L’ultimo viaggio
CAPITOLO XVI
197. La lettera circolare dell’Arcivescovo. 198. La tisi che s’impossessa del Santo. 199. In Senerchia trascina come paglia una pesantissima trave. 200. Lascia di sè gran fama in Oliveto. 201. L’estasi. 202. Una sinistra previsione.203. I santi discorsi 204. Da Contursi in Auletta. Converte e guarisce. La fuga a Vietri. 205. Una profezia. 206. In S. Gregorio è sorpreso in estasi. Il pensiero occulto conosciuto.207.L o sbocco di sangue e la lettera al P. Caione, 208. Fratel Fiore che guarisce per obbedienza. 209. Altre guarigioni. 210. L’estasi e la messa solenne. 211. L’obbedienza dell’uccello.
197. Prima di partire dal collegio di Materdomini, l’Arcivescovo di Conza, il quale aveva molto a cuore che ai portasse a fine quella fabbrica, sia perchè ne sarebbero usciti più numerosi i missionari ad evangelizzare la sua diocesi, sia perchè da questa più numerosi vi si sarebbero raccolti più volte l’anno sacerdoti e laici a fare i santi esercizi, consegnò a questo intento al P. Caione trecento ducati del proprio ed una lettera circolare, dove domandava ai proprietari ed inculcava a tutti i luoghi pii di coadiuvare con le loro elimosine quest’opera di Dio e di comune vantaggio spirituale, aggiungendo ancora che sarebbe stata cosa ottima inviare due fratelli laici, che andassero in giro a raccogliere l’elemosine dei fedeli. Il Padre subito pensò che uno dei due poteva essere il fratel Gerardo, come il più atto all’uopo, e stabilì che l’avrebbe mandato dopo la mietitura alla metà di luglio.
198. Intanto di Gerardo si era impossessata una tisi lenta, che egli stesso aveva domandato al Signore. Sai? aveva detto alcuni giorni prima al fratel Gennaro Rendina, che era uno dei suoi più cari, ho domandato a Gesù Cristo di morire etico ed abbandonato: e pochi giorni appresso, incontratosi col medico Santorelli: Dottore, gli disse, voi non sapete che quest’anno morrò etico?- E quegli : Come lo sai? - L’ho chiesto di grazia a Gesù Cristo ed egli si è compromesso di farmela. - E perchè etico ? - Perchè morendo cosi, morrò mezzo abbandonato, mentre nella comunità, che pure usa somma carità cogli ammalati, non vi potrà essere per questa malattia molta assistenza per timore che non s’ infettino gli altri. Preso da questo morbo, impetrato con le preghiere ed aggravato dalle soverchie cure che si prendeva attorno la fabbrica, aveva nella giornata sputi di sangue e spesso nella mattina, levandosi, si trovava con la bocca piena di sangue. I Padri, assuefatti a vederlo sempre magro e scolorito, e perchè egli non mai si querelava dei suoi malanni, nulla si addiedero delle nuove sue sofferenze, nè punto pensarono di sgravarlo dalle fatiche. Nondimeno, venuta la metà di luglio, il P. Caione, vedendolo tanto sparuto, sentiva difficoltà a mandarlo per la questua, com’aveva prima stabilito . Ma perchè sapeva per esperienza com’ei fosse obbediente fino al miracolo, se lo chiamò una sera nella stanza e, postagli la mano in fronte, gli andava mentalmente dicendo : Io voglio in nome della Santissima Trinità che stii bene e vada a fare la questua. Ei rideva . Perchè ridi? disse il padre . - Rido perchè Vostra Riverenza non parla, e pure parla: vuole che io stia bene e vada a fare la questua: ebbene voglio fare la santa ubbidienza: voglio star bene e farò la questua. Rassicurato da questa risposta, il Padre lo fece partire col fratello Francesco Fiore, affinchè si dividessero tra loro la fatica del viaggio. Egli prese la via di Senerchia, e, noi seguiamolo, per vedere com’altresì questo viaggio sia una catena di miracoli.
199. Giunto a Senerchia, vi trovò che tutti erano in pena per non aver potuto trovare il modo di trasportare dalla cima della montagna, dov’era, una pesantissima trave, che doveva sostenere il tetto della chiesa parrocchiale, allora in fabbrica . Allegramente! disse ai popolani che erano accorsi a lui, la Chiesa è di Dio ed egli penserà al modo di farla terminare. Andiamo alla montagna. Come furono lassù, legò con fune la trave e, dopo aver invocato in ginoccchio l’aiuto del cielo, a quella rivolto : in nome della santissima Trinità ti precetto, o creatura di Dio, a seguirmi. Ciò detto, andò giù veloce, tirandosela dietro, come se fosse stata una paglia.
200 . Quei di Senerchia ebbero pure altre occasioni di ammirare la santità di Gerardo ed il credito di cui godeva appresso Dio . Imperocchè narrano i processi giuridici, che essendo vicina a morire per dolori di difficile parto una certa donna di nome Meola, si ricorse al caritatevole Fratello, il quale subito raccomandò la partoriente a Dio. Furono così efficaci le sue preghiere che la Meola,
già disperata dai medici ebbe immantinente un felicissimo parto ed in tal modo con la vita della madre fu altresì salva quella della prole. Racconta il Tannoia, che lo stesso giorno o l’indomani, stando Gerardo in Chiesa e soddisfacendo le sue divozioni, alla presenza di una quantità di popolo, si vide sorpreso da un’estasi, che gli durò per molto tempo.
201. Non fu questa, come sembra, la sola estasi che Gerardo ebbe in Senerchia . “Mia madre (così nel processo di beatificazione un certo Francesco Tecchi), mia madre stessa, con gli occhi suoi, vide più volte Gerardo pregar in quella nostra chiesa di Senerchia così fervorosamente, e talmente s’immergeva in Dio, che veniva assorto in profonda estasi e sollevavasi in aria dal pavimento tra l’ammirazione, lo stupore ed il pianto e degli astanti”. Da quel tempo tutti gli abitanti di Senerchia lo tennero in conto di gran santo e questa venerazione, dopo la sua morte, s’accrebbe in modo, che in tutta la parrocchia non vi fu quasi nessuno, che non se l’avesse scelto come speciale avvocato e patrono presso Dio . “Oggi è cosi generalizzata la devozione per lui (disse nella sua deposizione Liberia Gasparri, naturale di Sencrchia), che non e vi è persona che non l’ abbia a speciale avvocato presso Dio! Ed è costume generale che ad ogni preghiera suole aggiungersi un Pater, Ave e Gloria alla SS.ma Trinità per aver ricolmato di tante grazie e virtù sante questo suo Servo. Tutti, si raccomandano a lui nei loro bisogni, e ne è prova la continua ricerca di un dente, che del venerabile Servo di Dio conserviamo noi nella nostra famiglia, ed ognuno viene a prenderlo per applicarlo sul corpo degli infermi”. Prima di partire da Senerchia, scrisse a D. Angelo Salvadore, arciprete d’Oliveto, dove doveva andare, chiudendo la lettera con queste parole: Vostra signoria desiderava conoscere me peccatore, ed ecco che il Signore l’ha compiaciuto. Trasecolò l’arciprete nel leggerle; nondimeno volle ancora dissimulare per meglio accertarsi. Gerardo, appena arrivato, al primo incontro gli disse: Arciprete, avete lette quelle parole in fine della lettera?- Sì. l’ho lette: vi firmavate “vostro indegnissimo”ed io ho ammirato la vostra umiltà. - No, non sono queste le parole. - Ah! saranno state forse quelle altre “fratello in Gesù Cristo”: ma già si sa che tutti siamo fratelli in Gesù Cristo. - Neppure. - Ma a quali parole dunque alludete? Ecco, disse allora il Santo: Voi da gran tempo avete gran desiderio di conoscermi: ed io son venuto: il Signore mi ha mandato a voi. Tra lo stupore della mente e col cuore trepidante di religioso rispetto, l’arciprete l’accompagnò alla camera, che gli era stata apparecchiata e lo lasciò solo, affinchè si riposasse. Venne l’ora del pranzo ed egli non era ancora uscito di camera. Impressionato da quel primo fatto, l’arciprete spinse la sua curiosità e, dopo un lungo aspettare, guardò di nuovo e lo vide nella medesima posizione. Chiamò la famiglia, e tutti furono in una viva commozione: non pensavano più a mangiare: versavano dagli occhi lagrime di consolazione, pensando di avere in casa un santo. Allora viene Gerardo, dicendo con disinvoltura: Fate l’ora vostra, chè non intendo incomodar la famiglia. Si posero a tavola e pranzarono, frenando i singhiozzi e lagrime, perchè lo vedevano ancora col volto infiammato.
202. Nei giorni seguenti si diede a fare la questua. Allora avvenne che, gridando col signor Amato Berilli, gli andassero gli occhi sopra un fanciullo e subito esclamasse: Oh Dio! che mostro va crescendo in Oliveto! - Io lo ricordo quel mostro, disse poi un testimone nell’uno e nell’altro processo, lo ricordo che nominavasi Michelangelo. Tra tante scelleraggini, giunse fino ad attentare alla vita del padre, il quale, per difendersi, involontariamente l’ uccise. L’arciprete D. Angelo e tutti quelli della casa, avendo di Gerardo il concetto di un santo, furono spinti da naturale curiosità a spiarne tutte le azioni: il che portò la comune persuasione che Gerardo fosse un prodigio di mortificazione. Osservato per entro le fessure della stanza assegnatagli per dimora, fu veduto coperto di cilizii e flagellarsi fino scorrergli il sangue per le spalle. Se dormiva tre ore, era il massimo : il resto della notte e del riposo pomeridiano lo passava in orazione. Due once di cibo bastavangli al pasto, cosicchè tutti domandavansi come potesse vivere con sì scarso alimento. La cosa però, che cagionava più ammirazione, era il modo, onde egli discorreva delle cose di Dio. Attesta il P. Caione, che, avendosi copiato una predica del suo venerato P. Cafaro sulla grandezza di Dio (predica, dice S. Alfonso, che lasciava sempre tutti gli uditori attoniti e stupiditi) e leggendola spesso, ne profittava per parlare, sempre che poteva, delle divine perfezioni, non solo con l’aggiustatezza di un dotto teologo, ma anche con la piena di affetti di un uomo assorto in Dio, divampando allora il suo volto di un certo fuoco e di una luce, che sembrava un angelo del Paradiso. Or questi divini attributi e specialmente quello della immensità, nella cui contemplazione, come egli diceva, se l’era di continuo spassala nel tempo delle sue umiliazioni e della sua privazione della santa comunione, formavano l’ordinario argomento dei suoi colloqui col suo stimabile ospite.
203. Una sera, fra l’altre, durante e dopo la cena, discorrendo su questo caro argomento, lo faceva in modo da incantare e rapire ognuno. “Spiegandoci (così più tardi diceva l’arciprete al P. Caione) con similitudini espressive e vivissime come noi viviamo immersi in Dio, talmente che, se Egli ci levasse dagli occhi la visiera, in ogni luogo vedremmo il paradiso, e continuando per tratto di tempo le stupende sue spiegazioni, in un momento si vide trasformato il volto e tutto assorto nel suo caro Dio”. Un’altra sera, egualmente dopo la cena, essendosi i due amici lungamente trattenuti in divoti ragionamenti, l’arciprete finalmente rese Gerardo attento all’ora già avanzata della notte. L’ora è mollo tarda, fratel Gerardo mio caro, gli disse. E’ certamente cosa piacevole parlare di Dio e delle cose sue; ma Iddio vuole che diamo al nostro corpo il riposo di cui abbisogna. Non rispose Gerardo, ma diede in un accesissimo sospiro: e domandato perchè così sospirasse: Oh Dio! rispose, che miseria è la nostra, essendo che nel dormire non possiamo pensare al nostro Dio!
204. Da Oliveto si portò a Contursi e, dopo un giorno, da Contursi in Auletta. Quivi, passando per la piazza, si accostò ad uno sconnosciuto e, menatolo in disparte, gli disse: Figlio mio, come puoi vivere in pace? Sai d’aver commesso quel peccato (e gli disse quale) e non te ne sei mai confessato. Va subito, confessati, e mettiti in grazia di Gesù Cristo. Il peccatore, caduto in ginocchio, si diede in colpa e, promessa l’emenda, andò a confessarsi, perseverando poi nel bene fino alla morte. - Guarì poi istantaneamente e per sempre con una sola benedizione la figlia del sig. Giuseppe Mari, la quale soffriva di violentissime convulsioni. Ma ciò che gli suscitò più rumore attorno, fu la guarìgione di una giovanetta, che avvenne così. Giaceva quella da più anni sopra una seggiola, tutta attratta nelle membra, sempre inetta a qualunque lavoro. Chiamato a lei e pregato a raccomandarla a Dio: Non è niente, rispose, ella sta bene, e poi le fa cenno , dicendole: Vieni qua, flgliuola, vieni qua. Quella si levò dalla seggiola e con passo spedito andò, a lui, çome se non mai avesse avuto male. Miracolo. Miracolo! gridò la gente. Egli fuggì a nascondersi nella casa del sacerdote D. Raffaele Abbondati. Tutti gli tennero dietro, gridando più forte: il Santo, il santo: onde si sentì costretto a fuggire per una porta segreta a Vietri di Potenza.
205. Delle cose mirabili che fece in Vietri ci è rimasta memoria solo di una profezia. Gli si presentò una donna di poco buon nome e quasi per giuocarsi di lui, gli chiese un’immaginetta di Maria. Eccola, le disse Gerardo, porgendogliela, ma voi preparatevi alla morte, perchè pochi giorni vi restano di vita. La donna, tornata a casa, fu assalita da febbre gagliarda: tenne conto dell’avviso e si confessò: dopo quattro giorni era morta.
206. Da Vietri mosse alla volta di S. Gregorio, dove prese alloggio nella casa dell’arciprete Robertazzi. Ivi fu lasciato tranquillo por non esservi conosciuto, ond’egli con gli occhi rivolti al cielo, con le braccia aperte e con vivo sentimento del cuore andava esclamando: Te ne ringrazio, o mio Gesù, te ne ringrazio. L’arciprete lo sorprese in quell’atto e ne fu vivamente commosso, poi entrò in camera e gli disse: Perchè non mi fate la carità, di darmi un libricino su la passione di nostro Signore, che vorrei farci la meditazione? Gerardo ne tirò fuori un mazzetto e gliene porse un esemplare che gli venne nelle mani all’ avventura. Ma come, diceva tra sè l’arciprete, come neppure degnarsi di scegliermene uno dei più belli o mentre lo pensava: Ecco, usci a dire Gerardo, ecco il mazzetto. Vostra signoria si serva e scelga il libretto a genio suo. L’arciprete n’ebbe a stupire e nei giorni che rimase a questuare, lo guardò sempre con religiosa venerazione.
207 . Intanto l’anno, in cui il Santo sarebbe morto, come egli stesso aveva predetto al medico Santorelli, volgeva verso la fine, e già della sua morte apparivano i primi forieri, come si rileva da questa lettera che egli scrisse da Oliveto al P. Caione, dopo esser partito da S. Gregorio ed aver passato un sol giorno a Buccino: “Sappia V. Riverenza, che mentre io stavo inginocchioni nella chiesa di S. Gregorio, mi venne un butto di sangue. Andai con segretezza a ritrovare un medico e gli raccontai quanto era accaduto. Egli m’assicurò più volte che il sangue non veniva dal petto, ma dalla gola, mi osservò che non teneva nè febbre, nè dolori di testa, e perciò replicò più volte, con tante espressioni, che non era niente; mi fece salassare alla vena della testa, mentre io non ne sentivo verun incomodo. Ieri sera, giunto a Buccino, mentre mi volevo coricare, mi venne la solita tosse e buttai sangue dell’ istessa maniera. Mandarono a chiamare due medici, i quali mi ordinarono certi medicamenti e fra gli altri mi fecero sagnare al piede. Il sangue che buttai, lo buttai anche senza dolore del petto e senza incomodo. Mi dissero ancora che non viene dal petto, e mi ordinarono che subito la mattina seguente, che è stata questa mattina, mi fossi partito da quell’aria sottile e mi consigliarono che mi fossi ritirato all’Oliveto, tanto per l’aria quanto per parlare col sig. D. Giuseppe Salvadore, uomo insigne in medicina. Io non l’ho trovato, ma mi dice il sig. Arciprete, suo fratello che viene questa sera. Tutto questo l’avviso a V. Riverenza per sapere come debbo fare. Se volete che seguiti la questua, io la seguiterò e senza incomodo; perchè circa il petto presentemente mi sento meglio di quello che stavo in casa. Tosse non no ho più. Or via mandatemi un’ubbidienza forte e sia come si sia. Mi dispiace che V. Riverenza si metta in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente. Raccomandatemi a Dio, che mi faccia far sempre in tutto la sua divina volontà ed il suo gusto divino. E resto. Oliveto 23 Agosto 1755”. Ricevuta questa lettera, tutta la comunità del collegio di Materdomini fu in afflizione, il P. Caione, dopo aver raccomandato l’infermo alle orazioni del popolo raccolto in chiesa, gli scrisse di restare presso la famiglia Salvadore fino a che non si fosse sentito in grado da rimettersi in viaggio ed anche di più, se l’arciprete ed il medico, suo fratello, sig. Giuseppe, l’avesse voluto. Questi signori e tutta la famiglia si dolsero di vederlo afflitto dal male, ma d’altra parte ringraziarono Dio d’essere fatti degni d’ospitare nuovamente un santo.
208. Mentre erano intenti a lui per assisterlo, per ascoltarlo, per ammirarlo, arrivò fratel Francesco Fiore, il quale, terminata la sua parte di questua, veniva anche lui a chiedere ospitalità a quella caritatevole famiglia, per poi restituirsi a Materdomini. Era assalito da una febbre cocentissima, e tanto era la spossatezza delle sue membra, che si fu costretti a farlo riposare in un letto del piano inferiore, senza che potesse ascendere per un momento a vedere Gerardo che giaceva nel superiore. Come questi lo seppe, alzò gli occhi al cielo e poi rivolto al medico che gli era presente: Mi faccia il favore, gli disse, di far sentire a fratel Francesco da parte mia che ubbidisca; si faccia passare la febbre e venga da me, perché io non posso andare guardando infermi. Sebbene diffidando, il medico portò l’in1basciata; ma fratel Francesco, che sapeva a prova quanto valesse la parola del Santo, saltò di letto per andare subito da lui. Al primo vederlo: Come, gli disse, noi siamo stati mandati a fare la questua, e voi vi fate assalire dalla febbre Via, per ubbidienza non la fate più ritornare: e, poi che quegli ebbe risposto di voler ubbidire, egli subito, rivolto al medico, soggiunse: Gli tasti il polso. Il medico trovò che la febbre era sparita: e, quando tutti di casa ne facevano alte meraviglie, ei diceva: Signori miei, voi vi ammirate di ciò, eppure, sappiatelo, tanto può fare l’ubbidienza!
209. Lo stesso giorno, a quanto pare, guarì da febbre gagliarda la signora Rosa, sorella dell’arciprete ed il signor Stefano Masi di Caposele: la prima col sole, dirle: Non è niente; l’altro col solo pregare per lui di lontano ad istanza del figlio, che gli aveva all’intento scritta una lettera. Ma ciò che eccitò lo stupore di tutta Oliveto, fu la guarigione del sacerdote Don Domenico Sassi. Erano già sette anni che costui non celebrava più Messa, perchè colpito d’alterazione mentale fin dal 1748. Stavasene sempre chiuso in camera, steso sopra un letto, e quantunque fosse stato d’intemerati costumi, pur tuttavia gridava allora come un ossesso, ed, orribile a dirsi! bestemmiava. Indarno l’avevano condotto a più santuari, anche a quello di Materdomini; perchè da Dio era destinata la gloria della guarigione al suo caro Gerardo. Infatti questi, pregato dai signori Salvadore ad interporre le sue preghiere per lui, in sulle prime rispose: Ma io che posso fare? Poi, ripensando, lo promise, e, venuto il domani, all’insaputa di tutti, corse all’infelice, entrò, senza essere da altri osservato, nella camera di lui e, mentre il demente al solo vederlo gridava e bestemmiava, egli, accostatogli, gli fece sulla fronte un segno di croce e subito gli disse: Alzati e suona: e fattolo , sedere al gravicembalo , cantarono insieme le litanie della Madonna. Al suono e canto festivo accorrono tutti di casa e pieni di stupore trovano il sacerdote libero dalle smanie, con la mente rasserenata, mansueto come un agnello. Il Servo di Dio prese commiato e disse al sacerdote che si astenesse fino a nuovo suo ordine dal celebrare che intanto si comunicasse. La sera del giorno seguente, mentre cenava in casa degli ospiti, all’ improvviso ruppe il discorso dicendo : Domattina D. Domenico deve celebare: voglio che tutti vi comunichiate alla sua Messa. I commensali lo promisero ad una voce ed applaudirono.
210. Era il 28 agosto, e tutto il popolo, accorso all’annunzio, stava aspettando che D. Domenico, dopo un lungo settennio, ascendesse di nuovo l’altare. Tutto era pronto, mancava solo Gerardo. I parenti e gli amici che avevano accompagnato il sanato con pompa, con una certa ansietà si domandavano tra loro, come mai non fosse ancora venuto. I signori Salvadore corrono alla sua stanza, bussano, lo chiamano, e, non avendo risposta, entrano. Oh, qual tenero spettacolo! Ginocchioni su d’uno sgabello, vicino al letto, con la faccia rivolta al cielo, cogli occhi chiusi, col pallore sul volto, stringeva immobile e senza respiro il suo Crocifisso in una mano e l’altra teneva spiegata sul petto! Tutti compresi da religioso stupore, escono silenziosi dalla stanza e prorompono in lagrime. Dopo circa mezz’ora lo sentono ritornato ai sensi e l’arciprete e suo fratello il medico gli si fanno incontro, e senza alcuna allusione al fatto, l’interrogano se abbia ben riposato la notte. Ho poco dormito, perciò stamattina, sono stato sorpreso da grave sonno. Era il sonno dolcissimo dell’ estasi in Dio, che, a dirlo secondo la sua espressione, era una malattia di cui soffriva. Andò poi cogli altri in chiesa e da quel giorno in poi D. Domenico celebrò sempre la messa; e, se talvolta incontrava difficoltà a celebrarla, la difficoltà finiva quando l’arciprete glielo comandava a nome del Santo. Intanto il popolo, che si recava ad ascoltarla, diceva: Andiamo a vedere il miracolo di fralel Gerardo.
211. Però non fu questo l’ultimo che Dio operò ad intercessione di lui in Oliveto. Vogliamo ricordarne un altro che mostra come ubbidissero alla sua voce anche gli animali irragionevoli. Il ragazzo Giovanni Salvadore, nipote dell’arciprete, ritornò un giorno a casa con un uccelletto. Gerardo, che aveva carissime tutte le creature, perchè gli richiamavano alla mente il Creatore, preso quel volatile tra le sue mani, dopo averlo accarezzato, lasciò che volasse a riprendere la sua libertà. Però il piccolo uccellattore ne fu in tempesta; piangeva, gridava, voleva ad ogni costo che gli si restituisse la preda che egli aveva preso all’arco. Per metterlo in pace, Gerardo si sporse alla finestra e gridò all’uccello che aveva già spiccato il volo in alto: Vieni, belluccio mio, perchè il ragazzo piange ed è scontento della tua libertà. L’uccello ubbidì, e lo stesso ragazzo restò stupito in rivederlo tra le sue mani. Venuto il tempo della partenza, Gerardo volle fare una visita alla famiglia Pirofalo, e nell’accomiatarsi lasciò per distrazione un fazzoletto. Fratel Gerardo, gli disse una giovinetta di famiglia, avete lasciato il fazzoletto. - Ritenetelo, rispose, chè un giorno vi servirà. La giovane lo ritenne e, trovandosi in appresso, dopo essersi maritata, in pericolo di morte per il primo parto, toccò quel fazzoletto e all’istante fu salva. Il nipote, che depose questo fatto nel processo apostolico, aggiunse: “Mia ava conservossi gelosamente questo prodigioso fazzoletto e toccò a me poi la sorte di averlo in retaggio. Ma adesso non ne conservo che uno straccio, avendo il resto distribuito in pezzetti ai divoti”. Oltre il fazzoletto, il Servo di Dio lasciò alla famiglia Pirofalo una profezia, che nel 1850 il sig. Angelo Antonio Pirofalo raccontò nel processo apostolico in questi termini: “L’ultima volta che il Servo di Dio partì dalla casa dei miei maggiori, disse loro che la sua morte non era lontana: Guardate diceva, dalle vostre finestre alla nostra casa di Materdomini. Quando quivi vedrete spiegato un bianco lenzuolo ad una finestra, io sono ancora in vita. Allorchè sparirà il pannolino, io sarò morto. Da Oliveto alla casa di Materdomini, corre la distanza di oltre sei miglia, ed è impossibile di distinguere ad occhio nudo, non che un lenzuolo, ma il vano stesso delle finestre, eppure con istupore dei miei si vedeva la finestra ed il lenzuolo, e si vide sparito il giorno della morte di Gerardo . Cosa prodigiosa e classica di cui tutta via si parla in Oliveto !”. Testimone di tali cose prodigiose, l’arciprete non volle farlo partire, se prima non avesse sottoscritto alcuni patti che gli presentò e che qui riportiamo, come ci sono stati conservati nel processo apostolico.
Jesus - Maria
PATTI E CONVENZIONI TRA IL VENERANDO FRATELLO GERARDO MAIELLA DEL SS.MO REDENTORE ED IL R. D. ARCANGELO SALVADORE ARCIPRETE.
“In presenza della SS.ma Trinità e di Maria SS.ma e di tutta la Corte celeste, il detto fratello Gerardo si obbliga :
1. A pregare efficacemente il Signore con modo particolare in tutte le sue sante orazioni, perchè ci vediamo per tutta l’eternità nella gloria del paradiso, godendo Iddio.
2. A soccorrermi, anche da lontano e in tutte le necessità spirituali e temporali con raccomandarmi a Dio o colla voce oppure col cuore.
3. Ad impetrarmi forza di soddisfare santamente e alla mia carica, di santificar tutti, di fuggire le offese al Signore, e di purificarmi da tutte le imperfezioni.
4. A pregare Dio per la salute temporale e sopratutto spirituale di quelli di mia casa, e per la quiete e pace universale di questa patria di Oliveto.
5. Di più si obbliga di questi spirituali soccorsi in questa e nell’altra vita.
6. Di più d’impetrare una ubbidienza perfetta a tutti quei penitenti a lui ben noti. Ed io D. Arcangelo Salvadore, che ho scritto la presente, mi obbligo di corrispondere a tutti i lumi del Signore, di pregare e far pregare Sua D. Maestà per il suddetto venerando fratello Gerardo”. La convenzione termina con queste parole scritte di proprio pugno dal S. Fratello: “Io Gerardo Maiella del SS. Redentore, mi obbligo, in vita e dopo morte a quanto (l’arciprete D. Arcangelo) mi ha fatto obbligare e sta esspressato”. La memoria del Servo di Dio è rimasta imperitura in Oliveto, e specialmente nella famiglia Salvadore, la quale ebbe mai sempre per lui quella venerazione, che si suole avere per un santo già canonizzato. L’arciprete soleva chiamarlo un angelo in carne, tutto amore verso Dio e verso il prossimo; il suo fratello, il signor Giuseppe lo proclamava esemplare di tutte le virtù, singolarmente dell’ubbidienza e prodigio di penitenza; l’altro fratello, il sig. Filippo, lo comparava a S. Vincenzo Ferreri; altri lo dicevano un chiaro specchio di cristiana perfezione e di virtù eroiche, un uomo tutto fatto per Dio e che non poteva stare un sol momento senza Dio. Questi encomi e molti altri di questo genere non erano per fermo che l’ espressione del sentimento universale; perchè, come fu attestato nel processo apostolico, tutti dicevano che Gerardo fosse un santo per eccellenza, un santo miracoloso.