La Vocazione
CAPITOLO IV
39. Il Santo non era fatto per rimanere in mezzo al mondo, ma non sapendo dove Dio lo chiamasse, si fa eremita, e s’impone una nonna di vita austerissima. 40. Non era quella la sua vocazione; Dio lo chiamava altrove. 41. Due miracoli. 42. La nascente Congregazione del SS. Redentore, e le prime colonne che la sorreggono. Tra queste è destinato il posto al nostro Santo. 43. L’origine del collegio di Materdomini. 44 . Primo incontro di Gerardo coi Redentoristi. 45. Si sente attratto a loro, la tua vocazione è quella di seguirli, e ne aspetta l’occasione opportuna. 46.Intanto inizia la sua vita di Redentorista col dedicarsi maggiormente alla salute del prossimo. 47. La crocifissione. 48. La prima missione dei Redentoristi a Muro Lucano . 49. Si risolve a domandare l’ingresso tra loro. 50. Frattanto dà prova di pazienza singolare . 51. Si spoglia di tutto e ne fa domanda. 52. Questa non è accolta. 53. Viene anche la madre a tentarlo, egli non cede. 54. Chiuso in camera cala per la finestra e corre fino a Rionero dietro ai missionari che partono. 55. Là prega e riprega, finalmente l’ottiene. 56. Parte per Deliceto.
39. S. Gerardo non era fatto per rimanere in mezzo al mondo . L’indole sua tutta deditia alla pietà, la sua tendenza ai patimenti, l’amore che sentiva alla solitudine erano tante voci che gli dicevano: esci dal mondo. Egli le sentiva potentemente o comprendeva che, malgrado le tante sue orazioni, mortificazioni, e distacco dalle cose terrene, non le avrebbe mai adempite finché fosse rimasto nel mondo. Quindi cercava d’uscirne ad ogni costo. Ma come fare? Aveva già domandato l’entrata tra i Cappuccini dopo aver ricevuto il sacramento della Confermazione. Aveva rinnovato tale domanda dopo il suo ritorno da Lacedonia; ma tanto l’una, quanto l’altra volta era stato respinto a causa della sua gracilità che lo faceva credere inetto alle fatiche di quell’Ordine religioso. Né poteva sperare di riuscire meglio all’intento chiedendo ora l’entrata in quello o in altro Ordine di vita austera, perché lo stato presente di salute non era punto migliorato. Dunque che fare? Pensò di risolvere bene, risolvendo secondo il gusto che aveva di una vita di patimenti e di disprezzi. Questa risoluzione fu, dice il Tannoia, di “ farsi romito, non già romito che, addetto a qualche chiesa, gira accattando, ma romito sull’erta di qualche monte, o tra qualche boscaglia, lontano da ogni commercio con gli uomini, come gli antichi romiti. Ed avendo comunicato questo pensiero ad un suo amico, anch’egli uomo di spirito, questi si esibì a seguitarlo, e a divider seco lui tal tenor di vita” . La risoluzione presa fu eseguita. Non si sa dove fissassero il loro romitaggio, ma certo intrapresero la vita eremitica, e dal Santo ne furono stabilite le norme. « Non si può leggere senza meraviglia, prosegue il Tannoia, il regolamento di vita che fece in questa occasione Gerardo, e che entrambi risolvettero di osservare. Esso era diviso in vari punti, consistenti in esercizi di pietà, in lavori manuali, e ed in penitenze corporali. Avendo udito come gli antichi eremiti non nutrivansi se non di erbe, « essi si proposero di imitarli. Il regolamento non accordava che poco tempo al sonno, ed una buona parte della notte doveva impiegarsi nell’ orazione.
40. Ma ad osservare un tal genere di vita si richiedeva primieramente una particolare vocazione di Dio, e questa mancava. Mancava al compagno di Gerardo, e perciò non potendo a lungo durare i rigori, dopo due o tre giorni sopraffatto dalla fame, come si legge nei processi di Beatificazione, voltò le spalle alla solitudine, per riguadagnare la città e la casa paterna. Mancava anche al Santo, perché, quantunque non incontrasse difficoltà a proseguire in quella austerità di vita, né restasse scoraggiato dalla partenza del collega, per essere distaccato da tutto, ed avvezzo ad ogni genere di penitenze, purtuttavia passarono pochi altri giorni e fu costretto anche lui a tornare a casa. Non era là che Dio lo chiamava. Sarà pure venuto da Dio, come è da credersi, quel desiderio di farsi eremita, ma, se fu così, fu solo perché la sua generosità fosse meglio provata. Dio lo chiamava altrove, e già era per mostrargliene la via; in quanto a quella vita solitaria gl’intimò di rinunziarvi. Il che fece per mezzo del confessore, dal quale il Santo, essendo venuto a confessarsi, ebbe il precetto di abbandonare subito la solitudine, e tornare a Muro. Egli ubbidì prontamente, e non sapendo ancora quali fossero su di sé i disegni di Dio, restò presso la madre, riprendendo l’arte di sarto. Quivi fu sempre quello di prima: eguale ubbidienza, eguale assiduità alla fatica, pari raccoglimento in pubblico, pari modestia in chiesa, la stessa pietà, lo stesso fervore.
41. Dio intanto ne confermava la santità coi miracoli. Sappiamo di due che vogliamo qui riferire. Il primo avvenne verso la fine del 1747 o sul principio del 1748, e ne rese testimonianza Caterina Giuliani nel processo ordinario; l’altro avvenne poco dopo, ed è riportato nell’uno e nell’altro processo. Ecco il primo. « So di certa scienza (dice la Caterina) per bocca del mio defunto padre, chiamato Giuseppe Giuliani, ti di mia madre, che il servo di Dio, Gerardo Maiella, anche da giovanetto, sanò mio fratello Amato, il quale tenevasi in braccio da mia madre avanti la propria casa. « Gerardo, passandovi, le dimandò che cosa avesse mai il ragazzo. A cui rispose mia madre: Si è scottato con acqua bollente il petto ed il braccio, e per quindi procurarne la guarigione gli ho applicato sulla parte inferma dell’olio e cera. Ciò non ostante continua ancora l’ inffiammazione. E perciò Amato piange giorno e notte, non po tendo soffrire gli acerbi dolori che lo tengono angustiato. - Al che il Servo di Dio, mosso da tenera compassione verso il ragazzo, e ponendo e semplicemente le sue mani sulle parti affette dalla scottatura, lo guarì perfettamente, dopo che per dieci giorni s’erano provate vane le medicine>. L’altro miracolo fu, che passando il Santo nella contrada detta Maddalena, ed arrivato innanzi ad una casa in costruzione, si avvide che i muratori avevano dovuto desistere dal lavoro, perché le travi per la tettoia non erano della richiesta lunghezza. Tocco da compassione confortò q nella povera gente, e raccomandò a tutti di avere fiducia in Dio. Poi, invocando il divino soccorso, disse loro di situare le travi, tirandole con le corde. Essendo la santità di lui ben nota, i muratori, fatti animosi, ubbidirono, e con loro grande stupore trovarono che le travi avevano raggiunto la voluta dimensione. Divulgato il miracolo, la fama di santità di Gerardo si andava sempre più estendendo.
42. Però era già arrivato il tempo, in cui il divin Maestro doveva appagare gli ardenti desideri del suo servo fedele, facendogli conoscere a quale vocazione l’avesse prescelto . In quel tempo il Regno di Napoli vedeva crescere nel suo seno una religiosa famiglia tutta intesa a conseguire con nobile slancio il doppio fine che si era proposto, la santificazione dei suoi membri, mediante una perfetta imitazione di Gesù Cristo Redentore, e la santificazione dei popoli, mercé l’apostolato esercitato di preferenza a pro delle anime più abbandonate. La Congregazione del SS. Redentore; è questo il nome del novello Istituto; contava appena quindici anni di esistenza, ed ormai le tre prime case dell’ordine fondate a Ciorani, a Pagani e a Deliceto, erano abitate da uomini d’una santità poco comune. A capo di essi era il fondatore S. Alfonso Maria de’ Liguori, in cui vedevano risplendere le più eroiche virtù. Al suo fianco, oltre i venerabili Padri Gennaro M. Sarnelli, Cesare Sportelli, ed il fratello laico Vito Curzio, già passati agli eterni riposi, vivevano in fama di santità i servi di Dio P. Paolo Cafaro e lo studente Domenico Blasucci, delle cui cause ora si tratta presso la sacra Congregazione dei Riti, ed i PP. Saverio Rossi, Andrea Villani, Giovanni Mazzini, Carmine Fiocchi, Girolamo Ferrara e molti altri, sia sacerdoti che laici, dei quali S. Alfonso, che fu molto parco nel lodare i suoi, ebbe a dire essere stati uomini morti alla propria volontà. Era in mezzo a questa schiera apostolica, che nostro Signore aveva riservato il posto al suo diletto Gerardo. La divina Provvidenza sempre ammirabile nelle sue vie, dispose in tal maniera le cose da guidarlo sicuramente a questo asilo, dove avrebbe alfìn goduto la sospirata pace.
43. Volgea il maggio del 1746, allorché S. Alfonso poneva termine ad una missione in Caposele, popolosa terra della diocesi di Conza. In seguito a questa missione, l’Arcivescovo Mons. Nicolai, convinto dei grandi bisogni spirituali dei suoi diocesani, impegnò i missionari a fondare una casa dell’Istituto nello stesso Comune di Caposele, e loro offrì allo scopo il santuario di Materdomini, in cui Gerardo, essendo ancor fanciullo, fu favorito di un’estasi; e ai 24 di agosto del 1747 il Ven. Cesare Sportelli andò col F. 110 Gaspare Corvino a fissarvi la sua dimora, questa fu l’origine di quel collegio. Esso allora non consisteva che in una casa di poche stanze. Ma, perché riuscisse abitazione sufficiente ad una comunità compita, quale si richiede dalle nostre regole, e potesse ancora ricevere un buon numero di ordinandi, di sacerdoti ed anche di secolari, che volessero venirvi per gli spirituali esercizi a certi tempi dell’anno, come l’arcivescovo desiderava, faceva mestieri che s’ingrandisse di molto la fabbrica. A questo si pose mano sul principio di maggio del 1748, mercé la liberalità dell’arcivescovo, e di due altri insigni benefattori. Però questa liberalità, per quanto generosa, non poteva bastare a portare l’opera a compimento. Per la qual cosa il P. Sportelli si vide obbligato a fare appello alla carità dei fedeli dei paesi circonvicini, e fu allora, che il P. Francesco Garzilli, munito di una lettera dell’arcivescovo, imprese a questuare pei d’intorni di Caposele, insieme al F. 110 Onofrio.
44. I due Redentoristi pervennero a Muro nell’agosto di quell’anno stesso 1748. Gerardo fino a quel tempo non aveva avuto notizia di questa Congregazione di missionari; ma al primo vedere il P. Garzilli ed il compagno,si sentì spinto verso di essi. Una segreta simpatia gli facea presentire essere il suo posto stabilito nel mezzo di questi discepoli di Gesù Redentore. Avvicinò quindi da prima F .ll Onofrio, e s’informò del fine dell’Istituto, del genere di vita, degli esercizi di pietà ai quali si attendeva, e innanzi tutto delle penitenze che vi si praticavano. Le risposte fattegli lo misero in grado di giudicare essere quel metodo di vita rispondente a capello alle più intime sue aspirazioni. Laonde manifestò al F.ll Onofrio il desiderio di entrare nell’Istituto in qualità di fratello laico. E, avendone avuto per risposta, che l’Istituto per essere di sommo rigore, non fosse atto per lui, rispose come riferisce il Tannoia: Ma questo rigore è appunto quello ch’io vado cercando.
45. Tale trattenimento fu, a così dire, il primo messaggio dello Spirito Santo; però Gerardo volle ancora aspettare che la divina volontà gli si facesse più manifesta . Ad ottenerlo, si rivolse al suo divin Consigliere, v’interpose la mediazione di Maria e di tutta la corte celeste. E prostrato innanzi a Gesù sacramentato fu mirabilmente illuminato. Conobbe la sublimità di una vita consacrata per intero alla imitazione del Redentore degli uomini, ed alla santificazione delle anime più abbandonate, quale è quella del Redentorista, e tosto la via da battere gli parve chiaramente tracciata, sicché d’allora in poi non aspettò se non il momento favorevole a dare esecuzione al già preso partito.
46. Intanto, come per iniziare la sua vita di Redentorista, si diede più generosamente a mettere in moto il suo zelo. L’umile sua condizione di sarto non gli dava di spiegare grande influenza sugli altri, pur tuttavia con cui poteva, e quanto poteva, esercitava quella specie di apostolato al quale Dio lo chiamava. Impedire l’offesa del Signore e farlo amare da tutti, ecco il suo ideale, ed a conseguirlo, pregava, parlava, operava, e con santa libertà. Erasi accorto che una sua sorella metteva troppa ricercatezza nell’acconciarsi della persona, e questo bastò, perché fortemente la riprendesse, e riprendendola, conchiuse: eh! via, sorella, dà fuoco a queste tue vestimenta. Se tanta era la premura, che non entrasse neppur l’ombra del peccato in sua casa; altrettanta ne aveva, perché vi entrasse l’amore a Gesù Cristo nel Sacramento. Spesse volte ripeteva alla madre ed alle sorelle quello che aveva già detto ai compagni: Andiamo a visitare il nostro Gesù carcerato. Sopratutto rivolse le cure alla santificazione dei fanciulli. Era bello vederlo intento a sottrarli ai giuochi ed ai sollazzi, e radunarli per parlare loro di Dio. Più commovente spettacolo era per tutta la città quando, postosi a capo della loro schiera, li guidava ora all’antica chiesa di S. Leone, ora fuori dell’abitato alla cappella di Capotignano Colà, fatte prima le sue preghiere, ponevasi con volto ilare ad ammaestrarli nelle verità della santareligione, ed insinuando loro orrore al peccato, li eccitava ad amaro Gesù Cristo e Maria SS., e ad invocarne sovente i santi nomi.
47. E’ a questo tempo che bisogna assegnare un’azione di Gerardo, dalla quale ci si rivela la grandezza del suo amore a Gesù Crocifisso. Era in uso nella città di Muro il rappresentare in dati giorni alcune scene della Passione di Nostro Signore, ed il popolo vi accorreva a folla, amando vedere riprodotti i grandi misteri di nostra Redenzione. Ora, una volta fu organizzata questa rappresentazione che doveva aver luogo nella cattedrale, e bisognava chi vi avesse tenuto il personaggio del divin Crocifisso. Già s’intende, questa parte era vivamente ambita dal nostro Gerardo. Laonde, appena ebbe sentore del concepito progetto, s’affrettò a chiedere il favore tanto caro all’amor suo, e gli venne accordato. Allorchè il dì stabilito giunse, il santo giovano compenetrato nell’animo dalle pene o dagli strazi del divin Maestro, si lasciò attaccare alla croce, non senza sporgere preghiere a quelli che dovevano farla da manigoldi, di non risparmiarlo nei maltrattamenti e non scarseggiare noi colpi. Gli fu promesso di accontentarlo, ed ebbe cominciamento la scena. Al momento in cui, aperta la cattedrale, egli apparve con le braccia spalancate in croce, strettamente avvinto al patibolo e quasi in agonia, gli spettaturi furono commossi fino alle lacrime. Tra questi era la sua madre. Quando sel vide innanzi in tale stato appeso alla croce, sentì come spezzarsi il cuore, e cadde tramortita. Però tanto dolore non agguagliò la gioia provata da Gerardo nel dare al Salvatore divino questa nuova prova d’amore, che fu l’ultima aspettata da Gesù Cristo per concedere al servo fedele la grazia di essere arruolato alla santa milizia.
48. Dal 1746 i missionari redentoristi percorrevano l’archidiocesi di Conza con infaticabile ardore e con sorprendente profitto. La fama già sparsasi di tanto profitto indusse il vescovo ed il clero di Muro a domandare per la loro città una missione dei nostri Padri, e l’ottennero. S. Alfonso vi mandò una quindicina di missionari, tra i quali i PP. D. Carmine Fiocchi, D. Francesco Margotta, D. Francesco Garzilli e D. Biagio Amarante, tutti uomini di santa vita e di apostolico zelo, a capo dei quali pose il servo di Dio P. D. Paolo Cafaro, rettore del Collegio di Materdomini, ed uno dei più eloquenti missionari dell’Istituto, le cui parole, come scrisse S. Alfonso nel compendio della vita di lui, erano saette che ferivano. Quando egli predicava di Nostro Signore, de’ misteri della sua Passione, o della divina Eucaristia, pareva un uomo ispirato. Più volte nel predicare su questi misteri d’amore fu veduto rapito in estasi. Con pari unzione bandiva le glorie della SS. Vergine. E quando parlava dell’eternità, soggiunge il S. Dottore, le sue parole facevano tremare ognuno che l’udiva. Arrivarono dunque a Muro missionari di tal fatta, ed il giorno 13 aprile 1749, Domenica in Albis, vi diedero principio ai santi esercizi in tutte tre le parrocchie.
49. Può ognuno immaginare quanta commozione si sia prodotta allora in una città tanto religiosa, quale era Muro a quei di, sotto la parola di tali Padri, animati da Spirito di Dio. Niun altro però ne fu più commosso di Gerardo. La santità di questi uomini di Dio lo rapiva, sicchè affezionatosi a loro ben presto, non si dilungò mai più dalla casa di loro abitazione. Infine, sentendo che la risoluzione presa di unirsi ad essi in qualità di fratello laico era ormai radicata profondamente nel suo animo, decise di porgere domanda per l’ammissione. Ma il pio disegno doveva essere ancora esposto a grandi prove.
50. Prima di narrarle ricordiamo un bel tratto di virtù che in quei giorni fece risplendere la pazienza del Servo di Dio, la sua mansuetudine ed il suo amore a Gesù Crocifisso. Fra i vari esercizi di penitenza proscritti da S. Alfonso per chiamare le divine misericordie su le popolazioni evangelizzate, uno dei principali è la disciplina. Questa pratica comincia nel terzo o quarto dì della missione, ed ecco come si eseguisce. Dopo la predica della sera, gli uomini rimangono soli in chiesa; un missionario rivolge ad essi un’allocuzione forte, affin di disporli alla penitenza, ed indi ciascuno si batte con santo coraggio a calmare la giustizia di Dio. Ma si abusa delle cose anche più sante. Essendo stato annunziato questo esercizio di penitenza sul principiar della missione, due giovinastri si decisero d’avvalersene per tormentare Gerardo. Conoscevano l’avidità di lui per la mortificazione, e la vollero soddisfare egualmente che la colpevole leggerezza. Venuto il momento de la disciplina, andarono a situarsi vicino al santo giovane, sul quale scaricarono colpi raddopiati. Ma quegli, cui tornava sempre in piacere il soffrire, non emise il menomo lamento; invece fu ben contento di poter portare, quei giorni con maggior dolore, le stimmate di Gesù Cristo.
51. Volgendo la missione al suo termine, il Santo ormai risoluto di entrare nell’Istituto del SS.mo Redentore, venne nella determinazione di spogliarsi di quanto ancora gli restava. Ma che gli restava? La sua generosità verso i poverelli gli aveva lasciato appena il necessario. Aveva ancora una camicia e due mutande, oltre quelle che portava indosso, e queste bastavano a fargli parere che fosse ricco. Volle dunque spogliarsene, e le diede ad un suo coetaneo, di nome Andrea Petrone. Così privo d i tutto si presentò al P. Cafaro, e fece la dimanda di essere ammesso nella nostra Congregazione.
52. Il P. Cafaro, vedendolo sfiguratamente sparuto, lo giudicò incapace di reggere alle fatiche di fratello laico; quindi lo consigliò a smettere siffatto divisamento. Un tal rifiuto non iscorò punto l’umile Gerardo, il quale ,·innovò le istanze; n,a fu inutile. Allora, ponendo in Dio, dal quale sentiva la chiamata interiore, la più salda fiducia, sperò contro ogni speranza.
53. Però venne subito la madre a tentarlo, imperocchè, appena seppe della risoluzione di lui, pose in campo ogni ragione per dissuadernelo. Figlio mio, gli diceva, non dai·e questo dolore a tua madre, non mi abbandonare. La tua salute non è atta a grandi fatiche, non assoggettarti a nuovi rifiuti: resta con tua madre, perché lddio si può servire dovunque. Alle tenerezze materne vennero ad unirsi i lamenti delle sorelle, e tutte insieme si provarono a rimuovere dal pio disegno la mente di lui, che Dio voleva unicamente per sé. Vedendolo irremovibile, l’afflitta madre prese un altro partito. Itane dal P. Cafaro, lo pregò di non annuire alla domanda di suo figlio, e con l’esagerato linguaggio del dolore, espose la povertà della casa, ed il bisogno che aveva del lavoro del figlio. Tanto fé prevalere le sue ragioni, che il P. Cafaro, quando anche avesse avuto il più ardente desiderio d’ammetterlo, non avrebbe potuto resistere a questo assalto d’una madre desolata. Confortò dunque l’afflitta donna, rassicurandola che non lo avrebbe ricevuto. Anzi, quasi presago di quello che era per avvenire, la consigliò di tener il figlio chiuso a chiavo nella sua camera al momento della partenza dei missionari.
54. Il consiglio fu puntualmente eseguito. Ma il recluso, dato di piglio alle lenzuola, calò per mezzo di esse dalla finestra, senza che alcuno della famiglia se ne avvedesse. Lasciò sul tavolo un biglietto col quale avvisava della sua fuga, dicendo che andava a farsi santo, e che non si doveva pensare più a lui. Abbandonata la domestica dimora, si diede a correre per raggiungere i missionari. Sapeva che avevano presa la via di Rionero nella diocesi di Melfi, per predicare anche là gli spirituali esercizi. Appena gli ebbe scorti di lontano, cominciò a gridare: Padri, aspettatemi. I Padri, compassionandolo, si arrestarono . Appressatosi, ripeté la domanda; ma alla sua volta il P. Cafaro: Tu non sei capace di essere fratello serviente nel nostro Istituto, torna a casa tua; e gli altri Padri, a sbarazzarsene, ripetevano: torna a casa tua. Nondimeno insisteva: Sperimentatemi, diceva e poi licenziatemi. Così fece il viaggio di più miglia, e pervenne coi Padri a Rionero. lvi rinnovava le istanze; ma sempre indarno : sempre l’istesso rifiuto e per la stessa ragione.
55. Nondimeno non cadde d’animo. Pregando e ripregando il Signore e la Vergine Santissima che l’avessero aiutato ad ottenere il sospirato consenso, andava e ritornava spesso alla casa, che abitavano i Padri, e là restava lungo tempo, ora aiutando il fratello laico che li serviva, ora rattoppando i panni, finchè un giorno, gittatosi ai piedi del P . Cafaro, con le lagrime agli occhi, lo scongiurò: Se non mi ricevete, mi vedrete ogni giorno coi poveri accattar il pane alla porteria del vostro collegio. Se temete che io non possa reggere alle fatiche di fratello laico, già ve l’ho detto, sperimentatemi e poi mi licenzierete. Queste parole profferite con modestia e con fermezza ad un tempo, commossero il P. Cafaro, il quale, ravvisato nella costanza del giovine postulante un segno della Provvidenza, volle contentarlo, e per contentarlo tenne questo modo. Lo spedi al P. D. Lorenzo D’Antonio, rettore della casa di Deliceto, con una lettera nella quale diceva: “Vi mando un altro Fratello inutile, se riguardasi la fatica, perché è molto gracile di complessione; peraltro non ho potuto farne a meno, attesa la sua insistenza ed il credito che gode di giovine virtuoso nella città di Muro”
56. Egli, presa la lettera, partì incontanente per Deliceto. Molta era la distanza e pessime le vie, e ciò nonostante andava allegro, considerando o lodando la bontà di Dio, proponendo di fare grandi cose per Lui. A Deliceto giunse dopo una giornata di cammino, probabilissimamente il sabato 17 maggio, e, vedutosi ben accolto, baciava le mura del collegio, alzava gli occhi al cielo, ringraziava Dio, la Vergine, i Santi, ringraziava gli uomini. Era il tripudio del suo cuore appagato.