirito Santo: « Viva lo Spirito Santo mio!», all'appellativo confidenziale : « Celeste mia ! », all'augurio finale : « Cantate nella vostra cella, acciò vi facciate santa grande e preghiate Dio per me ! » (o. c., pag. 36).
Ma le trovate più spiritose fioriscono nella corrispondenza con la madre Maria di Gesù, colei che gli era più vicina nelle ascensioni spirituali. Quando, dopo il lungo periodo della calunnia, riceve da lei una lettera, prorompe in questo grido di gioia stupefatta: « Bisogna scrivere per tutto l'universo e fare intendere che si tratta di una delle famose meraviglie di Dio che, dopo tanto tempo, la Riverenza sua si è ricordata di me, suo servo! » (o. c., pag. 53).
In un'altra lettera si lamenta di non aver più notizie della madre Priora : « Io la tengo segnata - cioè me la lego al dito - la voglio accusare proprio a Gesù Cristo, affinché la metta carcerata ». Poi, fingendo d'aver fatto pace, manda anche a lei i suoi saluti: « Salutatemi specialmente la Madre Priora. Io non le scrivo perché non mi vuole mandare risposta: ma la perdono. Non la mettete carcerata » (o. c., pag. 58).
Finalmente riceve una lettera dalla madre Priora ed eccolo prorompere in espressioni di vivissima gioia: « Viva il nostro caro Dio e la nostra Divina Madre ! ... Infinite volte, infinite volte sia sempre benedetto il mio Signore che mi diè tanta consolazione e benedetta la carità e la bontà che mi avete usata contro i miei meriti! Nostro Signore ve la renda ! ».
Ormai rappacificato, le può rimettere l'accusa che era disposto a presentare, a suo carico, davanti al tribunale di Dio: « Io ero risoluto di darvi querela al mio caro Dio. Ne avevo giustamente ragione per le lettere mandatevi senza risposta. Avete fatto bene a scrivermi, perché Vostra Riverenza stava in pericolo di cadere nella censura ... » (o. c., pag. 37-38).
Dio, è, dunque, l'intermediario di questa amicizia: Dio sentito vicino come un buon papà, chiamato a dirimere le piccole affettuose baruffe di famiglia. Perché la figliuolanza divina non è per Gerardo un domma astratto che interessa solo l'intelligenza : essa scende nella sfera del sentimento, investe tutta la nostra umanità e ne plasma una nuova parentela più viva e tangibile di quella del sangue. Ecco che cosa scrive in questi giorni alla Priora di Ripacandida: « Voi siete Sposa di Gesù Cristo, e come tale io vi stimo e venero. Siete figlia di Teresa mia cara ed è tale la stima che io ne ho, che darei il sangue e la vita per difendere sempre e innalzare la gloria del mio caro Dio ... Siamo fratello e sorella nel mio Signore, perciò giustamente ci dovevamo sempre puramente amare in Dio» (o. c., pag. 38).
Coerentemente, può lagnarsi se quest'amore non traspira dalle lettere che riceve: « Ho ricevuto», scriveva alla madre Maria di Gesù, « la vostra stimatissima della quale io molto mi lagno; primo perché mi scrivete così freddo ... » (o. c., pag. 52).
Espressioni simili potrebbero stonare su altre labbra, ma diventano normali in lui che sa amare: giustamente e puramente, elevando ciò che tocca nella sfera del soprannaturale e traducendo il ricordo nella preghiera. La preghiera è l'obiettivo che non perde mai di vista e che, una volta raggiunto, lo riempie di gioia. Ecco, infatti, come esplode il suo ringraziamento per una novena di preghiere alla SS. Trinità che madre Maria di Gesù ha innalzato per lui: « Ti benedico mille volte; mille volte sii benedetta; benedetta sii dallo stesso Dio e da Mamma Maria Santissima e da tutta la corte celestiale» (o. c., pag. 57).
Tra questo alternarsi di gioia e di angosce, Gerardo passò l'estate e le prime settimane di autunno. Il 6 ottobre iniziò la cara novena di Santa Teresa, sotto la guida della grande maestra del Carmelo. Dalle altezze della contemplazione scendeva ripieno di luce, come un messaggero dei segreti di Dio. Verso il settimo o l'ottavo giorno, durante un colloquio col padre Margotta, si sentì come alienato dai sensi. Poi, riprendendosi, disse: « In questo momento il padre Latessa è entrato in paradiso». Il Padre era morto otto giorni prima a Caposele, purificato da un lungo martirio e confortato dalla coscienza di tutta una vita spesa al servizio della buona causa.
Anche la distanza era sparita per lui.
Il 14 ottobre, vigilia della festa, riferì un fatto di sangue avvenuto poco prima a Muro.
Quella sera, si era recato, come al solito, nella casa di un concittadino che dimorava a Napoli per ragione di studi. Vi confluiva la piccola colonia murese residente nella capitale. Si parlava del più e del meno e si recitava insieme il rosario.
Gerardo, sempre tra i più gioviali, quella sera si mostrava taciturno e come in preda a un pensiero tormentoso. La cosa non sfuggì all'amico che gliene chiese il motivo. Allora lentamente disse: «Don Pasquale, non la sai la notizia ? A Muro è stato ucciso l'arciprete Coccicone ».
« Ma che dici ? Se proprio oggi ho ricevuto posta da Muro, con la data di ieri e non mi si dice nulla ? ».
« Eppure è così ! ».
L'accaduto si seppe solo dopo qualche giorno. Un sacerdote, curato della chiesa di Sant'Andrea, forse su istanza dell'arciprete Coccicone, per infermità mentale, era stato sospeso dalla celebrazione della messa. Trascorsa una settimana, era tornato dal Vescovo per ottener la propria riabilitazione. E l'avrebbe ottenuta se il Vescovo non avesse mutato parere all'arrivo dell'arciprete Coccicone. Che cosa fosse accaduto non si sa, ma l'infermo ebbe l'impressione, a torto o a ragione, che fosse stato proprio l'Arciprete ad ammiccare furtivamente verso Monsignore per sconsigliarlo da quella riabilitazione. Tornato a casa, raccontò al fratello l'accaduto, rovesciando sul preteso avversario tutti i furori della sua mente esaltata. L'esito fu catastrofico. Il fratello si armò di pugnale ed attese l'Arciprete, nascosto dietro una muriccia della Piazza di Mezzo. Quando lo vide, gli fu sopra e lo freddò con un colpo. Poi, col favor delle tenebre, si mise in salvo.
Un'altra conoscenza a distanza dovette verificarsi qualche giorno dopo la festa di Santa Teresa. Rispondendo, infatti, a madre Maria di Gesù che gli aveva inviato i saluti di suor Oliviera, Gerardo così si esprime: « Dite che Oliviera mi saluta: è vero, ma dal Paradiso, non da costà. Io ho fatto otto giorni di comunioni per l'anima sua». (o. c., pag. 51). Come aveva potuto conoscere la morte di suor Oliviera ? Ce lo dice lui stesso, ripetutamente, nelle lettere di questo periodo : « In Dio » ; « In Gesù » ; « Nello Spirito Santo ». Lo scriveva a madre Maria di Gesù : « Io so con somma certezza le pene che avete passate e passate: vi dico che le sento io più acute nel mio cuore, che Vostra Riverenza. Non potete immaginarvi con che di-stinzione e chiarezza le concepisco ! Se dico più di voi stessa, non dico bugie. Io non vi spiego cosa alcuna, perché io so che mentre Vostra Riverenza legge la presente, lo Spirito Santo mio vi fa intendere il tutto da parte mia meglio di quello che io vi potevo spiegare ».
E qualche rigo prima si era protestato di scrivere « avanti al cospetto divinissimo di Dio ... » e che « la nostra Santissima Trinità e Mamma Maria Santissima » avrebbero reso testimonianza di ciò che aveva scritto (o. c., pag. 50-51).
Eppure, proprio quando si addensavano i favori del cielo, risentiva più che mai le conseguenze del fisico stanco e malato, tanto da lasciarsi cogliere dalla distrazione e non ricordar più le cose di un momento prima. In un poscritto alla lettera per la Priora di Ripacandida, esclamava : « Sia fatta la volontà di Dio! Non mi ritrovo la lettera che io avevo fatta a Suor Maria di Gesù. è notte e non posso farne un'altra e stasera parte la posta» (o. c., pag. 58).
Questa nota di debolezza ci dice eloquentemente che la santità è sempre un incontro di grandezza e di piccolezza: della grandezza di Dio, e della piccolezza degli uomini. Il santo che legge con tanta sicurezza i decreti del cielo e sorvola gli spazi e penetra nelle coscienze, si smarrisce tra le quattro pareti della sua stanza ed è costretto ad annaspare alla cieca dietro una lettera, forse coperta da un foglio di carta. Come più o meno capita anche a noi comuni mortali. Ma nel nostro santo tale stato era significativo di un esaurimento generale giunto ormai agli estremi. Lo avevano avvertito perfino i superiori ed avevano deciso di rinviarlo a Caposele ; era giunto ormai il sostituto fratel Francesco Tartaglione. Si attendeva solo il ritorno del padre Margotta, uscito di città per i suoi dieci giorni di ritiro annuale. Gerardo rimase così a far compagnia al nuovo arrivato.
Francesco era un religioso molto ligio al dovere, ma nervoso e autoritario. Guai a contrastarlo! Sapeva reagire e come! Fortuna che ora aveva da fare con uno che amava più lui di sottomettersi che l'altro di comandare. Così l'accordo fu completo. Fratel Francesco gli contava ogni mattina il danaro per la spesa e ne esigeva conto esatto fino all'ultimo centesimo. Ma una volta Gerardo gli giocò un brutto tiro, o meglio, Gerardo stesso fu giocato dalla sua carità.
Quella mattina egli si avviava al mercato con un tarì intascato poco prima, quando gli si fece incontro un venditore ambulante che gli pose sott'occhio tutte le sue mercanzie: esca, zolfanelli e pietre focaie, e lo invitò a comprare. Gerardo si mise a ridere : « Che vuoi che me ne faccia di codesta roba ? ».
Ma l'altro fece uscire da sotto la barba arruffata una voce lamentosa : « Muoio di fame e non so più come fare a campare ». Quando è così, la cosa cambia aspetto : e Gerardo, senza pensarci due volte, cavò fuori il suo bravo tarì passandolo nelle mani del venditore. Poi, con le tasche rigonfie, se ne tornò a casa. Sulla porta, si incontrò con fratel Francesco che gli disse: « Che cosa hai comprato ? Carne, o pesce ? ».
Gerardo fece una mezza piroetta, poi allargò le braccia, quasi a prenderlo per la vita : « Che carne, che pesce ! ? ... A che servono tutte codeste cose ? Dio solo e nulla più ! ».
« Va bene », fece fratel Francesco che già cominciava a fumare, « ma Dio vuol pure che si mangi! ».
Poi, vedendolo cavar fuori un involtino : « Ah briccone », disse, « hai sempre voglia di scherzare!».
Ma non aveva fatto in tempo a pronunziare queste parole che tornò a rabbuiarsi: « E che ci facciamo con questa roba ? ».
« Questa ? Può servire a molti usi », rispose Gerardo, ma poi, vedendo che l'altro stava uscendo dai gangheri, soggiunse : « Ecco, voglio dir la verità. Ho incontrato un povero che la vendeva: era mezzo morto di fame e gli ho dato il tarì ».
Fratel Francesco brontolò parecchio, ma per quel giorno dovette rassegnarsi a tirar la cinghia.
Compassionevole coi poveri, Gerardo diveniva inesorabile verso i mestieranti della carità pubblica.
Proprio vicino all'ospizio, tra Via dei Vergini e Porta S. Gennaro, si vedeva da qualche tempo un giovanotto allungato sul marciapiede, inseguendo con voce querula e petulante ogni passeggero. Trascinavasi lì a stento con le grucce, poi si gettava per terra, mettendo bene in mostra una gamba enorme e piena di pezze e di sudiciume. « Povero giovane ! » diceva la gente facendo cader su quella mano sempre protesa qualche spicciolo. Solo Gerardo non si lasciò commuovere, anzi, più di una volta, lo aveva ammonito a cambiar mestiere, ma l'altro lo trovava tanto lucroso che non se ne dava per inteso. Eccolo, infatti, una mattina al solito posto: si sentiva all'intorno la sua voce lamentosa che chiamava tutti i santi in suo aiuto.
Gerardo quella volta non ne potè più : gli si fece vicino ; gli strappò una per una le bende, gridandogli in faccia: « Furbo, se non vuoi morir dannato, smettila di prenderti giuoco di Dio e del prossimo ! ».
Il giovane confuso fuggì a precipizio, lasciando lì per terra gli strumenti del mestiere. Forse la lezione gli sarà servita per un pezzo Furono le ultime battute della sua dimora a Napoli. Col ritorno del padre Margotta, si preparò al viaggio. Raccolse in un sacchetto alcuni modelli di Gesù appassionato e si licenziò dagli amici.
Quali fossero allora i suoi sentimenti, lo sappiamo da una lettera del primo novembre a suor Maria Celeste dello Spirito Santo. La giovane gli aveva annunziato d'essersi consacrata irrevocabilmente al Signore coi voti religiosi. Il santo, che le aveva salvata la vocazione, nella risposta esulta di gioia: « Viva Dio e Vostra Riverenza che hai ottenuto la grazia di consacrarti maggiormente a Dio per mezzo dei santi Voti».
Ma insieme le ricorda, ancora una volta, la grandezza del suo nuovo stato che esige assoluta corrispondenza alla grazia per divenir santa e gran santa: « Ora più che mai stai con grandezza, perché sei Sposa novella del mio Signore. Oh mille volte te beata, se col riflettere notte e giorno sulla tua gran sorte, ti confondi e metti in esecuzione i perfetti costumi che il tuo grande stato richiede ... apri gli occhi e venera ogni mattina quella divina Bontà che ti fa tante grazie. Via su, fatti santa grande ... ».
Ma la santità dello stato religioso pone il santo davanti alle proprie responsabilità: « Io perdo il tempo. Dio mio, che mala fortuna è la mia che faccio passare tanti momenti e ore e giorni inutilmente, cioè senza saperne approfittare! O quanto ci perdo ! Dio sia quello che mi perdona».
La confessione tanto umile ha per fine di impegnare a pregare per lui: « Pregate, pregate sempre Dio per me. Ditegli che mi faccia santo, per carità ! ... Pregate tutte Dio per me, povero miserabile... ».
Ormai è stanco, malato e non ha altro desiderio che della solitudine. Verrebbe anche volentieri a Ripacandida, dove è atteso da tante anime sante, ma non chiede nulla ai superiori « essendo questa la strada che m'insegna il mio Dio, il mio Signore ».
O meglio, chiederà una cosa sola: d'esser murato in una stanza per non uscir più di casa: « Ora che mi ritiro, a Dio piacendo, pregherò il mio santo Rettor Maggiore che mi fabbrichino in una stanza, acciò non esca più di casa. E spero d'ottenerlo » (o. c., pag. 40). Con questo desiderio si metteva in viaggio per Caposele.