10 Gennaro
SAN PAOLO PRIMO EREMITA
Sedeva sulla cattedra di san Pietro santo Urbano I pontefice massimo di ogni più bella virtù fornito, e moderava le redini del romano imperio Alessandro Severo, quando al principio dell’anno 229 di Cristo spuntò alla luce del giorno da doviziosi e nobili genitori san Paolo denominato primo eremita, perché egli fu il primo, di cui sappiasi con sicurezza dalla ecclesiastica istoria, che abbandonate cittadi e castelli si riducesse a vivere solitario nello squallor dei deserti.
Ebbe per patria la bassa Tebaide nell’Egitto, così detta anticamente da Tebe una volta sua capitale, che assai ampla e famosa torreggiava sulle sponde del Nilo. Nacque egli, e crebbe in seno alla pace, di che i cristiani dell’anno 211 primo di Caracalla godevano lietamente, ed Alessandro Severo guardavasi bene dall’arrecare ad essi alcun torto, perché la di lui madre Giulia Mammea arbitra del governo, istruita da Origene intorno alla potenza e gloria di Gesù Cristo, e santità delle sue leggi, gli aveva instillati buoni sentimenti in favore de’ cristiani, e gli aveva altamente scolpita nel cuore la massima, principio, fonte e regola di tutti i doveri della umanità, e della vita sociale e civile “ciò che non vuoi che sia fatto a te, neppure devi farlo ad un altro”. Sicché essendo la pace la conciliatrice dell’arti belle non meno che degli ottimi studi, Paolo, che dalla natura sortì indole dolce e mansueta, ingegno pronto e perspicace, potè bene applicarsi all’acquisto della egiziana e greca letterature, e tanto vi si applicò, che ne divenne egregiamente perito. Quello però che più gli caleva, era l’acquisto della scienza dei santi. La quale in un animo sì ben composto sotto le affettuose e vigili cure de’ suoi cristiani e fervidi genitori, e dalla grazia de’ sacramenti condizionato ad ogni buona e laudevole azione metteva quelle profonde radici, che lo resero poscia un vero portento di evangelica perfezione da aprire a tanti altri una strada di luce, per cui dal fondo di questa valle di lagrime si giunge a conversare beatamente nel cielo.
E già de’ mondani diletti per nulla curante come de’ puerili solazzi affatto sdegnevole, caldo di puro amor verso Dio, sa con piè franco passare tra le vicende di questo secolo, avverse o prospere, difficili o lusinghiere senza urtare giammai in una pietra d’inciampo, o mancare di lena nell’aperta carriera della virtù. Giunto al terzo lustro dell’età sua, e correndo l’anno di Cristo 244, piacque all’Altissimo visitarlo con una di quelle tribolazioni, che nel più intimo ricercano l’umano cuore, e sono vie più sensibili alla passionata e misera gioventù. La morte madre feconda di desolazioni e di affanni viene più che mai inesorabile a rapire a Paolo l’amato padre e la tenera genitrice, due oggetti i più estimabili e cari, ch’ei si tenesse al mondo. Qual ne restasse a questo colpo improvviso e fatela il bennato garzone, ognuno puote immaginarlo. Se non che la religione gli aprì un nobile commercio tra la casa e la tomba dei suoi parenti, e potè fargli tra le calde preghiere e le pie lagrime abbracciare le loro anime nella regione dei morti. La sola religione lo consolò, e facendogli piegar serena la fronte ai voleri del cielo gli tenne in guardia il cuore per non invescarlo all’attacco del gran patrimonio, di cui i genitori stessi lo lasciarono erede, non avendo egli se non una sorella maggiore, la quale era già maritata. Istruito vie meglio dalla perdita de’ suoi cari a vivere distaccato da tutte le creature, non cercava che di piacere al suo Dio. già disponendo l’Onnipotente entro il di lui tenero cuore le sue mirabili ascensioni, e la santa sua grazia operando in esso con soavità insieme e con forza, gli segnava dall’alto una strada, cui nei tempi di pace forse non avrebbe corsa giammai.
Aveva Iddio dopo le sanguinose tragedie dato lungo riposo alla chiesa; giacché la pace da essa goduta per lo spazio di anni 24 non si turbò che nel 235, quando Massimino barbaro di nazione e più barbaro di costumi fu acclamato dai militi imperatore, e quindi nel 237 dal suo esercito trucidato, e questa pace continuò sempre sotto l’imperio dei Gordiani, e dei due Filippi, che presso molti sono passati per cristiani, e che furono sgraziatamente uccisi il vecchio presso Verona, e il giovane a Roma nel campo dei pretoriani. Aveva san Cipriano (1) prevenuti i fedeli della settima persecuzione già prossima, e ne aveva anche parlato Origene nella sua opera contro Celso (2). Difatti eletto appena dai soldati rubelli nella Pannonia imperatore Q. Traiano Decio, colla nuova della mutazion del governo giunsero nelle provincie le terribili minacce, e indi a poco nell’anno di cristo 250 i ferali pressantissimi editti del nuovo Cesare contro la chiesa. Le spade, il fuoco, le bestie, le fosse, i ceppi, le sedie di ferro infuocate, gli eculei, i patiboli, le unghie di ferro erano tutte pronte. Il principale studio degli empi giudici e dei brutali ministri consisteva in inventare nuovi e più atroci tormenti, per non cedersi il vanto di maggior crudeltà, e tutti erano d’accordo, anzi che troncare d’un colpo la vita, d’angustiare fra le orribili tentazioni i pazienti per togliere ad essi l’innocenza, martoriati alla lunga, e strappare a poco a poco dalle membra rotte e dai petti laceri e sanguinanti gli animi fuggitivi. Sparsosi da per tutto il più alto spavento, e suggerendo la prudenza di non esporsi da sé ad una persecuzione, la quale più mirava ad annientar la pietà che a distruggere le persone, a togliere più la vita alle anime che ai corpi, sull’esempio dei santi vescovi, Cipriano che si ritirò da Cartagine, Dionisio che fuggì d’Alessandria, Gregorio che s’appartò da Neocesarea, e Massimo da Nola, molti cristiani recandosi ai monti solinghi cercarono tra le belve un asilo, che gli uomini tuttoché dotati di senso e di ragione negavano spietatamente.
Tra quelli che volsero alla fuga le terga si novera il nostro Paolo, che abbominando di macchiar l’anima sotto la tonante procella in un casin di campagna solitario e molto lungi dall’abitato, colla germana e col cognato e più colla sua bella innocenza si ritirò. Quivi considerando che Iddio nella persecuzione prese come in mano il ventilabro, onde sceverare l’eletto frumento dell’inutile pula, quello raccogliere ne’ suoi tabernacoli, questa perdere tra i suoi nemici, punire in alcuni le loro sregolatezze, raffinare in altri e coronar la virtude, il nostro eroe fu sollecito nel trar profitto da cotesta visita del Signore, e formarsi col fervore dello spirito un vero atleta di Cristo. Aveva egli fiso nell’animo di rimanersi in quella solitudine tutto in amor verso dio finché la spada della persecuzione fosse ringuainata. Ma a qual eccesso non porta il cuor de’ mortali l’esecranda fame dell’oro? Il marito di sua sorella, preso da forte tentazione di avere in retaggio le sostanze tutte di Paolo, deliberò di manifestarlo ed accusarlo ai suoi persecutori, e a distornelo non valsero le amare lagrime della moglie, non la voce del sangue, non il timore di Dio che tutto vede. Da quel orribile tradimento fu avvertito il santo giovane, che pur sapeva levarsi a quei misteri tempi il perfido figlio contro il genitore fedele, accusar l’empio padre l’innocente e devoto figliuolo, ed il fratello non aver ribrezzo di divenir fratricida col chiedere ai giudici il sangue del fratello costante nelle pietà. Determinò pertanto di lasciarsi a tergo la casa, e con essa il mondo. E detto fatto sen vola ai montaneschi deserti, fra i quali a poco a poco inoltrando con piede incerto, e soffermandosi spesso, trovò in fine un monte tutto sassoso, alle cui radici stava non lungi una grande spelonca, il cui ingresso ampia pietra chiudeva. Spiò primamente da fuori col guardo cupido il luogo, rimosse la pietra, e frugando curiosamente per entro, vide un gran vestibolo formato unicamente dai fronzuti rami estesi e fra loro intralciati d’annosa palma, pei quali scopri vasi in alto bellamente rilucere l’azzurro cielo. Vide un cristallino fonte presso la caverna, e zampillando da piccol forame purissimo il rivo, usciti quasi appena dalla sorgente, inghiottivasi dalla terra. Vive all’infuori sparse qua e là per la corrosa montagna non poche cavernette abbandonate, e in esse scabre ancudini e ruginosi martelli, che secondo le vetuste memorie delle egiziane lettere avevan servito per battere moneta falsa ai tempi di Marc’Antonio e Cleopatra. Sicché essendo il luogo solitario affatto e securo, e riguardandolo come un soggiorno preparatogli dal Signor Dio sommamente gli piacque, e deliberò fissarvi sua stanza. La necessità da prima lo spinse a fuggire dal mondo, ed a cercare un ricovero nei deserti: ma appena vi fu entro, nell’anno ventesimo terzo della sua età, e di cristo 252, la vita solitaria, taciturna e raccolta cominciò a piacergli per modo, che la si scelse per sua, e divenne fino alla morte sua vera delizia su questa terra. La palma poi, di che or dianzi si disse, gli somministrava il vestito ed il vitto. Imperocchè gli Egizi e gli Africani fan colle palme molti lavori, e dei fili della corteccia e delle foglie si valgono a formare cestelli, sporte, frondi, che n’ebbe contesta una tonica, di cui andò coverto per tutta la vita. Pochi frutti di questa pianta, che altri chiamano palmole, ed altri datteri, gli fornivano il giornaliero alimento, ed ai zampilli del predetto fonte colla mano concava si dissetava, il qual tenore di vita comecchè rigidissimo non debbe ad alcuno, dice san Girolamo, parere impossibile.
Egli stesso attesta, che in quella parte di eremo, la quale lungo la Siria si unisce ai Saraceni, vide i monaci, e due ne conobbe, uno de’ quali essendo stato rinchiuso trent’anni visse di pane e d’orzo, e d’acqua torbida, l’atro in un’antica cisterna con soli cinque fichi al giorno si sostentava. Dunque siffatte cose sembreranno incredibili a quei che fede on hanno, perché tutte le cose sono passibili ai veri credenti. Ma per ritornare a san Paolo, vivente in austerissima penitenza giorno e notte fra i sassi, giunto che egli fu all’età di anni 53, il Signore si compiacque di fare un continuo miracolo per nutricarlo. Come un tempo praticò con Elia Tesbite, così usò con Paolo in quella spelonca, mandandogli ogni giorno col mezzo di un corbo la metà di un pane, cui sul vestibolo crocidando il bruno volatile deponeva. Quale poi fosse il metodo della virtuosa sua vita, quali e quante insidie soffrisse da Satanasso, e sostenesse battaglie, e come uscisse vincitore da ogni cimento, e di quali benedizioni elettissime Iddio arricchisse il suo spirito in quella solitudin profonda, e nel silenzio di tutte quante le cose per lo spazio di novant’anni che vi dimorò, a niuno degli uomini, dice Girolamo, fu reso noto. Solamente possiamo congetturarlo dal fatto costante con che l’Altissimo usò scegliere i deserti come teatro di sue più splendide meraviglie. A ciò ponendo mente il magno Basilio (1) non rifina di celebrare l’eremo, protestando che tutto il mondo va ad esso debitore di quanto bene il cielo fe’ discendere sulla terra. La profezia l’ammira, la legge lo esalta, la celeste vision lo rischiara, la voce dell’Onnipotente lo scuote, e trovasi in esso la scala del cielo, la manna degli angeli, l’aurea via sicura e breve, che gli esuli riconduce alla patria dell’eterna felicità. Per la qual cosa possiamo rettamente conchiudere, che il nostro Paolo in quel suo diuturno ritiramento, nello spoglio volontario e totale non pure dei terrestri beni, che di tutte le umane cure, trattenendosi giorno e notte solo solo con Dio, ne meditasse di continuo le sorprendente ed infinita grandezza.
Quindi studiandola chetamente sull’aperto libro e magnifico della natura, ora di notte tempo in un cielo seminato di stelle, ora di giorno al vivo rompere dell’aurora e del sole salutato dai cantici dei pinti augelli, e sopra una terra ricoperta d’erbe, di fiori, di piante e da innumerevoli animali, non che da uomini popolata, univa la sua alla voce di tutte le create cose, che in loro senso lodano, benedicono, e ringraziano il Creatore. A questa vista a mille a mille gli passeggiavano per la mente le testimonianze bellissime dell’Esser supremo, e da tutto con muta sì, ma vincitrice eloquenza, sentivasi parlar di lui, e il cuore struggere in santi effetti di adorazione e di amore. Ma poi meditandolo nei libri santi, negli annali della rivelata religione, negl’immensi tesori della sua infinita sapienza, onnipotenza e bontà; chi saprebbe dire com’ei s’elevasse sopra se stesso, e nell’eccesso della sua mente trapassando le regioni dei sensi contemplasse nella divina chiarigione il suo Dio? Certo, che non essendo giammai distratto dalla orazione, e volendo Iddio che né tampoco pensasse alla giornaliera refezione ch’egli medesimo provvedeva, forza è conchiudere ch’ei lo tenesse spessissimo assorto nel sempiterno suo lume, lo trasportasse nei gradi della più alta contemplazione. Lo arricchisse de’ suoi carismi, e gli facesse menare una vita angelica e celeste. Che fosse infatti così, Iddio stesso ne diè chiaro argomento allora quando a Sant’Antonio abbate lo rivelò. Stavasi questi in altra parte della Tebaide animando tanti coll’esempio e colla voce a vivere ritirati dal mondo una vita di perfezione, quando essendo nonagenario gli andò per l’animo un pensiero, ch’egli poscia soleva ad altri narrare; non avervi cioè tra i monaci, che avesse al par di lui passata la sua vita nel deserto da vero e perfetto anacoreta. Ma la notte mentr’egli stanco del travaglio del dì si posava, il Signore ne lo trasse d’inganno, manifestandogli che ne’ più interni recessi dell’eremo in mezzo agli straripevoli massi viveva altro monaco di lui molto migliore, e ch’egli doveva senza frappor dimora recarsi a visitarlo. Riscosso dal sonno il venerando vecchio all’apparir dell’alba rosata, appoggiando l’egre membra sul noderoso bastone, si pose in viaggio ver l’incognita meta. Il sole intanto dal più elevato punto del suo meridiano vibrava intorno i cocenti suoi raggi, né per questo il grande Antonio trattenevasi dall’intrapreso cammino cercando orezzo, ma iva tra sé dicendo “Credo nel mio Dio, che mostrerammi il suo gran servo secondo la sua promessa”. Quand’ecco se gli fa innanzi un mostruoso animale atto a gelar l’animo del più alto spavento. Arma allora il santo del salutifero segno di croce la rugosa fronte, e “olà chiunque tu sii o belva, o uomo, gli dice, additami dove abita il servo del mio Signore”. E quegli dall’orrida bocca scrosciando fra i denti barbara voce, e dimenando le irsute membra, accennò come meglio seppe il cammino, e fuggendo colla velocità del baleno pei lati campi si dileguò. Ma fosse ciò stato un diabolico spettro sorto ad atterrire l’uom di Do, o si trovasse sì veramente nell’eremo, che suol essere di mostruoso belve ferace, ci è incerto. Il fatto sta, che stupitone Antonio, e ravvolgendo nell’animo ciò che mirò, narra san Girolamo, che fra la sassosa convalle altro pur ne vedesse più orrendamente misto di brutali forme ed umane, contro cui impugnando Antonio qual buon soldato di Cristo lo scudo della fede e la lorica della speranza, quello se gli avvicinasse presentandolo d’alquanti datteri per lo ristoro, e di più con callose labbra il pregasse di rendere a sé propizio il comun Dio venuto già per la salute del mondo. Udito che l’ebbe Antonio rigando le senili gote di lagrime pel gaudio della gloria di Cristo, e della morte di Satana, percuotendo col bacolo l’arsiccia terra: “Guai a te, o Alessandria, sclamò, guai a te, che in luogo del vero Dio i mostri adori, guai a te, città prostituta, dove i demoni concorsero di tutto il mondo. Le stesse belve parlan di Cristo, e tu ai mostruosi idoli ti prostri veneratrice”. Diceva, ed il cozzante animale quasi a volo fuggì. E perché ciò non paresse a taluno incredibile, aggiunge il santo dottore che desso ancor vivente fu fatto in Alessandria spettacolo a tutto un popolo, e posciachè fu estinto, si condì di sale, si portò in Antiochia, affinché fosse dall’istesso imperatore osservato. Il santo abbate intanto avea per quell’ampio deserto passati due giorni, né sapeva dove indirizzarsi; giacché non eravi vestigio d’uomo, ma sol di bruto.
Sopraggiunse la seconda notte a coprir di tenebre l’orizzonte, e Antonio seguendo le stelle nelle loro vigilie, profittò di quel cupo silenzio, come n’aveva il pio costume, per meditare le divine giustificazioni. Osserva poi sul far dell’alba tra la dubbia luce anelar da lungi per ardente sete una lupa, e insinuarsi alla radice di un monte. La segue egli col sguardo, ed avvicinandosi alla spelonca, posciachè la fiera ne fu partita, pensò di essere al termine del suo viaggio. Con lento passo, e ritenendo anche il respiro, l’accorto esploratore vi entra, ed inoltrandosi a miccino, e più spesso anche fermandosi, stava col teso orecchio qualunque tenuissimo sibilo ad ascoltare. In fine, avendo tra l’orrore d cieca notte veduto un piccol lume da lungi, affretta colà il passo, e incespicando in una pietra fa dello strepito, da cui avvertito san Paolo, che non voleva farsi vedere da alcuno, corre subito a serrare diligentemente la porta. Ma Antonio gettatosi per terra avanti la soglia vi stette fino al meriggio scongiurando Paolo, a fine che gli desse l’ingresso. “Chi io mi sia, diceva, e donde venga, ed a qual fine, tu il sai. Io ben so che non merito il tuo cospetto; nondimeno io non partirò di qua senz’averti veduto. Tu che dai ricetto alle belve per quantunque immani della muta foresta, rigetterai un uomo immagine e somiglianza di Dio? lunga pezza ti ho cercato, e ti rinvenni, picchio al tuo ostello, affinché lo mi disserri. Che se non potrò otttener questa grazia, quivi morrò proteso alle tue soglie, e tu certo darai al mio cadavere sepoltura”. Alle replicate istanze cede finalmente san Paolo, e rompe così il silenzio di novant’anni: Niuno chiede per cotal guisa da far minaccia; niun colle lagrime reca alcuna ingiuria, o tesser vuole calunnia, e tu fai le subite meraviglie s’io non riceva, essendo tu venuto in tempo in cui son per morire”? E s dicendo sbarra l’ingresso e lo accoglie con un dolce sorriso. Si abbracciano insieme i due santi solitari, si salutano a nome, ancorché niuno dei due avesse prima sentito parlar dell’altro, e ringraziano Dio insieme.
Dopo il santo bacio, Paolo incomincia: “Ecco colui, che con tanta fatica cercasti, cui un’incolta canizie ricuopre le membra ormai putride per vecchiezza. Ecco, tu vedi un uomo che ben presto in polvere sarà ridotto. Or giacché sei venuto, e la carità tutto sostenta, dimmi di grazia come si porta l’umano genere? Si fabbricano nelle antiche cittadi nuovi palagi? Come va il mondo, e chi è l’imperatore che lo governa? Avvi ancora gente sì cieca, che dal rio demonio è affascinata nel culto de’ falsi numi”? Mentre i due eroi si trattenevano in tali ragionamenti vedono un corbo, che, riposato alcun poco sul ramo di un arbore, svolazzando s’abbassa, depone ai loro piedi dal rostro un pane intiero, e spiega poscia festoso le penne a sublimassimo volo. “Vedi, ripiglia Paolo, Iddio veramente buono e misericordioso ci ha mandato di che cibarci. Sono già sessant’anni, ch’io ricevo ogni giorno la metà di un pane per mio ristoro. Oggi alla tua venuta il Signore ai suoi soldati la provvedigion raddoppiò”. Rese pertanto a Dio le grazie, ambidue sul margine del cristallino fonte s’assidono a mensa veracemente non compra. Nata quistione intornio a chi dovesse spezzare il pane, Paolo, giusta il costume, l’offre ad Antonio siccome ospite, Antonio il ricusa a Paolo per maggioranza di età, e umiliandosi a vicenda vengono nel consiglio di trarlo ciascheduno dalla sua banda, e manucare la parte che in man gli fosse restata. Indi curvi sopra la fonte bevono i freschi umori, e immolando a Dio un sacrificio di lode, passan vegghiando in preghiere e nel canto dei salmi tutta la notte. Ritirate le tenebre e fatto giorno, Paolo ad Antonio così favella: “Ha gran tempo, o fratello, ch’o conobbi trarre tu in cotest’erme regioni i tuoi giorni, e da gran tempo Iddio mi promise di veder te mio conservo. Ma perché il giorno della mia dormizione è venuto, ed io ho sempre bramato che, sciolti i vincoli di questo corpo, potessi esser con Cristo, tu fosti qua mandato per ricoprir di terra il mio esanime corpo, anzi acciochè renda alla terra l’istessa terra”. Antonio all’udirlo ruppe in amarissimo pianto, e lo pregò ad averlo compagno di così fatto viaggio. “No, soggiunse Paolo, non devi tu cercare il tuo privato vantaggio, sì ben l’altrui. È a te espediente, gettato via il carico della carne, seguir l’Agnello, ma è anche espediente agli altri fratelli di essere da te colla voce e coll’esempio instituiti. Vanne dunque, seppure non t’è grave, e qua mi reca il mantello, che santo Atanasio vescovo di Alessandria ti regalò e chieggio in grazia d’involgere in esso il mio cadavere nel sepolcro”. Ciò disse, riflette san Girolamo, non perché rifuggisse d’interrare ignudo il suo frate, ma perché voleva risparmiargli il gran dolore, che provato avrebbe trovandosi presente alla sua morte, e dare altresì al mondo quest’attestato di devozione a quell’invitto pastore perseguitato a ferro e a sangue dagli Ariani per la cattolica fede della divinità di Gesù Cristo, di cui era in terra contro gli eretici il principale sostegno. Stupito Antonio di tal dimanda, crede vedere in Paolo Gesù Cristo, adorando Dio nel di lui petto abitante come nel suo tempio. Tacque, e molle il ciglio di lagrime, gli baciò gli occhi e le mani, e il passo rivolse al monastero, che fu poscia occupato dai Saraceni. Quantunque il corpo fiaccato fosse dagli anni e dai digiuni, nondimento l’animo, ossia il coraggoi, vincea l’età.
Giunto appena lasso ed anelante nel chiostro, i discepoli che l’incontrarono lo richiesero della causa di tant’indugio, ed egli, “guai a me peccatore, che l’abito di monaco sì indegnamente rivesto. Ho veduto Elia, ho veduto Giovanni nel deserto, anzi lo stesso Paolo nel terzo cielo” : e battendosi in silenzio il concavo petto, gemebondo prende il mantello, ed a discepoli che insistevano per saper l’accaduto “v’ha il tempo, risponde, di tacere e il tempo ancor di parlare”; e senza prender cibo di sorta sen parte ritessendo in fretta il cammino, mentre temeva, che nella sua assenza Paolo a Dio rendesse lo spirito. Né fu già vano il timore. Imperocchè, il dì seguente, dopo tre ore di viaggio per lo deserto, vede aperto il cielo e in mezzo ai cori degli angioli, e fra le schiere dei profeti e degli apostoli, ascendere lo spirito del santo anacoreta alla magion dei beati tutto fulgente di celestiale candore. Cade subito boccon per terra, e spargo il capo di polvere, piangendo e guaiolando: “Perché tu, o Paolo, m’abbandoni? Perché ten parti senza ricevere il mio saluto? Doveva io dunque conoscerti sì tardi, e perderti così presto”? Diceva, e compiè il rimanente della strada con mirabile celerità. Entrato nella spelonca, al vedere l’esanime corpo di Paolo starsi piegate al suol le ginocchia, col capo eretto, e colle mani protese in alto, credendolo sulle prime ancor vivo, se gli pone a pregare dallato. Ma poiché non ode uscirgli nella orazione alcun sospiro, com’era solito, se gli getta al collo con flebile bacio, tutto compreso da meraviglia, che il santo corpo quantunque estinto con quel devoto atteggiamento raccomandasse l’orazione a Dio, a cui vivono tutte le cose. Dipoi, cantando salmi ed inni secondo il rito in ogni tempo usato nella cattolica chiesa, s’accinge ad avvolgere nel divisato mantello il santo corpo, e trarnelo fuori della caverna per onorarlo di sepoltura. S’accorse però di non avere l’uopo alcun sarchiello, e dubbiando se dovesse riedere il monastero, ovvero trattenersi ivi e morire accanto del coronato guerriero di Gesù Cristo, ecco vede smacchiare dall’interno dell’eremo, e a sé venire due leoni, volanti all’aria pel collo nel rapido corso le fulve giubbe. Gelò di orrore in sulle prime, ma volta a Dio la mente, innanzi ad essi quasi fossero due colombe tutto intrepido si restò. Van quelli dritto al morto veglio, e quinci e quindi a’ suoi piedi giù poste le girevoli code e le giubbe, sulle raccolte zampe accovacciansi, e dalle zannute fauci sprigionando con alto fremito i rugiti, a capo chino, siccome possono, lo piangono amaramente. Sorti dappoi, e misurandone coll’occhio la statura, cominciano poco lungi a scavar coll’unghie la terra, e ammonzicchiandone da banda a banda le zolle, aprono una fossa capace d’accoglierne la fredda salma.
Ciò fatto, vanno ad Antonio, a cui lambendo e mani e piè, quasi volessero la benedizione a mercede del già compiuto lavoro, il santo abbate, “o Signore, esclamò, o mio Signore, senza il cui cenno non ispiccasi dagli alberi alcuna foglia, né alcun passere in terra cade, dà, o Signore, ad essi, come tu sai”. Ciò detto, fece lor cenno di ritirarsi, ed ubbidirono senza cotardo. Antonio in fine sottoponendo al dolce incarco di quel cadavere gli omeri antichi, nella preparata fossa il depose, e di terra coprendolo, giusta il costume della chiesa il tumulo rilevò. Morì san Paolo di 113 anni, cominciato l’anno di Cristo 342. È ben da credere, che il grande Antonio passasse in salmi, cantici e benedizioni la notte, avendo presente in quella caverna la cara immagine del santo amico, e della vita angelica che vi condusse. Ma sorto il giorno volendo avere memoria di lui, prese la tonica di foglie di palma, e con tale eremitaggio tornossene al monastero. Quivi ai suoi discepoli narrò tutto per ordne l’accaduto, e di quella tonica come di veste assai preziosa, usò coprirsi nei giorni di Pasqua e di Pentecoste. Affinché poi i meriti di sì gran padre venerati fossero ove già venne sepolto, mandò colà parecchi de’ suoi monaci consacrati al divin culto, e imitatori di sue virtù. San Girolamo, che ne tesse nobilmente la vita, fa tra questo povero anacoreta e i ricchi e potenti del secolo un bel confronto; e posciachè gli esortò ad avere di loro stessi pietà, e distaccare il cuore dall’affetto delle ricchezze e pompe del mondo, conchiude che, se a lui dal Signore data fosse la elezione, molto più sceglierebbe la silvestre tonica di Paolo co’ suoi meriti, di quello sia la gemmata porpora dei regi colle lor pene.
Il corpo del santo eremita riposò per moltissimi anni ove fu sepolto dal grande Antonio, fintantoché l’imperatore Michele Comneno nol fece trasportare a Costantinopoli nel dodicesimo secolo. Indi nel 1240 fu trasportato a Venezia, e in fine per l’opera di Lodovico I re d’Ungheria nel 1381 a Buda, e fu collocato nella chiesa di san Lorenzo martire distante un miglio dalla città, ove con molta frequenza concorre il popolo a venerarlo.
(DAL R.MO P. TOMMASO GIACINTO CIPOLLETTI GIÀ MAESTRO GENERALE DELL’ORDINE DE’ PREDICATORI)