La crocifissione
CAPITOLO XII
Nel regno di Napoli era recentemente fìorita la congregazione dei Redentoristi fondata da S. Alfonso Maria de' Liguori per la santificazione dei suoi membri mediante la fedele imitazione del Redentore e per la cristianizzazione dei popoli per mezzo dell'apostolato della divina predicazione.
Un giorno, Gerardo incontrò appunto un certo fra' Onofrio laico redentorista venuto a Muro per la questua.
-Si sta costruendo una Casa per i nostri missionari presso il santuario di Caposele ... -gli confidò il questuante.
-Io, purtroppo, non ho denaro da offrirvi... -dichiarò il Majella. -Potrei però offrirvi me stesso, disposto come sono a seguirvi anche subito.
Ma fra' Onofrio, dopo averlo osservato, rispose:
-Non fa per te la nostra Congregazione, poi eh è tra di noi si soffre molto e si vive con sommo rigore.
-Ecco appunto quanto cerco io ... -dichiarò Gerardo con un vago sorriso di compiacenza.
-Comunque sia, mio caro, io non posso far nulla. Prova a parlarne al P. Garzilli, che predica in cattedrale.
Allora il Majella volò alla cattedrale per interrogare il predicatore redentorista intorno allo spirito dell'Istituto e alla Regola. Poi gli parlò della propria aspirazione alla vita religiosa. Ma il P. Garzilli nicchiò, perchè l'aspetto del giovane lo rendeva perplesso. Gerardo dovette quindi ritornare al suo laboratorio nuovamente deluso, ma non si perdette di coraggio. Moltiplicò piuttosto le preghiere e penitenze, per rendersi degno della nuova vita intravista e vagheggiata, ma purtroppo ancora inaccessibile. Pregava fervorosamente il divin Maestro di chiamarlo al suo seguito come aveva fatto con il giovane del Vangelo, disposto però a seguirlo immediatamente nonostante i sacrifici che implicava la vocazione; interponeva inoltre la materna intercessione della Vergine per ottenere la grazia, che tanto desiderava.
Durante le lunghe e serafiche adorazioni, egli comprese meglio di prima là sublimità di una vita consacrata alla imitazione del Redentore e alla salvezza delle anime più abbandonate. Intensificò quindi il suo zelo nell'esercitarsi all'apostolato, al quale il Signore lo chiamava, procurando d'impedir l'offesa di Dio e specialmente di farlo amare. Continuò a raccogliere i ragazzi per parlar loro di Dio e sottrarli ai pericoli della strada; appena divenuto loro confidente, li accompagnava alla chiesa di Capotignano dove, recitate insieme alcune preghiere, li ammaestrava nelle verità della fede, li premuniva contro i pericoli spirituali, ispirava loro sommo orrore al peccato e amore alla virtù.
Poi, in quaresima, si prefisse di "morir con Gesù". "Nell'avvicinarsi alla Settimana santa -scrive il P. Ferrante -egli sembrava un cadavere ravvivato solo da un desiderio infìnito di sofferenza. Quando i suoi sguardi si posavano sul Crocifisso, sembrava che le due immagini si fondessero in una sola immagine di dolore, irrigidita nella carne senza sangue.
Memoranda, a tale proposito, la penosa partecipazione del Santo alla scena della crocifissione, che si svolse tra le penombre della cattedrale. Nessuno, meglio di Gerardo, poteva rappresentare il divin Morente. In quel Venerdì santo, la cattedrale era gremita di fedeli radunati per assistere alla tradizionale "crocifissione di Gesù".
A un tratto, cadde il velario e apparve allo sguardo compunto della moltitudine la tragica scena del Golgota: la croce dalla quale pendeva il “divin Condannato” tra due ladroni pure suppliziati. Gerardo, che rappresentava il Martire del Calvario, aveva un aspetto tragicamente spettrale': il viso pallido e rigato di sangue, la fronte cinta di spine, il petto coperto di lividure e di piaghe, le mani e i piedi fissi al duro legno con funi e chiodi. Con il petto ansante e gli occhi rivolti al Cielo, sembrava un moribondo in procinto di esalar l'anima. In realtà, egli soffriva acerbamente nel restare in quella posizione penosa, quasi immobile, sospeso tra cielo e terra. Ma soffriva volentieri, anzi con gaudio, perché pensava al divin Sofferente, che lo associava così ai propri dolori per arricchirlo di meriti.
Tutti gli sguardi erano fissi su di lui, che parlava con l'aspetto dignitoso della rassegnazione e della pazienza. Egli ispirava devozione e gli astanti avevano l'impressione di assistere quindi veramente alla scena del Golgota, anche perchè ai piedi del "crocifisso'" centrale stavano le "pie Donne" con l' "Addolorata " ritta presso la croce del centro.
Nonostante la innumere moltitudine, incombeva su di essa come un silenzio di tomba. Soltanto quando, dopo il "consummatum est" proferito dal “crocifisso" del centro, la testa di lui ricadde sul petto come se fosse veramente spirato, dalla folla si levò un gemito':
-Figlio mio!
Poi si udì un tonfo.
Mamma Benedetta, confusa tra la moltitudine, aveva emesso quel gemito perchè si sentiva trafiggere il cuore dalla pena di avere veramente perduto il suo Gerardo ed era perciò svenuta.
"Ella -osserva P. Ferrante -si era sentita associata a un grave dolore ed era perciò caduta sotto il suo peso, povera, umile donna, non eroina nè santa, ma soltanto madre. Ma la madre è sempre su ogni "calvario" e perciò mamma Benedetta sarà chiamata ancora a partecipare, con il suo contributo di lacrime, al totale sacrificio del figlio'".