San Gerardo Maiella
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La morte viene dal piano

Capitolo XXVI

Il morbo che in una settimana aveva spezzata la fibra robusta del padre Cafaro, teneva il suo epicentro nelle Puglie, donde dilagò nelle regioni limitrofe, seminando terrore e morte. Lo stesso Sant'Alfonso dovette rimanerne fortemente impressionato, se si astenne dal mandare a Caposele il nuovo rettore, padre Giovanni Mazzini. « Son tante le notizie spaventose che sento correre di codesti dintorni», scriveva in data 21 agosto al padre Giovenale, « che non mi fido di sopportare che questo soggetto pericoli per mia cagione » (Lettere, 1, 228).

E il 31 dello stesso mese scriveva al p. Margotta, suo procuratore in Napoli: « Sento che verso la Puglia la morte miete a tondo, onde non mi fido di mandare il Padre Don Lorenzo D'Antonio a Iliceto » (Ibid., 233).

E il 2 settembre gli annunziava addirittura che a Caposele: « Ora vi sta la peste » (Ibid., 233).

Non era la peste, ma qualcosa di simile. Erano le terribili febbri perniciose o malariche, che ogni anno spopolavano le contrade. La morte veniva dalle pianure di Puglia, possesso della Corona, risalendo le colline donde, qualche mese prima, erano scesi i mietitori, attirati dalla speranza di un misero guadagno. Erano scesi già fiaccati dai cosiddetti « salassi di precauzione» che avrebbero dovuto impedire, secondo la scienza medica di allora, il coagulo del sangue, causa principale del male; erano vissuti, per decine e decine di giorni, in campi riarsi e polverosi, dormendo per terra, lungo i fossati paludosi, nidi di miasmi e di zanzare; poi erano risaliti nei loro tuguri col piccolo gruzzolo in mano e la morte nel sangue. In agosto, quando la terra avvampava sotto i dardi della canicola, si erano abbattuti accanto agli usci cadenti, gocciolando sudore gelido dalla pelle screpolata e nera. Si trascinavano così, tra la vita e la morte, fino all'autunno inoltrato, quando, col tornare del freddo e delle piogge, il male si ritirava nello stato latente, per scoppiare con più virulenza nell'estate successiva, sotto l'afa immobile e la polvere poveri mietitori, mietuti dalla morte!

Era la storia dolorosa d'ogni anno, che variava solo d'intensità. Perché qualche volta il male assumeva forme più aperte e ribelli e allora anche quei paeselli, che avevano cercato scampo sulle colline e tra gli alberi, cadevano in preda allo spavento e ai vari medici e ciarlatani che spacciavano rimedi più o meno miracolistici : come salassi, acqua fresa e olio di mandorle per debellare la sonnolenza e rimettere in circolazione il sangue; qualche volta si facevano ingoiare perfino insetti vivi, ravvolti in un poco d'ostia, perché stimolassero l'organismo intorpidito. E così si facilitava l'opera distruggitrice del male.

Tra le città più colpite in quella triste estate del '53 vi fu Lacedonia, nonostante i suoi settecento e più metri d'altezza. Era troppo vicina alle Puglie per non pagarne il tributo. Le prime morti colpirono l'immaginazione popolare per la rapidità con cui il morbo fulminava le sue vittime e per l'inanità dei rimedi umani. Poi i casi si moltiplicarono, si acuì il disagio e la paura; si rilasciò in molti il senso morale. Perché, mentre i buoni si ravvedevano, gli scapestrati cercavano di stordirsi nell'ubriachezza e nel vizio.

Per fortuna, Lacedonia aveva un vescovo molto pio, chiamato dal Tannoia : e Uomo savio e corona dei Vescovi» (o. e., pag. 90) e un arciprete virtuoso, don Antonio Domenico Cappucci, discepolo prediletto del padre Cafaro. Costui, reduce da Caposele, dove aveva assistito alla morte del suo grande maestro, ardeva dal desiderio di emularne lo zelo, specialmente in quel tempo di pubblica calamità. Pregò, lavorò, fece penitenze; si gettò a capofitto nel pericolo, correndo da un capezzale all'altro, ma si avvide ben presto che le sue forze erano impari all'immane bisogno. Allora si rivolse al consiglio del vescovo e insieme decisero di ricorrere a un rimedio più efficace che valesse a risollevare il morale degli infermi e arginare l'ondata degli scandali. Il pensiero corse a Gerardo che, dopo i fatti di Corato e Melfi, era entrato nella leggenda.

Era l'autunno inoltrato quando egli, con l'ubbidienza del padre Fiocchi, giunse a Lacedonia e fu accolto come un trionfatore.

Cosa strana ! Si era aggirato tante volte tra quelle case sbrancate sull'aerea collina, e pochi si erano accorti di lui, ma ora che veniva su richiesta delle autorità, la sua presenza assumeva l'importanza dei grandi avvenimenti. I buoni si consolavano che fosse venuto finalmente il tempo di fugare gli scandali che attiravano i castighi di Dio; gli ammalati aprivano il cuore alla speranza. Solo lo sparuto gruppo dei mestieranti del male fingevano indifferenza, ma, sotto sotto, anch'essi preferivano d'avere a che fare con un fraticello disarmato che con la tracotanza degli sbirri, usi a frenar gli scandali con metodi più sbrigativi.

Tutti, dunque, si stringevano attorno a Gerardo, meno gli ammalati che salutavano con lenti gesti dagli usci e dalle finestre fuligginose, con un sorriso negli occhi spenti. Ed egli entrò in ogni tugurio come un raggio di sole, confortando le anime e risanando i corpi.

Un giorno si portò al capezzale del massaro Domenico Saponiero, fratello dell'arcidiacono don Ciriaco. Era a letto da vari giorni senza toccar cibo ; senza dar segni di vita, sempre con la stessa febbre, sempre con la stessa sonnolenza che poteva trasformarsi, ad ogni momento, nel sonno della morte. Dintorno c'era aria di funerale: la moglie Teresa baciava piangendo il figlio di un anno; il fratello Pietro e la cognata si movevano trattenendo il respiro.

Con Gerardo entrò la gioia. Si accostò al moribondo quasi assente dalla vita; sfiorò quelle guance infossate, quelle palpebre ormai calate sugli occhi e rimase in attesa di qualche cosa di nuovo.

E l'attesa non fu delusa. All'improvviso l'infermo aprì gli occhi, raccolse tutte le sue forze e, come delirando, esclamò: « Dio sia benedetto ! ».

E Gerardo : « Allegramente! Voi non avete più febbre! ».

Così dicendo, allungò il pollice per tracciargli sulla fronte un segno di croce. Allora finalmente l'infermo sembrò destarsi da un incubo ; si guardò lentamente attorno ; poi chiese di alzarsi.

« No, no », rispose Gerardo, « vi alzerete domani ».

Più complesso il caso di una povera giovane, orribilmente contratta nei nervi, che apriva la bocca alle parole più immonde con una voluttà che trovava riscontro solo nell'atrocità del male. La tragedia era cominciata da parecchio tempo, ma ora si avviava a passi rapidi verso la catastrofe.

Era stata la giovane più quieta e religiosa del mondo, unica figlia di onesti genitori che tiravano avanti la vita col lavoro di un campicello e il piccolo commercio. Una sera aveva atteso invano il babbo, partito all'alba per un paese vicino. Sola con la mamma, attorno al focolare spento, aveva vissuto ore di trepidazione, credendo di udire ogni momento i suoi passi; poi era uscita a chiamarlo per la campagna deserta, sotto le stelle, mute spettatrici.

« Tornerà all'alba », aveva detto la mamma, ma il sole era sorto e calato più volte sulla loro muta disperazione, senza portare un po' di luce nella loro anima. Avevano fatto ricerche nei dintorni, avevano domandato ad amici e conoscenti: tutto invano. Il silenzio era divenuto più cupo, il mistero più denso.

Allora la madre era ricorsa a Gerardo che in quel tempo si trovava a Lacedonia. Egli aveva cercato di prender tempo, di prepararla alla triste notizia, mentre la voce gli tremava in gola e la faccia diveniva più pallida. Finalmente aveva parlato: il marito era stato ucciso; presto ne avrebbe avuto la conferma ufficiale. La donna, tornata a casa sotto il peso dell'immane sciagura, si era chiusa nel suo dolore e, dopo pochi giorni, era andata a raggiungere il marito.

La giovane, rimasta improvvisamente sola, cominciò ad aggirarsi per la casa deserta, chiamando i genitori assenti, incurante del cibo, del sonno e del lavoro. Alla fine sembrò quietarsi, ma si sedeva muta, con le mani incrociate sulle ginocchia, e guardava lungamente un punto remoto nello spazio. Se le amiche cercavano di distrarla, ella le interrogava ansiosamente: « Dove è la mamma ? Si è salvata ? ... Come ? Non lo sapete ? Ella è morta disperata: Dio l'avrà perdonata?».

E continuava a interrogare, cacciando gli occhi fuori dell'orbita, agitando la faccia stirata, coi nervi a fior di pelle.

Allora le amiche ricorsero a Gerardo ed egli si recò a visitarla « Coraggio », le disse, « tua madre è in purgatorio. Fai quaranta comunioni per l'anima sua e andrà in paradiso ».

La giovane, rasserenata, ubbidì e per quaranta giorni pregò con gran fervore. Ma nel quarantesimo scoppiò la crisi. Quel giorno le parve di vedere la madre in un nimbo di luce : le sorrideva raggiante e beata, sparendo come un sogno. Quella visione, invece di consolarla, stroncò la sua gioia. Cominciò a chiedersi perché la mamma fosse stata tanto cattiva d'andarsene in paradiso, lasciandola sola nella disperazione. Il pensiero divenne fissazione e la fissazione le tolse il poco cervello rimastole. Digrignava i denti, dava in escandescenze senza motivo, cadeva in convulsioni violente, durante le quali usciva in bestemmie, accompagnandole con parole e gesti osceni.

Le amiche ricorsero di nuovo a Gerardo. Egli la trovò nello stato di prostrazione in cui cadeva dopo le solite sfuriate : accasciata sulla sedia, lo seguiva con gli occhi imbambolati di creatura malata. Si lasciò toccare sulla fronte senza reagire ; poi, appena non sentì più quella mano benefica, intonò una canzoncina devota. Era rinata alla gioia.

Questi prodigi accrebbero la statura del santo, moltiplicando l'efficacia della sua parola. Una parola cui nulla resisteva, che penetrava come lama nei cuori e li apriva agli effetti più strepitosi della grazia. Cadevano le volontà più ostinate, i propositi più fieri, le costruzioni più massicce dell'orgoglio, lasciando filtrare la luce nelle anime, rifatte serene.

Un giorno fu chiamato al capezzale d'un moribondo. Egli era cosciente del suo stato, eppure respingeva, l'uno dopo l'altro, i ministri del perdono di Dio. Dio ? Era venuto il momento di fargli l'ultimo dispetto : maledirlo e morire.

L'arciprete non fu più fortunato degli altri. Allora ricorse a Gerardo che si precipitò dall'infermo. Quando questi lo vide, raccolse tutte le forze per gridargli contro peste e vituperio. Ma l'altro continuò ad avanzare; gli giunse vicino e, lasciandosi andare in ginocchio, cominciò a recitare a voce alta e cadenzata l'Ave Maria. Prima dell'amen finale, s'udì un singhiozzo: il peccatore era vinto.

Dopo gli infermi e i moribondi, fu la volta dei sani, soggiogati anch'essi dalla sua presenza.

Una dama si lamentò del marito che la tradiva pubblicamente, picchiandola se avesse osato lamentarsi o assumere l'atteggiamento di vittima.

Gerardo lo mandò a chiamare. Contro ogni aspettativa, il prepotente rispose all'invito, spinto forse dalla voglia di misurarsi con lui. Entrò a testa alta, con l'arroganza dipinta sul volto, ma il santo, sereno e pacifico, « Accomodatevi! », gli disse, indicando una sedia; poi, con la stessa serenità imperturbabile, gli enumerò le sue scelleratezze, dalle più occulte alle più scandalose e, senza dargli tempo di rispondere, gli additò il Crocifisso, oggi Padre pietoso, domani Giu-dice terribile.

L'uomo abbassò la testa tra la meraviglia e lo sgomento. Infine scoppiò in singhiozzi : « è vero, ho peccato », disse ; « ho bisogno di mettermi in pace con me stesso e con Dio. Mi occorre tempo e riflessione ».

«Li avrai» , rispose Gerardo, « se partecipi agli esercizi spirituali che si daranno a Deliceto il prossimo mese. è il luogo e il tempo migliore per riflettere e rimediare».

Il gentiluomo acconsentì e fu di parola. Da allora tutti ebbero a lodarsi di lui. Specialmente la moglie.

Più strepitosa la conversione di un sacerdote sacrilego : si parava per la messa, quando Gerardo lo vide e capì la tragedia in cui si dibatteva la sua coscienza. Gli andò vicino e gli si gettò ai piedi sembrava che stesse confessandosi; invece era lui che, piangendo, accusava il sacerdote, svelandogli uno per uno tutti i peccati che aveva commessi, fino all'ultimo che si accingeva a commettere. Accentuava ogni ombra, sbalzava ogni circostanza con voce resa più cupa dal tono basso e dimesso; resa più dolorosa dall'atteggiamento del corpo. Non si rialzò se non quando lo vide convertito, deciso a mutar vita davvero.

Sono pochi esempi, sfuggiti all'oblio del tempo, ma sufficienti a darci un quadro approssimativo dell'opera prodigiosa del santo, sempre cacciatore robusto davanti al Signore.

Dopo la messe copiosa della giornata, altra ne mieteva la sera in casa Cappucci, dove lo attendevano i peccatori già convertiti, o in via di conversione. Li accoglieva uno per uno : a chi dava un consiglio; a chi un incoraggiamento; a chi un'ammonizione e tutti spingeva a Cristo.

Una signora si accusò di sentirsi squassata dalle più fiere tentazioni. « La colpa è vostra », le rispose interrompendola, « perché non sapete chiudere bene la porta dei sensi, perché non siete fedele alle ispirazioni della grazia. Custodite meglio il vostro cuore e sarete guarita ».

Ai colloqui privati seguiva una conversazione collettiva con un pubblico ristretto, seduto a semicerchio davanti a lui. Ciò gli permetteva di guardar negli occhi i suoi uditori e di studiare l'effetto delle sue parole con una precisione sbalorditiva, notando ogni distrazione anche fugace e richiamando bruscamente l'attenzione. Lo imparò a sue spese, mastr'Angelo, il sarto di casa Cappucci. Una sera che il santo parlava dell'amor di Dio, facendo passare davanti agli uditori le scene di Betlem, del Cenacolo e del Calvario, mastr'Angelo, conquiso fino alle ossa, diceva tra se stesso : « Se ci fosse qui mia moglie! Lei che smaniava di sentirlo! ».

E Gerardo subito a rimbeccarlo : « Mastr'Angelo, invece di pensare a tua moglie che vorresti qui presente, faresti meglio a pensare all'anima tua. Così, per pensare agli assenti, ti assenti tu pure e non comprendi, quello che sto dicendo per il bene di tutti». Congedati gli ospiti, s'intratteneva coi sacerdoti o si recava dal vescovo. Toccavano di preferenza argomenti di teologia e di mistica. Dopo uno di tali colloqui, Monsignore ebbe a dire: « Tanto è entrare con Gerardo nella dottrina ascetica e teologica, quanto dichiararsi suo discepolo. E chi entra discepolo, ne esce teologo tanti sono i lumi che acquista».

Era una sapienza calda di preghiera : si vedeva infatti spezzare il discorso più accalorato per scagliare verso il cielo qualcuna delle sue giaculatorie che avrebbero voluto incenerir la terra. E dal cielo scendeva quella luce che illuminava la sua anima, riverberandosi attraverso il corpo, affinato dalle lunghe macerazioni e roso dalla malattia. Ormai sembrava uno scheletro ambulante: eppure dietro di lui si moveva, a spire sempre più larghe, un mondo coi suoi dolori e le sue segrete aspirazioni. Chiunque aveva una piaga nella carne o nell'anima sapeva come trovarlo.

Un giorno fu la volta di Bisaccia: era venuto di lì un uomo col ventre gonfio come l'idropico del Vangelo. Gerardo, appena lo vide, gli rivolse la parola di Gesù : « Va, la tua fede ti ha guarito».

E in quel momento il ventre si sgonfiò dagli umori.

Fu la classica scintilla che fece scoppiare l'incendio, perché, da allora, anche quel paesello adagiato tra il monte e il piano, diede il suo contributo alla gloria del santo.

Tra gli altri, si mosse il primicerio della collegiata, don Gela, e lo pregò, per mezzo del canonico Saponiero, di andare con lui a Bisaccia. Gli nascose il motivo del viaggio fino a quando, entrati in paese, si accostarono alla casa di un certo Bartolomeo Melchionna, che, molt'anni addietro, il giorno del matrimonio, aveva perduto la favella. Era intelligente e bravo, commentava la gente, ed aveva trovato un buon partito, ma gl'invidiosi gli hanno fatta la fattura e il demonio lo travaglia così. Convinti che si trattasse del demonio, i parenti lo avevano condotto da un santuario all'altro. Si erano spinti fino al santuario di Sant'Antonino nella città di Campagna, distante alcune decine di miglia. Ma il demonio gli era rimasto in corpo a dispetto dei santi. « Ora », conchiudeva don Gela, « bisogna dar gloria al Signore, liberando l'infermo e restituendo la gioia ad una famiglia desolata ».

Intanto erano giunti all'uscio del Melchionna e Gerardo salutò la famiglia raccolta intorno al focolare: « Sia lodato Gesù e Maria!». Tutti risposero: « Oggi e sempre*.

« E tu, perché non rispondi ? », chiese a Bartolomeo.

« è muto », sussurrarono, « gli hanno fatta la fattura ».

« Che fattura ! Che fattura ! » esclamò, « lo farò parlare io ! ». E rivolto al paziente: « In nome di Dio », gli disse, « io ti comando di parlare ».

Al suono di quelle parole, il muto aperse la bocca e mosse speditamente la lingua come prima del matrimonio; anzi meglio. Successe un momento di sorpresa, poi il piccolo gruppo familiare, al quale si erano aggiunti alcuni curiosi, scoppiò in un forte applauso : « Il santo! Il santo ! ».

Gerardo si fece piccolo, cercò di nascondersi dietro il primicerio, ma questi gli venne in aiuto: « Andiamo », disse, « andiamo a casa a festeggiare l'accaduto ».

E, presi a braccetto Gerardo e il Melchionna, li condusse in canonica. Alla fine del pranzo, il santo invitò il miracolato a cantare una canzoncina : la voce era limpida e tersa. Allora si accomiatò dai presenti, e, quasi di nascosto, attraverso gli antichi boschi di querce e di castagni, fece ritorno a Lacedonia. Di lì prese la via di Deliceto. Giunto a Rocchetta, sentì parlare di un fondachiere calabrese che dava spettacolo con una donna di facili costumi. Se ne parlava apertamente, perché lo scandalo era pubblico e inveterato, nonostante i ripetuti tentativi di eminenti sacerdoti di porvi rimedio. Gerardo non aveva tempo da perdere: lo affrontò bravamente e, senza dargli respiro, lo atterrì col quadro spaventoso della sua anima annerita dalle colpe: gliele enumerò tutte quante, cominciando dalle più occulte, e gli intimò di provvedere, prima che fosse troppo tardi.

L'effetto fu istantaneo : il fondachiere lo seguì a Deliceto per confessarsi; regolarizzò la sua posizione col matrimonio ; poi tornò in Calabria.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021