Colombi e sparvieri
Capitolo XX
L'arrivo degli undici studenti di teologia, avvenuto nell'autunno del 1752, non era fatto per agevolare l'approvvigionamento di Deliceto, specialmente nei mesi invernali, quando il collegio, tagliato fuori dalle piogge e dalle nevi, sembrava una livida scogliera riemersa dal naufragio del mondo. Allora Gerardo scendeva dai monti e rivedeva, l'una dopo l'altra, le diverse centrali della carità che aveva disseminate lungo l'arco del Vulture e in mezzo alla pianura pugliese.
Ma, più che le colline del Vulture, in questa stagione amava percorrere la pianura pugliese, relativamente meno impervia, raggiungendo, da Foggia, i borghi popolosi della zona. Foggia diveniva la base delle sue operazioni, il conservatorio della Crostarosa l'asilo prediletto della sua anima. Vi si portava con sacro entusiasmo, trasformandolo nel cenacolo dell'amore e nella cittadella del miracolo. Tanto che le suore, i sacerdoti, lo stesso vescovo di Troia, monsignor De Simoni, travolti da quell'onda prepotente di divino che sublimava i suoi gesti e le sue parole, avevano finito per investirlo d'ogni privilegio e autorità. Lo lasciavano parlare alle educande e alle suore, penetrare nella clausura, assistere le inferme, consolare le moribonde. Eppure di questa libertà nessuna suora, nessuna alunna, ebbe mai a meravigliarsi, a giudicarla soverchia. Lo assicurano unanimi le discepole della Crostarosa nei processi apostolici. Tanto era l'alone spirituale che lo circondava, tanti i miracoli operati dalla sua parola. Una parola delle più semplici, che trattava gli argomenti più comuni, come il dolore dei peccati, l'obbligo di amare il Signore, ma una parola lievitata da tale forza di persuasione e da tale carità che produceva effetti immediati e duraturi. Qualche volta tali effetti erano davvero sconvolgenti, come quando educande e suore cadevano in ginocchio, supplicandolo d'ascoltare le loro confessioni e lui le scongiurava con le braccia al cielo : « Ma figliuole, cosa dite, cosa fate ? Io non sono un sacerdote ; sono un povero laico ignorante».
La stessa semplicità convincente e meravigliosa lo accompagnava al capezzale delle inferme. Sembrava lo stesso Gesù che confortava e sanava.
Un giorno fu introdotto presso una suora conversa: era stesa sul giaciglio, la faccia gialla, cadaverica; le occhiaie sprofondate. Respirava appena. « Poverina! », si sussurrava, « ne avrà per poco tempo ». Ma Gerardo le tracciò sulla fronte una croce e le ridonò la vita.
Un altro giorno fu la volta di un'educanda: spiccava appena sul lettino bianco il leggiero incarnato del viso : gli occhi ardevano dalla febbre. Smaniava, invocando la mamma che, purtroppo, era lontana e l'avrebbe riabbracciata cadavere.
Gerardo le diede uno schiaffetto sulla guancia e : « Via su, poltrona », le disse, « cerca di star bene!». Subito gli occhi della fanciulla tornarono a sorridere sul visino smunto.
Con la stessa gioia, con la stessa tranquilla semplicità con cui faceva rifluire la vita nei corpi languenti, annunziava la presenza dell'angelo alato della morte, perché le suore riattivassero la loro lampada e uscissero incontro allo Sposo.
Un giorno, sul più bello d'un discorso, la parola gli morì sulla lingua e fissò una suora tozza e gagliarda che crepava di salute; una pausa di silenzio, poi: « Dimmi, sorella», le chiese, mentre la poverina si faceva rossa, più della veste che portava, « dimmi: ti confessi spesso, non è vero ?... Sì, sì, così va bene. Stai sempre unita con Dio, perché si avvicina l'ora della resa dei conti».
La suora ne fu leggermente turbata; poi, accogliendo l'ammonizione, si ricompose nella preghiera : non passarono otto giorni ed era volata all'eternità.
Queste rapide battute, a base d'introspezioni, profezie e miracoli, non devono farci dimenticare il lato umano del santo, cioè quelle qualità naturali che egli metteva al servizio del soprannaturale, quel suo modo d'insinuarsi nelle anime, di coglierne con occhio discreto le vaghe aspirazioni, di trarre profitto dalle loro inclinazioni e magari dai loro difetti, pur di raggiungere la meta prefissa. Era una tattica che usava di preferenza con le alunne, le quali andavano gradatamente informate alla virtù e alla scelta del proprio stato. Erano generalmente rampolli di nobili famiglie che si educavano all'ombra del chiostro, in attesa di tornare nel mondo con le prospettive più lusinghiere. Da ciò, un certo dualismo nelle loro anime: innocenti, non potevano non sentire il fascino delle cose celesti; sulle soglie dell'adolescenza, avvertivano già i brividi di segrete aspirazioni verso la felicità e l'amore terreno. E procedevano nella vita con gli ondeggiamenti dell'età, oggi tutte di Dio, domani tutte del mondo, senza sapere quale delle due tendenze dovesse prevalere in loro.
Il santo le seguiva attentamente, sollecitando l'azione della grazia con un ardore, un'insistenza che alle volte possono apparire perfino esagerate. Quale meraviglia ? Gli sembrava assurdo che, una volta conosciute le vanità della terra e la bellezza del cielo, si potesse esitare un istante nella scelta.
Un giorno, osservò tra le educande una fanciulla bruna, dagli occhi ardenti e vivaci, tutta guizzi nella personcina leggiera, nei gesti, nella voce, e le rivolse la parola: « Come andiamo, piccina ? Sei contenta di star qui ? ».
La fanciulla arrossì e tacque ; poi, alle sue insistenze, si fece ardita e lo fissò con due occhietti lucidi e biricchini in cui si leggeva chiaramente una risposta negativa. Oh no, come poteva essere contenta tra quelle mura gelide e spoglie ? Aveva una mamma, una casa nella sua San Severo e le rivedeva tante volte al giorno...
Il santo sorrise: « Ma questa è la casa di Gesù, qui vi sono le sue spose... ».
Geltrude di Cecilia non riuscì a frenare una risatina e scappò via con un frullo d'ala. Ma Gerardo ormai l'aveva ghermita ; non la lascerà più.
Una mattina l'inseguì con lo sguardo, mentre dal confessionale si dirigeva a passi lenti verso la balaustra, maestosa come una matrona, e la fece chiamare. Venne un po' indispettita, fermandosi a una certa distanza, con aria interrogativa. Ma Gerardo, accostatosi a lei, con la voce smorzata come un soffio, le disse : « Figliuola, perché non ti confessi bene ? Perché hai taciuto questo peccato al confessore ? Và, va, confessati bene. Anzi, segui il mio consiglio: fai una confessione generale e mettiti in grazia di Dio ».
La fanciulla divenne di bracia e partì senza rispondere. Fu richiamata dopo qualche giorno e questa volta ci mancò poco che non scoppiasse in lacrime. Avrebbe voluto dire: «Perché ce l'ha proprio con me ? », ma non disse nulla. Quale però non fu la sua sorpresa quando si senti dire col più buono dei sorrisi : « Figliuola, ora è troppo ! Ti sei confessata e confessata bene. Mettiti, dunque, l'anima in pace, perché sei in grazia di Dio».
Da quel giorno, quando il santo capitava a Foggia, non mancava mai d'incoraggiare la brava Geltrude che cresceva ricca di belle speranze, ma con la fantasia che era un alveare di sogni. L'ultima parola è della grazia, egli pensava, e attendeva. Intanto le dimostrava un affetto, una tenerezza, una stima, come già la vedesse sposa di Cristo. Una volta le chiese di cantargli una canzoncina spirituale, ma ella ammutoli aggrottando le sopracciglia nerissime, e nascondendosi dietro le compagne.
« Su, su, da brava, non fare la smorfiosa ! », le dicevano insieme le suore.
Finalmente si fece avanti, col volto coperto tra le palme grassocce e intonò la nota arietta del Metastasio : « Se Dio veder tu vuoi... ».
Tutti furono intenti ai trilli movimentati della ragazza e nessuno si accorse di nulla. Ma quando con l'ultima nota l'attenzione tornò a Gerardo, questi era come sospeso, gli occhi sbarrati, senza respiro, nell'estasi. E vi restò per molto tempo.
Si riebbe con un'idea : preparare un piccolo melodramma di carattere sacro che servisse a ricreare lo spirito e sollevarlo in Dio. L'idea fu accolta con entusiasmo ed egli si mise al lavoro. Scelse il soggetto, la passione del Signore, ed era il più conforme ai suoi ideali: anime innocenti abbracciavano la Croce e seguivano il Maestro per morire sulla stessa vetta con Lui. Distribuì le parti ; provò e riprovò finché la materia non divenne sentimento ; il gesto, partecipazione ; il canto, preghiera meditata e sofferta.
L'effetto fu lusinghiero : i presenti si commossero fino al pianto. Specialmente la nostra Geltrude che, più delle altre, aveva accompagnato il Maestro nell'azione drammatica, supplicandolo di renderla degna della stessa passione. Come se la preghiera musicale fosse stata accolta, da quel momento si produssero in lei nuovi sentimenti e nuove idee. Cessò, come per incanto, la ripugnanza per il chiostro ; poi affiorò una certa attrattiva, un certo desiderio sempre più determinato per la vita religiosa. E il santo accompagnava attentamente questa lenta evoluzione, senza affrettarne i tempi. Un'ammonizione, un incoraggiamento, una parolina di sfuggita, di quelle che s'imprimono come una freccia nell'anima, poi silenzio : « Sorella, facciamoci santi !». E il suo volto assumeva un'espressione estatica che la lasciava incantata. Finalmente il colpo decisivo : « Figlia mia, se tu abbandoni questo luogo, correrai pericolo evidente di dannazione : te lo dimostreranno le prime colpe ».
Il volto del santo era divenuto serio serio, tanto che la fanciulla ebbe un brivido e una nuvola passò sui begli occhi innocenti. Pregò, rifletté e si decise per il chiostro, portandovi la stessa vivacità di carattere, lo stesso ardore di sentimento. Era di quelle che credono di farsi sante in due giorni con le macerazioni e i digiuni e dovette scontare le conseguenze della sua precipitazione : una forma acuta di esaurimento che la costrinse a tornare in famiglia.
Partì con rimpianto: poi, condotta per svago da un luogo all'altro, cominciò le sue piccole avventure e gli occhi le si aprirono su un mondo sconosciuto. Allora addio, monastero ; addio, suore dai manti azzurri sulla tunica rossa! Geltrude s'incamminava su una nuova strada con l'ansia di percorrerla fino in fondo.
Ma una sera, tornata a casa col brivido di nuove sensazioni che l'avevano affascinata e sconvolta, attirata e respinta, sola, nel buio della sua cameretta, fu presa da improvviso terrore, come se si fosse affacciata sull'orlo di un abisso senza fondo : ancora una spinta e vi sarebbe precipitata. Allora riandò col pensiero agli anni sereni dell'innocenza, quando coi capelli inanellati si moveva per il chiostro muto e solenne, tra le suore che andavano e venivano, rigide e gravi. Ed ecco, a un tratto, un frate pallido, i grandi occhi scintillanti sul volto affilato : si curvava ancora su di lei e le sussurrava con la voce di una volta : « Se tu abbandoni questo luogo, correrai pericolo evidente di dannazione; te lo dimostreranno le prime colpe ».
Si riscosse spaventata : « è vero, è vero », gridò, « sono sulla via della perdizione ».
Il nuovo giorno la trovò mutata : gettò all'aria gioielli e vesti preziose e tornò di corsa all'antico monastero, dove perseverò fino alla morte, nell'esercizio delle virtù più eroiche.
Tale era l'apostolato che Gerardo svolgeva nel conservatorio di Foggia, tra quelle anime innocenti che indirizzava alla pietà. Ma la sua gioia era completa quando poteva ritrovarsi con la madre Crostarosa e gareggiare con lei in atti d'amore verso Dio. Chissà quante volte la grata si sarà illuminata e riscaldata al riverbero delle loro anime ardenti ! Chissà quante volte Gerardo avrà dovuto sospendere quelle conversazioni con rapimenti e salti di gioia ! E chissà quante volte la Madre, matura di anni e di esperienza, avrà cercato di moderare, magari con un sorriso indulgente, i propositi eroici del santo che avrebbe voluto stringere il mondo nella morsa della sua carità! Usciva da quei colloqui trasumanato nelle sue aspirazioni e nella sua sete di sofferenza. Dio non mancò di esaudirlo.
Un giorno se ne tornava a cavallo verso Deliceto con le briglie quasi abbandonate e gli occhi perduti verso il cielo immacolato. Percorse, senza accorgersene, tutta la distesa del Tavoliere fino alle ultime ondulazioni argillose e giunse nelle vicinanze della Castelluccia, dove muore la valle e sorge la collina. Il cavallo infilò, come al solito, la scorciatoia che tagliava un vasto campo di grano del duca di Bovino. La sapeva ormai a memoria quella strada e Gerardo lo lasciò fare, andando avanti per forza d'inerzia, col mento all'aria, gli occhi socchiusi, assorto in un pensiero profondo di meditazione e di preghiera. Ma a un certo punto si sentì salutare alle spalle da una stangata tremenda. Non vide più nulla e cadde tra i solchi. Quando rinvenne, si vide addosso due occhi infuocati e una bocca spalancata e bavosa che urlava: « Ah ci sei incappato! Da tanto tempo cercavo un monaco per farmene una scorpacciata e proprio tu ci dovevi capitare! ».
Le mani stringevano ancora le canne di un archibugio e col calcio continuava a infuriare sulla vittima abbattuta. La quale si raggomitolò in se stessa, puntò i gomiti a terra, si mise in ginocchio, congiungendo a stento le mani e disse con l'ultimo filo di voce
« Batti, fratello mio, batti, ché hai ragione! ».
E il guardiano continuava a imperversare, gridando e sbavando sul malcapitato : « Non ci vogliono scuse! ».
Poi, raddrizzata l'arma, si mise a punzecchiarlo con la punta della canna, tra un'irrisione e l'altra. Quando fu stanco del triste giuoco, puntò il calcio per terra, vi si appoggiò e si fermò a guardare quel povero monaco sempre sereno, sempre composto, sempre in ginocchio, con le mani giunte, che non faceva che ripetere: « Batti fratello mio, batti, ché ne hai ragione ! ». Questo non era un uomo, ma un santo del paradiso.
Allora un nuovo pensiero lo invase. Dalla furia all'irrisione al rimorso il passo fu breve. Gettò l'arma, si buttò anche lui in ginocchio tra le porche di grano, gridando con voce contraffatta dai singulti : « Perdonami ! ». E si dava grandi schiaffi sulla faccia abbronzata di galeotto, esclamando : « Che cosa ho fatto ! Ho ucciso un santo ! ». Gerardo fece ancora uno sforzo e l'abbracciò, dicendo « Perdonami, non l'ho fatto apposta a passare in mezzo al grano ».
E l'altro, rialzandolo da terra: «No, no, tocca a me chiedere perdono ! ».
Lo rimise in sella e lo accompagnò fino a Deliceto, sostenendolo con ambedue le mani. Gerardo, intanto, incurante delle trafitture che gli cagionavano le ferite, gli parlava di Dio e dell'anima e lo disponeva a una buona confessione. Giunto in collegio, lo affidò al superiore con queste parole: « Son caduto da cavallo e lui mi ha sorretto fin qui. Lo raccomando alla sua generosità ».
Poi lo chiamò in disparte e gli disse: « Quello che hai fatto a me, non farlo ad altri: te ne potresti pentire».
E se ne rimase tranquillo a letto con una costola rotta.
Il guardiano riacquistò la pace con una buona confessione e continuò a frequentare il collegio finché, ripreso dalle antiche abitudini, non ricominciò a maltrattare i passanti. Ma non tutti avevano la virtù di Gerardo.
Un giorno assalì un laico dei Minori Osservanti, il quale, visto il pericolo, si buttò da cavallo, chiedendo pietà per San Francesco e Sant'Antonio. Ma, arrivatogli vicino, con un salto felino, gli strappò di mano il fucile e, usandolo a guisa di bastone, gliene diede tante e poi tante da lasciarlo mezzo morto sul campo. Allora, spezzato lo schioppo, corse dal duca che villeggiava non troppo lontano e gli raccontò l'accaduto. Come prova, si scoperse le spalle, mostrando le percosse ricevute. Il duca, commosso, gli fece un'abbondante elemosina, e congedò il guardiano brutale che fu ucciso poco dopo in rissa con un colpo di fucile. Solo Gerardo lo pianse, Gerardo che portava ancora nella carne le conseguenze di quell'incontro e le porterà fino alla morte. Da quel giorno infatti la sua salute divenne più cagionevole e i disturbi più frequenti. Ma i santi si vendicano così.