San Gerardo Maiella
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La festa del sedici Ottobre

Capitolo XXXIX

Racconta il padre Tannoia che il 14 settembre, festa dell'Esaltazione della Croce, Gerardo abbia detto a un confratello: « Oggi a Foggia la madre Maria Celeste è passata a godere Dio ». Quel giorno, aggiunge un testimone, il santo apparve più al-legro del solito, come chi custodisce un segreto di gioia. Quale ? Che la Madre gli abbia annunziato la sua prossima morte ?

All'indomani, dopo la stasi di otto o nove giorni, cominciò ad accusare i primi ritorni del male: il pallore, la stanchezza, l'affanno. Poi fu ripreso dalla febbre che gli accese di porpora le guance disfatte. Con le prime piogge d'autunno fu costretto a rimettersi a letto: era ormai certo dell'inutilità di ogni rimedio umano. « Medico mio », disse al Santorelli che era venuto a visitarlo, « Gesù Cristo vuole che io patisca e non occorre altro ».

Pure ubbidì sorridendo a tutte le disposizioni dell'amico, cercando solo di moderarne lo zelo che gli sembrava esagerato. Un giorno che gli aveva ordinato un cibo migliore per sostenere la debolezza del suo stomaco: « Dottore», disse, « non darti pensiero di prescrivermi questi cibi delicati, perché per me tanto sono le zucche, quanto la carne di piccione ». E gli rivelò d'aver domandato al Signore la grazia di perdere ogni gusto per il cibo e d'averla domandata per tre anni. Alla fine l'aveva ottenuta ; ormai per lui tutti i cibi avevano lo stesso sapore.

Il suo unico pensiero, dice il padre Caione, cronista diligente dell'ultima malattia, era di « allargare le redini a quei desideri ardentissimi ed eccessivi che aveva sempre avuti di patire qualche cosa per Dio ». Lo aveva chiesto alla Madonna durante la precedente novena della Natività, mentre infierivano i primi attacchi del male « Voglio la grazia di morire o di vivere in continuo martirio». Ebbe l'una e l'altra, perché doveva sopravvivere al male per alcune settimane e patire dolori veramente misteriosi. Quali fossero questi dolori, lo comprenderemo più facilmente, tenendo presenti quelli da lui sostenuti nell'estate del '54, durante la permanenza nella capitale. Le espressioni che ora gli escono di bocca, ricalcano esattamente quelle che allora gli caddero dalla penna, scrivendo alle sue confidenti di Ripacandida. Ci troviamo di fronte alla stessa riproduzione interna della passione e morte di Gesù. Il dramma aveva inizio ogni pomeriggio e durava all'incirca tre ore, lasciando trasparire all'esterno tracce visibili dell'interna agonia.

All'approssimarsi di quelle ore fatali, Gerardo si trascinava sul divano ai piedi del Crocifisso e rimaneva lì come « un cadavere svenato e tramortito ». Col capo affondato nei guanciali, l'occhio vivo sul viso spento, egli sembrava accogliere nella conca del proprio corpo straziato, tutta la tragedia del Calvario. L'amarezza era tanta che spesso si lasciava sfuggire dalla bocca lo stesso lamento del Maestro : « Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice ».

Una sera, appena uscito da tale stato, andò a trovarlo un sacerdote di Ricigliano, di nome Gerardo Gisone che poi abbracciò l'Istituto e fu socio del maestro dei novizi. Voleva esporgli le torture della sua coscienza, ma il santo lo prevenne, sciogliendo anticipatamente i suoi dubbi.

Sotto l'impressione del repentino sollievo, ma timoroso di ripiombare nel male, il sacerdote esclamò: « Fratello mio, prega Dio per me, perché patisco assai!». Gerardo, quasi involontariamente, rispose : « Se tu sapessi che cosa patisco io ! Si ha da patire, fratello mio, si ha da patire ! ». Quell'accenno ai suoi dolori eccitò la curiosità del sacerdote che gli rivolse insistentemente alcune domande in proposito. Ed egli: « Io sto sempre dentro le piaghe di Gesù e le piaghe di Gesù stanno in me. Io patisco continuamente tutte le pene, tutti i dolori della passione di Gesù Cristo».

Ai dolori della passione si aggiungevano altri dolori anch'essi misteriosi, anzi forse più misteriosi dei primi; tanto che egli non trova le immagini sensibili per portarli alla nostra conoscenza. Li chiama: i dolori del purgatorio. Dovevano però essere acuti se gli strappavano spesso lamenti prolungati.

Un giorno, credendo di parlare da solo a solo con Dio, disse a voce alta: « Signore, aiutami in questo purgatorio in cui mi hai messo ! ».

In quel momento entrava il Santorelli : ha inteso tutto e vuole che l'amico continui ad usargli la stessa confidenza di una volta. Ed egli: « Ho chiesto al Signore la grazia di scontare i miei peccati quaggiù; ma voglio andare in purgatorio per amore e non per i debiti dei miei peccati; perché già il mio Signore mi ha accordata la grazia di pagarli in questa vita, facendomi fin d'adesso assaggiare il purgatorio».

Come mai il santo, tanto bramoso di unirsi con Dio, ora esprime un desiderio che è teologicamente un assurdo ? Ciò rientra nelle solite follie dell'amore sofferente che pervade da cima a fondo tutta la sua vita. Ma la brama di sempre nuovi martiri non gli poteva togliere le conseguenze che il martirio provocava nella carne e nello spirito. Chi lo vide in quelle prove confessò che la sua anima pareva proprio a contatto con un fuoco soprannaturale che la bruciava senza consumarla. La lingua stessa, inaridita e grossa, era incapace di parlare: « Te lo dico in gran confidenza», diceva in uno di questi momenti al Dottore, « non posso più neanche parlare, perché assaggio un gran martirio ».

Mentre lo spirito veniva torturato da questi dolori intensi, il corpo cedeva lentamente sotto le strettoie del male che si riproduceva con gli stessi sintomi della prima volta, quando era stato stroncato dall'ubbidienza. Si notava una sola eccezione : l'assenza del sangue. Si andavano però accentuando la debolezza e l'affanno. L'affanno gli toglieva la possibilità di dormire perché appena si appisolava, il respiro ingrossato, uscendo come un rantolo dalla gola, minacciava di soffocarlo.

« Come hai passata la notte ? », gli chiedevano al mattino il Dottore e i confratelli.

Ed egli: « Io non patisco niente. Patisco perché non patisco ». Solo una sera si lasciò sfuggire un lamento, quando il Dottore gli ordinò una medicina da prendersi a mezzanotte. Allora il santo, compassionando l'infermiere che avrebbe dovuto vegliare per tanto tempo, disse : « Oh Dottore ! Questo sì che è patire ! ».

La preoccupazione che altri dovesse scomodarsi per lui, così piccolo, così insignificante, così inutile, non gli dava pace. Si confondeva per le preghiere che i confratelli recitavano per la sua guarigione e si dispiaceva che la comunità dovesse sostenere le spese della sua infermità. Questo pensiero lo torturava. Un giorno arrivò a chiedere al Dottore a quanto ammontasse il costo totale delle medicine. Aveva in Muro un parente in condizioni non troppo disagiate che avrebbe potuto rifonderlo. E soggiunse piangendo : « Io sono un soggetto inutile alla congregazione. Che bene le ho fatto io che lei debba pensare ad assistermi ? ».

Da ciò proveniva la ripugnanza estrema quando doveva prendere una medicina. Qualche volta invece era la medicina stessa che gli cagionava una nausea violenta. Allora, davanti a quei fetidi intrugli, inutili se non rovinosi alla salute, lo stomaco si rivoltava e gli uscivano espressioni come queste: « Oh mio Dio, non me la sento! Proprio non me la sento!».

Ma l'infermiere gli porgeva il cucchiaio: «Su, coraggio, per ubbidienza ! ». Alla parola : ubbidienza, ogni resistenza era vinta. Venne il momento in cui le ultime forze lo abbandonarono e l'esercizio della vita fisica sfuggì al controllo della volontà. Eppure anche allora nel corpo divenuto un tronco inerte, si manifestarono i doni meravigliosi del Signore. La sua persona emanava un profumo delicato che permeava il letto e i mobili, e si spandeva nei corridoi e nelle scale, guidando fino a lui i numerosi visitatori. Essi venivano da ogni parte, specialmente da Oliveto e da Bisaccia, ma giunti in portineria, seguendo la scia odorosa, raggiungevano senza incertezza la sua stanza.

Ognuno di questi visitatori gli portava un suo piccolo mondo di ansietà e di dolori e parlava e insisteva senza riguardi alle condizioni dell'infermo. Ma egli ascoltava tutti, spianando al sorriso il volto contratto dagli spasimi. Spesso preveniva le loro domande e i loro discorsi, consolandoli prima ancora che avessero parlato. Lo racconta di sé il signor Lorenzo di Masi, di Caposele.

Qualche cosa di simile e di diverso capitò a un giovinastro che con le sue arti malefiche aveva rotta la concordia in alcune famiglie, finché, caduto nelle stesse trame ordite contro gli altri, non sapendo come uscirne, si rivolse a Gerardo. Ma il santo, appena lo vide, gli disse: «Come avete avuto il coraggio di venire da me? Voi fate piangere tante e tante persone e poi volete la grazia da Gesù Cristo ? ». Non sappiamo l'effetto di queste parole.

Tante visite non turbarono mai la sua serenità. Sapeva ascoltare con calma e sapeva scusare con un motto di spirito le indiscrezioni degli altri. Ebbe sempre pronta l'arguzia faceta e gioviale, l'osservazione umoristica, lo scherzo amabile e gentile che non lasciava sedimenti di recriminazione o di dispetto.

Racconta il Tannoia, che un giorno venne da Oliveto il dottor don Giuseppe Salvadore per osservar da vioino il decorso del male.

Finita la visita, mentre stava per congedarsi, entrò l'abate benedettino don Prospero dell'Aquila del monastero di Montevergine. Veniva da Sant'Andrea di Conza dove trascorreva un breve periodo di vacanze ed era accompagnato da un contadino. Ma il contadino era rimasto fuori la porta. Si udivano, infatti, i suoi scarponi ferrati e si vedevano ogni tanto i suoi occhi neri sotto il ciuffo nero spiare tra i battenti socchiusi. Il santo pregò l'Abate di introdurlo. Era molto giovane e timido: un vero figlio dei campi, bruciato dal sole, ma ingenuo come un bambino. Appena dentro, egli lanciò occhiate furtive al volto pallido del santo, ai quadri, al grande Cro-cifisso squarciato, al piccolo tavolo ingombro di boccette colorate, ad un certo mobile addossato alla parete. Tutto gli sembrava stupendo, tutto gli sembrava ripieno della presenza arcana del santo di cui aveva sentito raccontare mirabilia. Specialmente quest'ultimo mobile che continuava a guardare dall'alto in basso. A che potevano servire quelle stecche bianche e nere, allineate sullo stesso piano ? E che cosa si nascondeva sotto quel coperchio di legno ?

Gerardo seguiva divertito l'inarcarsi di quella fronte e il breve roteare di quegli occhi e comprese a volo quale fosse l'oggetto di tante meraviglie: un clavicembalo che l'amico Santorelli aveva voluto portargli, per sollievo, all'inizio dell'infermità. Ma quello stupore, quella meraviglia, quante cose gli ricordavano! Gli ricordavano la sua infanzia, la sua giovinezza squallida di povero operaio alla mercè degli altri; gli ricordavano quella gente dei campi che sarebbe vissuta senza conoscere le raffinatezze della civiltà, ma che, in compenso, avrebbe continuato a godere le immortali certezze della fede, promesse ai semplici di cuore. Ebbe un moto di simpatia per quel giovane contadino e, accarezzandolo cogli occhi lucidi di febbre, lo invitò a toccare quella tastiera. Il giovane indietreggiò spaventato, guardandosi i manoni color mattone, tra le risate di don Giuseppe e dell'Abate. Gerardo insistette: « Su, su, siedi e suona un minuetto».

Ma l'altro guardava inorridito lo strumento finché l'Abate non lo spinse a viva forza sullo sgabello : « Ubbidisci, scioccone, metti le mani così ».

In quel momento una musica leggiera e vivace scoppiettò per la stanza, modulò alcuni motivi, li riprese, li svolse in un intreccio sempre più movimentato di suoni; poi si spense per l'aria tra lo stu-pore dei presenti. Ma il più sorpreso fu il contadino, che, alzandosi dallo sgabello, si guardava ancora i suoi ditoni terrosi, dicendo: « Mi si movevano da sé; saltellavano qua e là, come puledri imbiz-zarriti ! ».

Quella musica fu il preludio che la terra intonava al cielo per la dipartita del suo figlio migliore. Poco dopo fu raccolta e ripetuta dagli angeli. Attesta, infatti, il padre Petrella, che il giorno 14 otto-bre, antivigilia della morte del santo, furono uditi degli arpeggi celesti passare ripetutamente per l'aria, come cori invisibili osannanti al nuovo beato che era per aggregarsi alla loro schiera. Gerardo comprese il significato di quegli inviti e la mattina del 15, annunziò al falegname Filippo Galella di Muro, il suo ingresso in paradiso: « Maestro Filippo », disse « oggi i Padri fanno ricreazione per Santa Teresa, domani ne faranno un'altra per me ».

«Che intendi dire ? ».

« Perché la prossima notte me ne muoio ».

Sant'Alfonso aveva, infatti, introdotto nel suo Istituto l'uso di festeggiare la morte di ogni confratello, nella certezza di avere un nuovo modello da imitare sulla terra e un nuovo protettore nel paradiso.

Con questa speranza passò la giornata. Verso il tramonto allo stesso Galella che era tornato a visitarlo, domandò : « Che ora è ? ». « L'Ave Maria».

« Ancora sei ore! ». Si raccolse nella recita degli atti cristiani. Li recitava ripetutamente a voce alta, insistendo specialmente nell'atto di dolore. Poi passò al Miserere: indugiava su ogni sillaba, pausava ogni verso, intercalando, tra l'uno e l'altro, gemiti di dolore. Rèplicava specialmente due versetti e sempre con gran copia di pianto : « Tibi soli peccavi et malum coram Te feci: ho peccato contro di te e ho peccato davanti a te ! ». E l'altro : « Et a peccato meo munda me mondami dal mio peccato!».

Le guance erano rigate di lacrime; la voce tremava, la mano picchiava il petto, e lo sguardo si posava sul Crocifisso che, al lume della candela, scintillava di sangue. Di tanto in tanto, come in preda al terrore, esclamava : « Ho da fare con un Dio!».

Infine, si ricompose nella sua calma abituale. In tale stato lo trovò il Dottore. Si scambiarono qualche parola di saluto, poi Gerardo, stringendogli la mano, lo pregò amabilmente di restare in collegio quella notte. L'intenzione era palese: lo voleva vicino nel gran momento. C'era contraddizione con la preghiera rivolta al Signore di morire abbandonato come Lui ? Sì; ma è la contraddizione stessa sofferta da Gesù : « Lo spirito è pronto ; la carne inferma ». Pure il Maestro nell'orto dell'agonia aveva cercato un conforto dalle creature. Il Maestro non l'ebbe e anche a Gerardo fu negato. Il Dottore non credeva prossima la fine, aveva qualche impegno e andò via. Solo all'indomani capì il significato della richiesta e si diede delle grandi manate sulla fronte. Ma ormai era troppo tardi. Il Signore aveva permesso l'errore, perché il suo servo lo imitasse fedelmente fino in fondo.

Verso le venti fu annunziato un corriere da Oliveto, con una lettera per Gerardo da parte dell'arciprete don Arcangelo Salvadore. Gliela lesse il padre Ministro che fungeva da superiore in assenza del padre Caione. La venuta del corriere in un'ora insolita lasciava presagire qualche cosa di grave. Nel pomeriggio, mentre si cuoceva la calce per la costruzione del santuario della Madonna della Consolazione, era franata una parte della volta della calcara e la restante minacciava rovina con perdita enorme di tempo e danaro. L'Arciprete si rivolgeva alle preghiere dell'amico per scongiurare il disastro.

Gerardo seguiva le parole senza batter ciglio, chinando ogni tanto la testa in segno di consenso alla domanda di preghiere. Finita la lettura, fece prendere un po' di polvere del sepolcro di Santa Teresa e la consegnò al corriere perché la spargesse nella calcara. La polvere fu efficace. Infatti la calcara, nonostante le crepe della volta, resistette fino alla fine con grande meraviglia dei tecnici.

Fu l'ultimo miracolo operato prima di morire: un miracolo che aveva per oggetto la gloria di Dio e la carità verso il prossimo. Non era stato questo l'ideale di tutta la sua vita?

Partito il corriere, l'infermo sembrò aggravarsi; si moveva sul letto in cerca di una posizione più comoda. All'agitazione esterna corrispondeva una certa agitazione interiore perché si udiva esclamare : « Mio Dio, dove sei ? Fammiti vedere ! » e altre giaculatorie del genere. Poi riacquistò la sua pace.

Verso le ventidue, i rintocchi della campanella raccomandavano ai confratelli di raggiungere le loro stanze, di spegnere i lumi e riposare. S'udì ancora qualche passo frettoloso nei corridoi ; qualche strepito di porta; poi più nulla. La casa era addormentata. Vegliava in una stanza la fioca luce di una candela che lambiva, sfriggendo, le piaghe squarciate del Crocifisso, il velo nero dell'Addolorata e la faccia cadaverica di Gerardo. Il quale sembrava parlare con personaggi venuti dal cielo. Vaneggiamenti ? Visioni ? Non sappiamo.

A un tratto s'interruppe e, guardando verso un punto della camera, gridò a fratello Saverio D'Auria che lo assisteva: « Caccia via quei guappi ; caccia via quei milordi ! ».

L'accostamento tra la tipica macchietta napoletana e il classico signore inglese, ci dice che il senso dell'umorismo non l'aveva ancora abbandonato.

L'infermiere asperse di acqua santa la stanza e l'ammalato si quietò: sembrava sorpreso dal sopore; invece era il respiro che si attenuava.

Durò così una mezz'ora; poi sembrò riprendersi: guardò in alto, con gli occhi completamente aperti, il volto sfiorato da un sorriso; le palme abbandonate sul letto: « Guarda, guarda», diceva, « quanti abitini ! ». E gli occhi seguivano qualche cosa che scendeva dall'alto, che avanzava dalla parete di fronte. Vaneggiamenti ? Visioni ? Non sappiamo. Ma la tensione esterna gli produsse un forte turbamento di stomaco. Si abbattè sul letto come un cadavere. Poi si risollevò per prorompere in sospiri ardenti di tale intensità che l'assistente si domandava dove prendesse quella forza. Poi la voce si abbassò in un soffio: « Mio Dio, mi pento ... Voglio morire per darvi gusto ... Voglio morire per fare la vostra santa volontà ... ». Si rivolse con un cenno all'infermiere: chiese un sorso d'acqua.

Questi, con la solita flemma, andò ad ubbidire: ma il refettorio era chiuso. Andò a svegliare il refettoriere che dormiva come un ciocco. Forse l'acqua non c'era e dovette procurarsela altrove. Certo è che perdette una buona mezz'ora e Gerardo, come il Maestro, non ebbe il sorso d'acqua per le sua sete. Quando l'infermiere tornò lo vide voltato verso la parete. Dormirà, pensò attendendo con il bicchiere in mano. Ma no, era sveglio. Eccolo, infatti, voltarsi ancora verso di lui, aprire alquanto la bocca e gettare un profondo sospiro abbandonandosi sul guanciale. Era la fine. Allora l'infermiere si scosse dal suo torpore e corse a chiamare un altro fratello. Poi volò dal ministro che trovò l'infermo boccheggiante e gli rinnovò l'assoluzione sacramentale.

Dopo qualche minuto, Gerardo si addormentava placidamente nel Signore. Era circa l'una del 16 ottobre 1755. Aveva ventinove anni, sei mesi e dieci giorni.

Il padre Buonamano lo salassò a un braccio: ne spicciò vivo sangue. Commosso fino al pianto, fece svegliare la comunità, annunziando il felice trapasso del caro confratéllo. Tutti si portarono nella sua stanza, trasformata in camera ardente. Nel silenzio s'udiva soltanto qualche singulto: tutti sentivano il bisogno di raccomandarsi alle sue preghiere perché erano sicuri che fosse in paradiso. Specialmente il padre Buonamano che gli era stato vicino nell'ultima malattia. Perciò, desideroso di avere un segno tangibile della sua gloria, esortò i presenti a pregare il Signore perché facesse risplendere sotto i loro occhi la santità del suo servo fedele.

Tutti pregarono; poi, dopo alcune penitenze collettive, tornarono nella stanza del defunto che intanto era stato rivestito dei propri abiti. Stringeva il Crocifisso sul petto con le palpebre leggermente socchiuse. Pareva riposasse, come dopo uno dei suoi viaggi apostolici. Era più leggiero, sfiorato appena dalla luce incerta dell'alba che saliva dai monti del Vulture.

Il padre Buonamano gli scoprì il braccio destro, estrasse il rasoio e, tenendolo in alto, esclamò: « Gerardo, voi siete stato sempre ubbidiente. Ora io vi comando, in nome della SS. Trinità e in virtù di santa ubbidienza, di dare un segno della vostra virtù, operando qualcuno dei vostri soliti prodigi».

Abbassò la lama a fior di pelle e tagliò dove la vena formava un rigonfio bluastro. Dalla vena spicciò nella bacinella sottoposta «circa mezzo rotolo di sangue», cioè un quarto di litro. Tutti si affrettarono a intingervi fazzoletti e pannilini per la possibile ri-chiesta dei devoti.

Quando i primi raggi di sole sbucarono da un cielo cinerino, già la chiesa rigurgitava di fedeli: donde venivano ? Chi li aveva avvisati ? Nessuno mai lo seppe. In un baleno la notizia era volata per ogni casolare della valle e dei monti, chiamando a raccolta una fiumana di persone. Tutti sfilavano davanti al defunto che dormiva il suo placido sonno sotto la navata centrale; poi tornavano una prima, una seconda, una terza volta, non ancora sazi di contem-plarlo e di raccomandarsi alle sue preghiere.

I più indiscreti si accostavano fino a lui, cercavano di tagliargli un lembo di veste, una ciocca di capelli, e chissà dove sarebbero arrivati se fratel Gennaro Cerreta, accortosi della cosa, non avesse montato la guardia accanto alla bara. La sfilata durò per tutta la giornata di giovedì, né accennò a diminuire il giorno dopo. Davanti a tale spettacolo, anche il santo sembrava volesse rompere il sonno della morte per partecipare al dolore del popolo. Infatti appariva col volto imperlato di sudore. Quanto sudore! rillava alla luce delle candéle, come rugiada attraversata dal sole, scorrendo a rivoli sulle guance risecchite. Vi passavano i fazzoletti e il sudore risorgeva come da fonte inesauribile. Il padre Buonamano pensò giustamente che questo fosse un altro segno del cielo e, per soddisfare la moltitudine, volle procedere a un nuovo salasso.

Erano le tre del pomeriggio. Fece accendere tutte le candele dell'altare maggiore. Poi, nel silenzio, tenne al popolo che gremiva la chiesa una breve esortazione. « Preghiamo Iddio », concluse, « preghiamo Iddio che mostri qui a voi tutti un nuovo segno della santità del suo servo fedele ».

Si accostò alla bara, estrasse ancora una volta il rasoio, e, mentre il padre Strina reggeva la bacinella, scandì il precetto di ubbidienza in nome della SS. Trinità.

Ci fu un attimo di sospensione, poi una lama lampeggiò e dal braccio spicciarono due once di sangue. Allora tutti esplosero in grida ed acclamazioni, alzando in alto i loro fazzoletti. Sembrava il trionfo tributato a un conquistatore.

Prima di procedere alla sepoltura, si mandò in cerca di un pittore per il ritratto. Si trovò una specie di scultore di passaggio, specializzato in mezzi busti di cera ed egli fu incaricato di prendere la maschera dell'estinto in duplice copia : una per il collegio, l'altra per la famiglia Salvadore di Oliveto che ne aveva fatto richiesta. Dopo di che, il cadavere fu tumulato davanti alla porta della sagrestia, senza alcuna pompa. Sopra vi fu posta una semplice pietra, con la leggenda del nome, cognome, patria, anni di vita, giorno della morte.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021