Il segno dello Spirito
Capitolo V
Il 5 giugno 1740, nella chiesa del Carmine, Gerardo ricevette il sacramento della cresima dalle mani del suo concittadino mons. Claudio Albini, vescovo di Lacedonia, mentre il coro delle Clarisse invocava sulla giovane recluta dell'esercito di Cristo i sette doni dello Spirito e l'altare sfavillava dei rossi colori della Pentecoste. Che cosa provò allora il nostro santo? Pensò forse essere giunto il momento di trasformarsi in cavaliere dell'Amore, pronto ad affrontare il martirio per divenire l'Ostia monda di Dio? Certo uscì da quella chiesa, sotto il cielo squillante di giugno, deciso a combattere tutta intera la buona battaglia come gli apostoli dopo la grande rivelazione del Fuoco. Anch'egli portava in petto una fiamma e voleva la gioia di soffrire per il nome di Gesù.
Con questi ideali balenanti nell'anima, si dispose ad attuare il suo sogno infantile: uscir dal mondo per tornarvi come fiaccola accesa nella notte. La scelta non era difficile : il padre Bonaventura gli aveva ispirato una venerazione profonda per i Padri Cappuccini che dal loro romitorio, bianco tra gli olivi, continuavano a suggestionar la sua fantasia. Fasciati di silenzio, essi potevano contemplar giorno e notte la maestà del Creatore e presentarsi ai popoli con la testa rasa, i piedi scalzi, il cordiglio ai fianchi, umili, come i penitenti della Tebaide, ma divorati dal fuoco dell'amore, come gli apostoli della prima Pentecoste.
Ma come presentarsi ? La soluzione dovette affacciarsi da sola con l'autorità dello zio, che dalla solitudine di Santomenna, a mezzogiorno della sella di Conza, faceva già sentire il suo prestigio personale di uomo dotto e virtuoso sulla sua provincia religiosa.
Quando il p. Bonaventura si vide avanti il nipote, spossato da una marcia di otto o dieci chilometri, attraverso sentieri montani, provò un'impressione di dolorosa sorpresa e la sorpresa si mutò in meraviglia quando intese i motivi della venuta. Era davvero assurdo che quel povero mucchietto d'ossa pretendesse abbracciar la regola di S. Francesco! No, la regola esigeva ben altre spalle e glielo diceva l'esperienza. Gli entusiasmi giovanili sono fuochi di paglia, ma, senza una salute di ferro, non si resiste nell'Ordine. Perciò, dopo avere alquanto tentennato la testa, gli rispose freddamente: « No, figlio mio, questa non è la tua strada!». E, siccome l'altro tornava alla carica, gli troncò la parola in bocca. Poi, spianando la faccia a un largo sorriso: « Ora riposati», conchiuse, « ne hai bisogno; ti dirò io quando devi ripartire ».
Così dicendo, lo condusse in guardaroba e gli fece indossare un soprabito quasi nuovo, chiamato con vocabolo settecentesco « giamberga ». Quindi lo guardò con una certa soddisfazione: gli stava a pennello. Gerardo lo lasciò fare a malincuore e per qualche tempo fu costretto a sfoggiare una certa proprietà ed eleganza. Ma un giorno, mentre camminava rasente le alte mura del giardino, vide un povero che gli stendeva la mano. Senza pensarci due volte, si tolse il soprabito e glielo consegnò. Poi si ritirò in convento. Allora sì che il p. Bonaventura poco mancò non gli mollasse uno schiaffo, ma l'altro lo disarmò col sorriso : « Che volete, caro zio ? Ho incontrato un povero che ne aveva più bisogno di me».
Fu l'unico avvenimento che distinse quei giorni di paradiso, volati, ahimé, troppo presto. Il luogo era una conca verdeggiante ricca di sorgenti, di alberi, di silenzio e, più di tutto, di preghiera e di semplicità francescana. Senza il frastuono degli affari, senza la voce stridente del padrone che lo chiamava al lavoro. E il nostro giovane si sentì rifatto. Chiese ancora di restare, di restar per sempre, ma lo zio fu irremovibile: al giorno stabilito, lo accompagnò alla porta.
Così Gerardo tornava in famiglia. Una speranza era caduta ai suoi piedi, ma rimaneva intatta, sorgente di ogni speranza, la croce tracciata dal vescovo sulla sua fronte nel mattino della Pentecoste. Era soldato di Cristo : e doveva marciare, lottare e soffrire per l'ideale della croce, seguendo lo Spirito che moveva i suoi passi, senza mai chiedergli dove lo conducesse e perché. E lo Spirito, che tiene in mano il cuore degli uomini e li muove a suo piacimento, lo volle condurre alla meta per una via davvero impensata. Era stato un vescovo, mors. Albini, ad arruolarlo nella sacra milizia, esortandolo a combattere fino in fondo la buona battaglia e doveva essere proprio lui ad allenarlo alla lotta. Il vescovo, ciò facendo, seguiva inconsapevole la tirannia del suo carattere e invece svolgeva un ruolo sublime nelle mani della Provvidenza. Sembra uno scherzo ed è la storia di ognuno.
Mons. Claudio Albini, vescovo di Lacedonia, era uno di quegli strani impasti di qualità contrastanti che ordinariamente definiamo ingegnacci. Intelligente e sagace e, nei momenti migliori, cordiale ed espansivo, sciupava tutte queste doti con un cumulo repellente di difetti. Perciò fu accompagnato per tutta la vita da movimenti spontanei di simpatia e da strascichi prolungati di odio. Dottissimo nelle discipline ecclesiastiche, era stato ricercato dai vescovi per riordinare la loro curia, ma iracondo, orgoglioso e sprezzante, aveva dovuto vagare di diocesi in diocesi, sempre inseguito dalle ire e dalle proteste dei nemici che suscitava ad ogni passo. Dal 1712 al '14, era stato vicario generale della diocesi di Caserta ; dal '14 al '21, della diocesi di Salerno; dal '21 al '23, della diocesi di Urbino. Cacciato anche di qui e ridottosi in Muro, non tardò ad azzuffarsi col proprio vescovo, monsignor Manfredi. Invece di sottomettersi, corse a Roma, dove, per mezzo di amici potenti e di abili maneggi, riuscì a farsi preconizzare vescovo di Lacedonia il 25 maggio 1736 da Clemente XII. Monsignor Manfredi, da vero signore, seppe incassare il colpo e lo accolse con ogni riguardo, anzi lo invitò a pontificare in cattedrale, ma l'Albini non disarmò. Racconta il Martuscelli, per tradizione dei vecchi canonici, che quando il coro intonò l'ora terza, giunto al versetto: « Bonum mihi Buia humiliasti me», dal trono dove sedeva ricoperto dagli abiti pontificali, si volse sogghignando verso mons. Manfredi che gli sedeva al fianco, come per dirgli:« è il caso mio; se mi trovo a questo posto, lo debbo proprio a te, alla umiliazione che volevi impormi». (LUIGI MARTUSCELLI, ox., pag. 422).
Con un carattere simile, troviamo fin troppo naturale ciò che dice di lui e dei suoi otto anni di governo, l'Enciclopedia dell'Ecclesiastico citata dallo stesso Martuscelli : « Fu in continue controversie col Capitolo e con le Università di Lacedonia e Rocchetta circa i diritti e le rendite delle cappelle e luoghi pii» (o.c. pag. 422). Né riservava trattamento migliore coi notabili della città e con chi, per un motivo o per un altro, fosse costretto a trattare con lui. Coi familiari poi era addirittura un uragano. Estroso, scontroso, volubile e manesco, aveva creato il vuoto perfino tra sé e i congiunti. I domestici ne raccontavano di cotte e di crude. Tutti avevano dovuto, presto o tardi, congedarsi, chi dopo una settimana, chi dopo un mese e chi - ma questi veniva additato come un portento - dopo un paio di mesi.
Mentre un giorno Monsignore, ritrovandosi in Muro, si lamentava della sua cattiva sorte in fatto di domestici, qualcuno esclamò « Provate con Gerardo. è l'unico che possa contentarvi».
E in quanto a pazienza e buona volontà, aveva ragioni da vendere, ma si sbagliava per il resto. Per contentare Monsignore, o almeno prevenirne le sfuriate e pararne le conseguenze, ci sarebbe voluta un po' di abilità, magari un po' di diplomazia, ma dove trovar diplomazia in Gerardo ? Quella calma servizievole un po' lenta e distratta, poteva passar per flemma e la flemma finisce per irritare un carattere passionale e orgoglioso. La reazione inasprisce, è vero, ma ti lascia almeno sfogare; invece la calma imperturbabile, il sorriso continuato, ferisce l'orgoglio e ristagna l'ira nel cuore. Ed era ciò che capitava a Monsignore. Lontano le mille miglia dal sospettare il motivo di quell'atteggiamento pacioso e soddisfatto, era tentato ogni volta d'attribuirlo a indifferenza o noncuranza e finiva con l'irritarsi maggiormente. Gli pareva di scapitarci; di farsi prendere sottogamba da un ragazzo o, per lo meno, d'avere a che fare con uno scimunito. Quando lo vedeva rispondere col silenzio e col sorriso alle sue intemperanze, allora la rabbia gli rendeva roca la voce e « Ce l'ho con te, capisci, ce l'ho con te! », urlava scagliandogli addosso quello che cadeva sotto mano. I familiari, gli ospiti, e quanti frequentavano il palazzo, costretti ad assistere ogni momento a simili sfuriate, compassionavano, magari cogli occhi, il povero cameriere e a tu per tu gli dicevano : « Ma che aspetti a lasciarlo ? Vuoi proprio che ti schiacci la testa sotto i piedi ? ».
Allora Gerardo reagiva con forza: « No, non è vero. Monsignore mi vuol bene. Sono io che non so far niente. Ma imparerò, imparerò ». A questo martirio morale aggiungeva il martirio dei digiuni. Ora che avrebbe potuto servirsi con una certa prodigalità, continuava inflessibile col suo pezzetto di pane risecchito e i pochi spicchi d'aglio. Nei giorni di festa si permetteva il lusso di una minestra di legumi, condita di assenzio. E la sua pietanza la passava ai poveri e agli ammalati che visitava nelle loro stamberghe infette e puzzolenti. Con tale tenore di vita, si sviluppava come quelle pianticelle nate nell'ombra, che si protendono in altezza in cerca di luce. Solo due occhi enormi dominavano sul volto pallido e scavato, ma anch'essi si contraevano molto spesso sotto gli spasimi viscerali e le violente emicranie. Eppure, come se tutto ciò non bastasse, si straziava con una tecnica ingegnosa, studiata a freddo, con calcolata razionalità, perché ogni senso avesse il tormento adeguato. Un giorno, in Muro, s'imbatté col chirurgo La Morte, il quale, vedendolo più sparuto del solito, gli domandò a bruciapelo: «Come stai ? ».
« Bene! ».
E l'altro: « Lo vuoi dire a me ? Con quella faccia ? Vieni qua». Gli tastò il polso. Era regolare. Allora, con mossa brusca, gli scoprì il petto. Chiuse gli occhi raccapricciato : le punte di un aspro cilizio mordevano come chiodi la carne.
« Lo porti solo di giorno ? ».
« No, anche di notte! », e il sangue gli salì sulla faccia.
In tal modo, si era attirato addosso gli occhi di mezzo paese lo vedevano semplice, rumoroso, faceto, accompagnare i fanciulli nei giochi e nei passeggi, istruirli nella Religione e condurli in chiesa, durante l'esposizione delle Quarantore. Allora lo spettacolo era bello davvero. Quel branco di monelli scamiciati si stringeva attorno alla giubba gallonata del santo e lo guardava sulle labbra, quasi a raccoglierne la preghiera che gli usciva dall'anima. Anche gli adulti lo guardavano come si guardano gli angeli del cielo. Perché solo gli angeli pregano così.
Ma un giorno, lo racconta il Tannoia, un fatto straordinario venne ad accrescere la sua fama.
Gerardo aveva rassettato l'appartamento del vescovo e, chiusa la porta, era volato ad attinger l'acqua, giocherellando con la chiave. L'aveva poi posata sul parapetto del pozzo e s'era messo a manovrare la carrucola, ma, nella foga dell'azione, l'aveva urtata col gomito e fatta scivolare nell'acqua.
Allora si riscosse, portandosi la mano alla fronte. E gli passò davanti la visione di Monsignore come negli accessi di collera: con gli occhi iniettati di sangue; le labbra bavose e convulse; la bocca spalancata a gridare. Poi, sbollita la collera, si sarebbe afflosciato come un cencio, tremando da capo a piedi.
« Povero Monsignore », esclamò, « quanti dispiaceri per causa mia! ». E, alzando gli occhi al cielo: « Signore», pregò, « risparmia questa pena a Monsignore!».
Continuò la preghiera con tanto raccoglimento da non udire nemmeno il parlottare sommesso delle comari che commentavano l'accaduto. D'un tratto s'interruppe e sfrecciò via come un razzo. Rieccolo poco dopo con una statuetta di Gesù Bambino: la legò alla corda, dicendo: « Tu solo puoi levarmi d'impiccio! » e la calò nel pozzo. Poi cominciò a tirare a larghe bracciate, tra un semicerchio di occhi puntati sull'acqua. Ecco la testolina ricciuta, grondante acqua ; ecco le spalle, il petto, ecco le manine. è là che corsero gli sguardi : e l'aspettativa non fu delusa. Sulla destra era appesa la chiave.
Tutti gridarono al miracolo e, a ricordo del fatto, chiamarono il pozzo col nome di « Gerardìello ». Chi non se ne meravigliò affatto fu il nostro Gerardo che, semplice e sereno, si ritirò in cucina con la gioia d'avere evitato un dispiacere a Monsignore. Ma questi, se mai lo seppe, era troppo schiavo del proprio carattere per tentare di arginarne gli eccessi. Continuò quindi a imperversare con le sue violenze finché non fu tolto di mezzo dalla mano provvidenziale di Dio. Era il 25 giugno del 1744. La notizia giunse fulminea da S. Andrea di Conza dove il vescovo si trovava da qualche giorno, chiamato dal suo metropolita Giuseppe Nicolai. Aveva sessantacinque anni e fu sepolto nella chiesa dei Francescani Riformati.
Tutta Lacedonia tirò un sospiro di sollievo, perché l'Albini, in pochi anni, aveva avuto la bravura d'irritare un po' tutti, governo, nobiltà e popolo. Tutti se ne rallegrarono, meno uno: Gerardo. Questi fu udito esclamare : « Ho perduto l'amico migliore! ». E pianse. Furono le uniche lacrime versate sulla sua tomba.