L'amicizia dei santi
Capitolo XII
La vita religiosa, osservata dalle navate di una chiesa quando i monaci occupano i loro stalli nel coro e le loro voci si fondono nel canto liturgico, può sembrare di una maestà solenne ed omogenea. Ma basta penetrare in quei sacri recinti e vivere un giorno la loro stessa vita per vedere spuntare, tra la massa amorfa di tonache ambulanti, le individualità più spiccate e, con esse, le lotte e gli attriti più dolorosi. Anche tra i santi. Questi conservano sempre, perfino nei gradi più alti della perfezione, eccentricità e difetti, e sono portati dal loro stesso fuoco di carità a combattere con uguale intransigenza gli errori propri e gli altrui. Vogliono dagli altri ciò che pretendono dalle proprie forze, senza accorgersi che il loro eroismo non può servire di norma alla maggioranza costituita da mediocri: e i mediocri sono il tessuto connettivo della vita religiosa e civile. Da qui, le incomprensioni e le discordie anche nei monasteri più esemplari.
Lo dovette imparare a sue spese il padre Cafaro. A forza di esigere la scarnificazione del proprio essere, non si era reso conto delle necessità concrete dei sudditi, sottoposti a privazioni di ogni genere, rese ancora più dolorose dai suoi modi bruschi e scattanti. Perciò si diffuse un certo malumore che arrivò ben presto alle orecchie del fondatore. Egli non era uomo da transigere, quando ne andava di mezzo la salute dei congregati, e inviò, come visitatore straordinario, il padre Mazzini, suo consultore. Questi giunse a Deliceto la sera del 17 giugno del 1751, armato di pieni poteri: chiamò uno per uno i padri e i fratelli a un colloquio privato; ascoltò lamenti e proteste; percorse diligentemente i libri dei conti; perlustrò la cantina, la dispensa, ogni cosa. Poi chiamò il padre Cafaro e gli disse con rude franchezza il proprio pensiero. Era un santo anche lui e i santi non conoscono gli infingimenti della falsa diplomazia.
Il padre Cafaro ascoltò umilmente, in silenzio, le osservazioni giuste o ingiuste che fossero. Si dichiarò prontissimo a rassegnare le dimissioni dalla carica e lo avrebbe fatto se non fosse stato sconsigliato dal proprio direttore di spirito. Sorrise anche, ma il suo cuore versava sangue. Lo rivelò in una lettera confidenziale al padre Margotta, suo amico, lamentandosi d'essere stato processato come rettore aspro e senza carità, anzi addirittura d'essere stato sottoposto a una formale inquisizione. Insomma, soggiunse: « Mi sono immaginato di tenere in casa un commissario, il quale, dolcemente, per quattro giorni, mi ha tenuto angustiato». E più avanti, con una espressione ancora più forte, ma tanto umana, perché anche i santi conservano intatta la loro umanità: «Pensando d'averlo un'altra volta, mi viene il freddo e la febbre* (Epistolae Ven. S.D. Pauli Cafaro, pag. 44).
In questo coro di proteste mancò certamente una voce : quella di Gerardo. E come avrebbe potuto lamentarsi del suo padre spirituale che da venti mesi lo guidava per le vie della santità ? Era austero ? Era brusco ? No, era stato anche troppo buono con lui che si sarebbe meritato di peggio. Sono supposizioni queste che si fondano su un fatto concreto : sulla santa amicizia che sorse in quei giorni tra il visitatore e l'umile fratello con reciproci vantaggi spirituali. All'indomani della professione religiosa, Gerardo gli scriverà: « Quanto io vi ami presso Gesù Cristo, (e spero che sia un puro affetto in Dio), non lo posso spiegare. Vi ringrazio sommamente della pietà e carità che mi avete usata nel disporre il nostro Padre a farmi fare la santa Professione».
Donde poteva sorgere tale amicizia in un uomo dell'austerità di padre Mazzini se non dal colloquio di quei giorni ? Egli dovette rimanere profondamente sconcertato quando, dopo avere ascoltato dagli altri una lunga tiritera di lamenti, più o meno fondati, più o meno dettati da risentimento o da zelo indiscreto, finalmente veniva a trovarsi di fronte a questo fanciullone ingenuo che non si era accorto mai di nulla, al quale non era mancato mai nulla, che aveva trovato sempre il superiore troppo benevolo e non pensava che ad accusare se stesso e la propria incorrispondenza alla grazia. Il padre Mazzini lo avrà guardato a lungo; avrà affondato i suoi occhi in quella coscienza, ne avrà colti gli ideali di santità e di macerazione e, tornando a Pagani, avrà perorata la sua causa presso il Rettore Maggiore ottenendogli l'anticipo della professione religiosa e, per conseguenza, l'anticipo della vestizione dell'abito. Questa avvenne probabilmente nel mese di luglio del 1751, forse nella festa titolare del Santissimo Redentore. Con quale entusiasmo Gerardo indossò la gloriosa divisa di missionario redentorista e si premette sul petto il Crocifisso, esclamando: « che io muoia, o Signore, per amor tuo, giacché tu ti sei degnato di morire per amor mio!».
Era la ripetizione più consapevole dell'offerta già fatta dall'infanzia e Gesù l'accettò immediatamente, sottoponendo l'eroico discepolo a una sequela di prove delle quali troveremo una documentazione sempre più abbondante nell'epistolario e nella tradizione. La prima prova, riferita appunto dalla tradizione, risale all'estate del 1751.
Il santo si trovò improvvisamente avvolto da una fitta cortina di tenebre interiori, con tutti i fenomeni che sogliono accompagnare la notte dell'anima: stanchezza, disgusto spirituale e timore ossessivo del peccato. La preghiera, la contemplazione non lo mettevano più a contatto con Dio : lo facevano approdare in una oscurità, in una nuvola che, mentre gli toglieva Dio dagli occhi, eccitava la sua brama di vederlo e conoscerlo. Ed era questa brama, questo desiderio insoddisfatto e impotente di Dio che gli generava nel cuore l'angoscia penosa, il terrore e la contraddizione interiore. Certo, per noi profani, è difficile comprendere l'amarezza della prova, ma i santi che l'hanno sperimentata, ci assicurano che è tra le più terribili : un vero purgatorio in terra.
Gerardo passò in questo stato la festa dell'Assunta, arido come la campagna dei dintorni, screpolata dalla canicola e cominciò la cara novena della Natività di Maria. Ma né la funzione serale, né i suoni e i canti, né le preghiere e le penitenze raddoppiate, riuscirono a soffocare la voce che dall'interno sorgeva a rimproverargli le proprie colpe. Era una visione nuova, lucida e fredda: la sua anima gli appariva nuda e piena di brutture. Dio lo sentiva come giudice, anzi come giustiziere, e, tentato di disperazione, ripeteva a se stesso : « Anche l'inferno è poco per me ! ».
Ma la sera del 5 settembre, arrivò a Deliceto, con il chierico Bernardo Apice, un religioso appena diciannovenne: Domenico Blasucci. Ripiegava, dolcemente sul petto il volto pallido di adolescente malato, con gli occhi sempre raccolti sotto il velo delle palpebre. Gerardo lo vide e ,vederlo e amarlo fu la stessa cosa : aveva avvertito il profumo della grazia che emanava da quel corpo verginale. Anche il giovane comprese subito la santità di quei laico, dall'apparenza trasandata e distratta, e lo amò come sanno amare i santi: in Dio. Perciò andarono insieme a pregare davanti all'altare della Madonna: due volti diafani, due espressioni diverse dello stesso ardore verso il cielo. Il primo, Domenico Blasucci, era un fuoco contenuto che arde nelle profondità dell'anima, immobile nell'apparenza ; Gerardo, invece, era una fiamma dai mille guizzi rapidi e brucianti, ma una fiamma che gemeva come sopraffatta dalla sua stessa potenza distruggitrice. Perciò emetteva, di tanto in tanto, certi sospiri dolorosi che lo facevano trascolorare.
« Fratello, ti senti male ? » gli chiese il Blasucci qualche giorno più tardi incontrandolo nel corridoio.
« Oh sì, rispose, il mio cuore scoppia, non ne posso più! » e la voce finì in un gemito.
L'amico commosso gli tracciò una croce sul petto che si slargò in un profondo respiro. Il santo era libero, completamente libero e spiccò un salto di gioia. Subito corsero a ringraziare la Vergine e, ai suoi piedi, s'impegnarono solennemente fino alla morte alla recita reciproca di un'Ave Maria giornaliera. Fu questo l'anello della loro amicizia.
Eppure mai due caratteri furono così dissimili: il Blasucci, compassato e modesto, s'imponeva a prima vista all'attenzione degli altri; mentre ci voleva un po' di buona volontà per cogliere, sotto la superficie bizzarra, la santità di Gerardo, sempre folle, sempre estroso nell'amore. Ma questi due caratteri, umanamente inconciliabili, si compresero e si armonizzarono perfettamente in una visione superiore di carità, operando insieme un bene immenso con lo spettacolo delle loro virtù. Ciò avvenne specialmente nel seguente mese di ottobre, quando numerosi sacerdoti della diocesi di Lacedonia affollarono il collegio per gli esercizi spirituali. Li guidava il loro vescovo mons. Amato. Costui non poteva staccare lo sguardo da quell'adolescente con le braccia piegate costantemente sul petto. Lo voleva ogni mattina a servirgli la messa: vicino a quell'angèlo di cui nessuno conosceva il colore degli occhi, gli sembrava di potersi accostare meno indegnamente all'altare. Ma nei tempi liberi, andava ad osservare il giaciglio di Gerardo con quei teschi schierati sul pavimento e ne ripartiva edificato e atterrito.
Ma intanto grosse novità scuotevano il piccolo ambiente di Santa Maria della Consolazione. Dopo la visita canonica del giugno precedente, il padre Cafaro aveva continuato a portare serenamente la sua croce, sempre in attesa della decisione del Superiore Maggiore che non poteva tardare. Perché Sant'Alfonso comprendeva bene che la sua posizione era alquanto scossa e, se temporeggiava, era solo per non dare troppo aire a qualche spirito turbolento. Ma nel mese di ottobre, troncò ogni indugio, invitando il padre Cafaro a Ciorani, con l'intenzione di mandarlo a presiedere il collegio nascente di Caposele dove l'osservanza, sotto il governo del mite padre Margotta, gli sembrava alquanto decaduta.
La notizia per qualche giorno fornì materia ai discorsi e ai commenti dei religiosi. Molti se ne rallegrarono e qualcuno esternò il suo disappunto. Gerardo rimase impassibile : solo nelle profondità dell'anima avrà sentito echeggiare una nota di rimpianto per l'austero direttore che Dio aveva posto sul suo cammino. Ora più che mai lo stimava e lo benediceva. E noi dobbiamo riconoscere l'efficacia provvidenziale di quella direzione. La stessa rigidità inflessibile era stata la solida diga alla carità travolgente di Gerardo ; come quella prudente noncuranza che confinava col disprezzo era servita di contrappeso ai privilegi della sua anima. Ci sembrerà una direzione troppo prudente ? Ma solo chi conosce il valore inestimabile di un tesoro, può trepidare per esso. E il padre Cafaro conosceva troppo bene la bellezza regale di quell'anima e sapeva che un granello di orgoglio può abbattere una montagna di santità. Perciò lo tenne al chiodo, lontano dal chiasso. Ogni aura popolare lo metteva in sospetto e correva ai rimedi : segregazione e silenzio. Se doveva parlare di lui, ne parlava a mezza bocca, quando era lontano e con gli amici più fidati. Allora gli uscivano espressioni di ammirazione incondizionata, ma guardandosi bene intorno che non lo sentissero orecchie indiscrete e sempre pronto a rimettersi in contegno se lo vedeva comparire e a fustigarlo con le armi della mortificazione e del disprezzo.
E Gerardo che lo preferiva proprio per questo, lo supplicò di continuare a dirigerlo da lontano.
Lo vide partire in una fredda giornata di novembre tra i rimpianti di ,quanti amavano quella scabra figura di asceta, quel cavaliere incorruttibile della regola, che aveva voluto sempre e dovunque il raccoglimento e la pietà, anche a scapito dell'interesse. Con lui partiva anche il Blasucci, quella figura mingherlina di adolescente malato, dal viso bianco e verginale e dal cuore innamorato di Dio.
Gerardo lo salutò l'ultima volta ai piedi della Vergine e lo salutò mentalmente ogni giorno con la recita dell'Ave Maria.
Dopo appena dodici mesi, il Blasucci, consumato dalla tisi, ma molto più dall'amore di Dio, se ne volava al cielo, ricco di meriti. Era il 2 novembre 1752: aveva venti anni. Ma, poco prima di morire, tramite un confratello di passaggio, ricordava all'amico la promessa e soggiungeva : « lo ho adempiuto fedelmente la mia ! L'Ave Maria di Gerardo, ne siamo sicuri, lo accompagnò nel grande trapasso.
è questa l'amicizia dei santi: qualche cosa che sfiora appena la natura e l'incatena a Dio per l'eternità.